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Umberto Calabria

Da maggio 2017 Roma ha un nuovo birrificio urbano: Jungle Juice Brewing. Ci siamo fatti raccontare la sua storia direttamente dal fondatore, Umberto JJ Calabria.

Scritto da Roberto Contini il 6 giugno 2017
Aggiornato il 27 giugno 2017

Data di nascita

15 maggio 1987 (36 anni)

Luogo di nascita

Roma

Luogo di residenza

Roma

Se la prima decade degli anni Duemila a Roma sarà ricordata per l’esplosione della birra artigianale e per il crearsi di una certa cultura legata ad essa, la seconda probabilmente verrà ricordata per la nascita di diversi birrifici urbani all’interno del Gra. Uno di questi ha aperto i battenti a maggio del 2017 e porta la firma di Marco Umberto Calabria, detto JJ, che, dopo anni da home e gipsy brewer, ha dato pianta stabile ai suoi prodotti firmati Jungle Juice. Lo stabilimento si trova al Mandrione e ha anche una tap room per le degustazioni in loco. Ci siamo fatti raccontare la sua storia in questa intervista.

ZERO: Iniziamo dalle presentazioni, come ti chiami, dove e quando sei nato?
Umberto Calabria: Nel giro mi conoscono come Umberto “JJ” Calabria, anche se il mio nome completo è Marco Umberto Calabria, cosa che ha destato non poche schizofrenie in passato, dato che i miei genitori hanno sempre deciso di chiamarmi “Umberto”. Per quanta riguarda il “Marco” lo sto ancora cercando in giro, prima o poi, forse, lo troverò. Sono nato a Roma e ho da poco compiuto 30 anni, il 15 maggio scorso, seppure sia ancora nel pieno della crisi post adolescenziale!

Quando hai iniziato a interessarti al mondo della birra?
La birra è sempre stata una curiosità velata e inconscia nei miei interessi, da quando mio padre in pizzeria mi concedeva un bicchierino allungato con l’acqua… La scimmia è esplosa a partire da un viaggio in interrail in Belgio nell’estate del 2010, del quale ancora porto i postumi: un amore assoluto per le birre di quella zona. Poi, a partire dal 2011, la scimmia è diventata inguaribile frequentando un corso di degustazione dell’allora Adb Lazio. 

Cosa ti ha spinto a passare da semplice appassionato a home brewer?
Già dalle prime lezioni del corso di cui ti ho appena parlato, mi rendevo conto che volevo andare al di là di quello che stavo imparando a bere, iniziando a conoscere il processo, le materie prime, le tecniche produttive e tutto quello c’era dietro quel “semplice” bicchiere. Iniziare a fare la birra in casa è stata una necessità impossibile da sopprimere. Poi si sa come vanno a finire queste cose: passi da pentole e fornelli a un attrezzatura leggermente più sofisticata, cercando di arrangiarti a trovare le soluzioni migliori, le ricette sempre in testa e la voglia di continuare ad approfondire. Ora posso dire che, da allora, non ho mai smesso di farmi prendere la mano!

Alcuni prodotti firmati Jungle Juice in bottiglia.
Alcuni prodotti firmati Jungle Juice in bottiglia.

Qual è, secondo te, la situazione delle birre artigianali in Italia e, più nello specifico, a Roma?
Questa domanda richiede sempre un’analisi difficile. Io sono un “giovane” del movimento, posso parlare delle mie impressioni ed esporre considerazioni maturate solamente negli ultimi anni. Il mercato della birra artigianale in Italia è in continua crescita da metà degli anni 90, anche se negli ultimi anni si è raggiunto un picco di aperture generalizzato, non sempre accompagnato da un’adeguata capacità produttiva, realizzativa e, soprattutto, da un proporzionato spirito “imprenditoriale” e da un corrispondente – e sempre proporzionato – aumento di locali, rivenditori e anche di bevitori. Al momento si attende un livellamento degli operatori del settore e ritengo che ciò possa avvenire non necessariamente in base a una “selezione naturale” dettata dalla qualità del prodotto, quanto dall’adeguatezza e dalla solidità dell’azienda che lo produce. La parte produttiva è sicuramente la base fondamentale del tutto, ma se non è accompagnata al meglio da tutti gli altri rami dell’organizzazione aziendale – da una buona comunicazione che assicuri coerenza e credibilità del proprio marchio, da un’ottima forza commerciale, da un’amministrazione e logistica sempre sul pezzo – si rischia di realizzare anche ottime birre, ma senza i risultati sperati. Ho omesso una premessa: al giorno d’oggi un birrificio artigianale è una azienda in tutto e per tutto, pur con un core business particolare e sicuramente affascinante, ma come azienda deve muoversi sul mercato, in concorrenza con altre aziende. Al momento la situazione è sicuramente particolare e variegata, dato che le realtà brassicole attive sul territorio sono molto eterogenee, con capacità produttiva e di collocamento altrettanto eterogenee, tali da spezzettare il mercato della birra artigianale in tanti altri piccoli mercati: siamo in un momento di “confusione” piuttosto generalizzata. Confusione, appunto, che il recente fenomeno delle acquisizioni da parte delle grandi multinazionali, le uscite delle cosidette birre “crafty” dei grandi marchi e i relativi fenomeni connessi, contribuiscono a “fomentare” in maniera complessa. 

