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FontanaArte compie novant’anni

È dal 1932 che ci si abbronzano le idee sotto i soli di FontanaArte: per il suo novantesimo si scopre l’archivio storico, esce una nuova collezione e c’è la mostra a cura di ZERO

quartiere Brera

Geschrieben von Piergiorgio Caserini il 3 Juni 2022
Aggiornato il 7 Juli 2022

Non bisogna essere studenti di design per sapere che cos’è FontanaArte. Detta in due parole, è una delle aziende nostrane più celebri nella produzione di lampade. Al mondo. Sì, perché FontanaArte ha in sostanza contribuito a creare uno scenario ibrido, per certi aspetti inconsueto negli anni passati, in cui la produzione artistica entrava nell’ambiente domestico e la casa si intingeva un po’ in quell’aura che è più caratteristica dell’opera d’arte che dell’opera di design. Insomma, per certi aspetti si è fatto qui quel che ci si augurava facesse il design fin dalle sue origini, con l’antesignano William Morris e le sue Arts and Crafts: portare nella produzione artistica la verve, gioiosa a detta sua, dell’artigianalità. Seppur a dirla tutta Morris non fosse proprio a suo agio con l’industrializzazione imperante – perché in ogni caso parliamo della seconda metà dell’Ottocento –, il romanticismo da ciabattino industriale che sta alla base delle incredibili decorazioni floreali delle Arts and Crafts è ancora oggi un prerequisito per ogni designer. Perché l’idea è quella di pensare un lavoro di produzione che riesca a raccapezzarsi in quel groviglio di impressioni che è da sempre bagaglio della progettualità dei designer: l’appropriatezza tra forma, funzione e contenuto – alias: la vita e l’espressione di chi queste cose le produce.

Così arriviamo a FontanaArte, che quest’anno fa i novanta. Che sono tanti per un brand di design e arte, e le ragioni della sua longevità sono le icone che ha prodotto nel corso di questi novant’anni, le firme che l’hanno percorsa, la storia che ha fatto, il rapporto con l’arte e l’artigianato che vi dicevamo sopra, il tutto esplorando in lungo e in largo le espressioni disparate della modernità italiana, arrivando a soluzioni formali degne di nota rispetto alle lavorazioni artistiche, nello specifico, del vetro (e del metallo). Perché la storia intera di FontanaArte si gioca tra le forme vuote del vetro e il rapporto che intrattiene con la luce, a cominciare dai rapporti di fondazione del brand, nel 1932, tra Luigi Fontana, imprenditore del vetro, e quel gigante di Gio Ponti nella direzione artistica (che all’epoca lavorava per Richard Ginori).

Novant’anni così: sulla cresta dell’onda di luce, sulle rifrazioni di una curva vetrata.

FontanaArte nasce effettivamente poi quando il duo incontra e acquisisce una piccola bottega milanese specializzata nella lavorazioni del vetro, gestita da Pietro Chiesa. Amore a prima vista, e il trio Fontana-Ponti-Chiesa (già un’architettura di cognomi) si prende tanto bene che assieme conducono l’azienda ai vertici del settore, non soltanto collaborando con progettisti pazzeschi, ma sviluppando tecnologie uniche per la lavorazione vetraia – tipo un forno, veramente unico nel suo genere, per le curvare in ogni modo il vetro. Insomma, dovete immaginare un clima vivace, di scambio, e d’altronde non poteva andare diversamente. Le direzioni artistiche si susseguono con Pietro Chiesa, che disegnerà l’iconica “Luminator”; Max Ingrand – altro maestro vetraio e decoratore –, a cui si deve “Fontana”: una specie di bestseller, l’abat-jour per eccellenza; Gae Aulenti – tutti sappiamo chi è – che farà Giova, ibrido vaso-lampada che gioca sulle curve infinite della sfera; poi Giorgio Biscaro e dal 2018 Francesco Librizzi, con le sue forme quasi-astrali, gravitazioni dimasse e traiettorie circolari, della collezione Setareh.

Che dire, novant’anni così. Sulla cresta dell’onda di luce, sulle rifrazioni di una curva vetrata. Novant’anni che convergono durante la tempesta di design del Salone di giugno, una congiunzione potentissima. Perché, in linea con la brevissima rassegna storica che vi abbiamo fatto, FontanaArte organizza 90 Years of Art and Light, e apre al pubblico una prima parte dell’immenso archivio: Milano 1932. Dopo un lavoro che ci immaginiamo immenso, da archeologi, archivisti e digitalizzatori, saranno passati in rassegna un nucleo di 580 oggetti, tra cataloghi, schede di disegni e stampe, documenti e fotografie. Un Caveau Digitale, come lo chiamano, per poter attingere a tutta una serie di materiali interconnessi, quelle pregerie della storia che sono le miniature a colori di Luigi Fontana o i disegni originali di Gio Ponti. Tutto questo, per la Milano Design Week, diventa ARCHIVIO. The Secret Light, un format che racconta gli archivi nelle parole di chi gli archivi li cura, di chi nei viaggi nel passato ci ritrova una goduria senza precedenti per gli occhi e il sapere: gli archivisti.

Ovviamente, poi, si poteva non realizzare un trittico di lampade pensate apposta per la celebrazione del novantesimo? La risposta è no, ed eccoci alle nuove tre lampade progettate rispettivamente da Matilde Cassani, Luca Guadagnino e Oscar e Grabiele Buratti, che saranno esposte assieme alla collezioni storica da Cambi Casa d’Aste, allestita da Francesco Librizzi Studio. E infine, ci sarà anche la risposta alla domanda che ha aperto quest’articolo: chi c’è oggi, a Milano, a fare la stessa luce che s’intravedeva dalle serrande di FontanaArte? La risposta arriva con una mostra fotografica curata da noi di ZERO con il contributo creativo della fotografa Roselena Ramistella. Ci saranno i ritratti di venti figure meneghine che continuano a illuminare la città, che la orientano, che ne fanno una mappa di luce per orizzontarsi nelle idee e le suggestioni, nelle tendenze e nei desideri, che da sempre muovono le città tutte.