Fusti e t-shirt.
Fusti e t-shirt.

Da quando hai cominciato a oggi, cosa è cambiato in questo mondo?
Come premesso, sono abbastanza giovane, almeno come presenza all’interno del movimento brassicolo, quindi non ho di certo l’autorità per parlare di questi temi, al contrario di altri colleghi più esperti e attivi da più tempo. Per gli anni a cui mi riferisco, ho notato nel complesso un calo dal punto di vista qualitativo del prodotto e un tendenziale impoverimento dell’ambito “passionale”, a discapito di quello aziendale e imprenditoriale. A volte si perde di vista la passione che ci ha portato a certe scelte, il piacere di condividere difficoltà e gioie, la sincerità del non farsi le scarpe sotto gli occhi. Anche dal punto di vista commerciale, purtroppo, il mercato ha influenzato molte scelte produttive. In molti locali di Roma si è verificato un appiattimento generalizzato di certi stili produttivi, risultando ormai quasi impossibile trovare in vendita alla spina alcune realtà pur diffuse in altre zone, o alcune tipologie meno di tendenza. La varietà della birra artigianale è sempre stata e deve essere un suo punto di forza per il futuro, altrimenti si ricondurrà il tutto a un monoprodotto standardizzato di tipo industriale.

Quali birre, per qualità e stile, pensi siano imprescindibili nella produzione di Jungle Juice Brewery?
In Jungle Juice si fondono linee produttive amate e coltivate nel tempo: un filone anglo-americano, uno belga e uno più recente, caratterizzato dall’utilizzo della frutta come elemento gustativo e aromatico. Per numeri di mercato, la nostra birra più realizzata e venduta è la Baba Jaga, un’American Ipa della quale, ovviamente, andiamo molto fieri. Con piacere, però, portiamo avanti la strada belga con alcune realizzazioni come la Jellyfish, Saison, o la Dentistretti, Tripel. Fortunatamente anche le recentissime uscite alla frutta – una Wit con lamponi e una Session Ipa con anans e mango – stanno riscontrando grande successo. 

La nuova Toda Joia alla papaya firmata Jungle Juice.
La nuova Toda Joia alla papaya firmata Jungle Juice.

Quali birrifici artigianali pensi stiano facendo un lavoro di qualità in Italia negli ultimi anni?
Sono un amante delle persone umili, serie, preparate e modeste. Per bravura nel ricoprire produzioni di tipologie differenti, birre impeccabili e idee produttive innovative, sono molto legato sia a Matteo e Cecilia di MC77 che a Conor di Hilltop. Fortunatamente si trovano ancora ottime persone che sono allo stesso tempo anche bravi birrai.

In questo 2017 sei passato dall’essere un gypsy brewer all’aprire la tua brewery “in carne ed ossa”, al Mandrione, con tanto di tap room. Come nasce questa decisione?
Diciamo che ho fatto pian piano tutti i passetti canonici fino ad arrivare a quest’ultimo step, e di ognuno porto momenti bellissimi, di grande formazione e crescita personale. In realtà, la scelta di aprire un birrificio non era nei piani nel momento in cui ho iniziato a lavorare come “gypsy brewer”, pur ragionando da sempre come “birrificio”, sia in quel frangente, sia ancora prima, a casa, dove mi chiedevo per ogni nuova ricetta se mai fosse stato possibile realizzarla in “grande scala”, pensando in particolare alcune materie prime meno canoniche. A un certo punto è semplicemente nato il bisogno di fare un passo in più e di mettersi alla prova, anche perché molti non ti prendono sul serio come gipsy brewer, pur se si tratta, a mio avviso, di un passaggio fondamentale nel percorso di ciascun birraio. È nata una nuova organizzazione societaria rispetto alla fase precedente in cui ero solo (Marco Mascherini, Claudio Lattanzi, Marco Valentini ed Emanuele Grimaldi i nuovi soci, nda), è iniziata la ricerca di un posto nella parte urbana della città, è maturata la voglia di avere sotto controllo tutto il processo produttivo, cercando, contemporaneamente, di dare una bella sistemata anche alla mia vita personale.

Qual è la differenza principale tra l’essere un gypsy brewer e avere un proprio impianto?
Sono due esperienze nettamente diverse, pur connesse tra loro, a patto che la prima la si faccia “a modo”. Facevo birra in ottimi birrifici e collaboravo con grandi birrai e grandi persone, quindi la sfida iniziale era puntare a realizzare birre che almeno eguagliassero un livello produttivo differente. Un’ottima cosa che deriva dall’avere un proprio impianto e seguire tutto il ciclo produttivo è che i tempi di miglioramento sono estremamente più rapidi e fruttuosi. La possibilità di poter correggere personalmente ogni passaggio e ogni scelta ti dà un grande potenziale di crescita.

L'opening day del birrificio Jungle Juice.
L’opening day del birrificio Jungle Juice.

Come avete trovato lo spazio che ora ospita l’impianto e che attività c’era prima?
Abbiamo fatto un po’ di ricerche puntate per zone. L’idea è sempre stata quella di realizzare un “birrificio urbano” sullo stile dei molti nati a Londra negli ultimi anni. La zona del Mandrione ci piaceva moltissimo e devo dire che siamo riusciti a trovare uno spazio adeguato quasi alla prima visita. Nello stabilimento di produzione prima c’era un pastificio, che era chiuso ormai da diversi anni.

Quanti litri avete in programma di produrre?
Al momento, data la capacità della cantina, possiamo arrivare massimo a 800/900 hl all’anno. Abbiamo una sala cottura molto comoda e già pensata in proporzione, avendo fatto la scelta di investire di più su quella, con la possibilità di triplicare tranquillamente la cantina attuale. 

Come distribuirete principalmente la birra, in bottiglia o tramite fusti?
Sono un amante della birra in fusto e attualmente il nostro mercato è basato quasi totalmente su di essa, sia per freschezza sia per comodità, potendo contare al momento solo su una piccola imbottigliatrice manuale. Abbiamo iniziato a fare un numero limitato di bottiglie che saranno venute direttamente in tap room o su richiesta a chi ha il piacere di averle nei propri locali. 

La squadra Jungle Juice in bottiglia.
La squadra Jungle Juice in bottiglia.

Troveremo le birre Jungle Juice anche al di fuori di Roma?
Sì, da questo punto di vista un piccolo mercato già lo avevo come beer firm, ma, ovviamente, al momento si sta allargando enormemente. Abbiamo da poco iniziato a lavorare con una piccola distribuzione al Nord e lavoriamo discretamente in maniera diretta in Sicilia, Marche, Abruzzo e Toscana.

Se dovessi citare uno stile di birra che ti sta particolarmente a cuore o che reputi particolarmente riuscito?
Ho sempre provato tanto amore per la Jellyfish, la Saison che è stata la prima produzione da beer firm insieme alla Baba. È una birra che facevo a casa e che ha davvero pochissimi punti di differenza rispetto a quella che produciamo adesso. Alla Jellyfish sono stato sempre particolarmente legato, anche perché ricerco costantemente di migliorare tutti gli equilibri che la compongono e che mi intrigano particolarmente. Per quel che riguarda le birre “nuove”, sono rimasto molto contento dalla prima Fruit Jay, la base Belgian Wit con i lamponi, che è stata la prima birra realizzata in vita mia con la frutta. Per le birre più recenti sono sempre molto soddisfatto della Marisol, una Pale Ale luppolata di 4 gradi, nata come birra estiva e diventata stabile per quanto ci piaceva berla tutto l’anno; qui si è cercato di dare una sfumata di aromi “americana”, pur utilizzando solo luppoli europei: il risultato complessivo mi ha sempre affascinato. 

Qual è il processo che ti porta a creare una nuova birra?
Non esiste un procedimento standardizzato. Mi capita spesso, però, di entrare in contatto con un’idea particolare o un ingrediente che reputo interessante – solitamente mentre mi capita di fare tutt’altro – e da lì prende forma la birra nel suo complesso. Per alcune ricette più “standard”, ovviamente, è tutto più semplice perché si parte già da basi più o meno consolidate. Per quanto mi riguarda, le idee più interessanti sono quelle sopra le righe: sono anche le più stimolanti perché ti costringono a lavorare in funzione di un qualcosa che dovrà essere necessariamente concreto, ma che, nel momento iniziale del processo, è una fatto solo di pura immaginazione. 

Umberto in fase di cotta.
Umberto in fase di cotta.

Parlando invece dei “colleghi” birrai, se dovessi indicare le brewery in ascesa o quelle sulle quali punteresti?
Di birrifici che stimo ce ne sono molti e con essi molti birrai, alcuni dei quali già citati in precedenza. Rimanendo in zona, trovo che la realtà “romana” negli ultimi anni stia dando vita a un movimento interessante e con ottime potenzialità, di cui siamo lieti di far parte da “ultimi arrivati”. Eternal City, Ritual Lab, Rebel’s, Vento Forte, il già citato Hilltop, sono tutti birrifici avviati da poco tempo, ma già con ottimi riscontri e peculiarità personali ben marcate. In questo discorso lascio un attimo da parte Andrea di Vento Forte, solo perché sicuramente già “pro” in tutto e per tutto, con molti marchi di fabbrica che gli assetati in giro per l’Italia ricercano e stimano a più non posso (le varie luppolate: Session, Follower, CAL, sino al filone delle “juicy” e Neipa, oltre che su fermentazioni più ricercate come le Farmhouse). La cosa che reputo più interessante nel complesso è che, nonostante un comune denominatore basato sull’utilizzo del luppolo, ognuno ci metta del suo e faccia le cose in maniera diversa dagli altri. Conor, senza dubbio, è il più legato a una metodologia e all’influenza anglosassone, che fa vivere a pieno in ogni sua produzione. Pomata – aka Maurizio Graziani – di ECB si pone più nel mezzo, utilizzando ingredienti sia tipicamente anglosassoni che statunitensi, con l’obiettivo di dare sempre una discreta bevibilità alle proprie birre. I ragazzi di Rebel’s e Ritual sono forse i più “moderni”, producendo in isobarico con luppolature molto spinte e lasciando spesso la base maltata delle luppolate più scarica possibile. Noi ci teniamo un pochino nel mezzo: produciamo ancora in rifermentazione pur facendo luppolature anche molto estreme, ma cerchiamo di caratterizzare un po’ anche la base maltata, puntando in ogni modo a rendere facile la bevuta. Il bello del movimento attuale è che tutti fanno anche altro – seppure in maniera oserei dire più che discreta – con addirittura picchi di eccellenza. Conor produce molte birre più maltate, una fantastica Stout, di recente una Hoppy Pils, sino a una birra completamente tradizionale come la Barry’s Bitter, passando per l’utilizzo di spezie e ingredienti particolari come nella Calandrina (una Saison) e Zenzero (una Tripel). Pomata realizza la Dea, un’ottima Golden Ale da bere a sorsate, passando per l’Arvalia, una Belgian Ale molto riuscita, e sperimentando con la Caledonia, ottima Scotch Ale invecchiata in botti. Giovanni di Ritual, dal canto suo, ha da sempre puntato molto sulle basse fermentazioni, riuscendo a toccare picchi di eccellenza sia con la Ritual Pils che con la Bock. I Rebel’s, oltre all’amore per il luppolo, portano da tempo avanti un discorso sul Belgio, con varie Saison e la Serial Tripel, sperimentando spesso con il sour wort o con l’utilizzo di frutta. Dal canto nostro, come detto sopra e posto l’amore per le luppolate, cerchiamo di puntare da sempre sul Belgio, affiancando ricette più particolari, come le citate alla frutta o la Ed Wood, una Red Ale tipicamente anglosassone con aggiunta di sciroppo d’acero. Per concludere, ho voluto citare tutti questi esempi per far capire come l’obiettivo comune della realtà romana sia quello di specializzarsi e caratterizzarsi su una varietà di stili e tipologie produttive differenti, anche al di là del grande papà luppolo del mercato che tipicamente ci riguarda.  

Quando non sei in fase di produzione o a studiare qualche nuova ricetta, cosa e dove ti piace bere?
Ovviamente frequento molti locali della mia città, ma le esperienze che più mi piacciono sono quelle al di fuori di Roma, quando ho la possibilità di bere birre a volte “dimenticate” nella Capitale, in un clima spesso molto più rilassato e confortevole di quello a cui sono abituato. Ultimamente capita pochissimo, ma i viaggi all’estero sono delle occasioni sempre uniche per conciliare situazioni di rilassatezza allo studio, sia di tecniche produttive che di ambienti sociali differenti legati alla birra artigianale. Spero di trovare il tempo per cominciare a depennare qualche tappa in programma quanto prima! 
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