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The Virus Diaries – Settima parte

Un racconto della serie di ZERO 'Propagine. Storie del contagio'

Geschrieben von Marina Zucchelli il 4 April 2020
Aggiornato il 15 Mai 2020

Illustrazione di Roberto Alfano

 

STUPORE E TERRORE

I segni del cambiamento vanno cercati ovunque. Io in particolare li vedo nelle mani del bambino. Quand’era un bambino urbano cadeva nel parco e guardandosi le mani, sporche di terra o di polvere di ghiaia, inorridiva. Ora prende con le mani la cacca delle galline, affonda le braccia nella vaschetta del gelato che fa loro da abbeveratoio, e a sera, dopo il bagno caldo, le sue mani diventano rosse, dure, crespe come certa carta per fare gli origami. Non è più il bambino che era prima della quarantena, e a guardarlo correre dietro a un gruppetto di galline che poi a loro volta lo inseguono per chissà quale misterioso motivo animale, mi domando – anche a voce alta – come farò a riportarlo a casa, nell’appartamento. Quando mio marito ci videochiama, e mostra al bambino i giocattoli nella sua stanza, e la sua stanza stessa, il bambino rimane a fissare quegli oggetti, quegli spazi, con uno stupore che arrivava a toccare i contorni grigi e arricciati del terrore. È il suo mondo sommerso, che riemerge da chissà quali profondità, io e suo padre glielo mostriamo compiaciuti, come dentro a un sogno terribile. Lui sgrana gli occhi, guarda la sua piccola cucina, il suo tamburello, il cavallo di pezza, e batte le ciglia.

Dov’era finita tutta quella roba? Dentro quale ricordo assurdo si nascondeva?

Io e mio marito ne ridiamo, di quel suo indicare e voler acchiappare, attraverso lo schermo, uno di quei giocattoli. Ma a lui deve sembrare forse uno di quegli incubi in cui non si riesce ad afferrare un oggetto, quello che ci scivola sempre tra le mani, che sono artigli inservibili, come ganci di quelle teche piene di peluche nei centri commerciali. Pure noi stiamo così, a voler afferrare il nostro mondo congelato, vivo solo nelle gallerie di foto dei nostri cellulari, pieno di cose di cui non ci ricordiamo l’utilità. Attraverso lo schermo vediamo il fantasma di noi, senza piedi, come quelli dei racconti giapponesi, che arrivano nel cuore assurdo della notte coi loro sandali di legno facendo quel suono secco, koran koron koran koron.

INSERVIBILI

Ogni mattina, al risveglio, si rifà il percorso daccapo. Ci si dice: siamo in quarantena, i bar e i ristoranti sono chiusi, chiusi i negozi, le scuole, non si va al lavoro. Bisogna risollevare la coperta ogni giorno, scoprire sotto di essa il mondo addormentato, l’Atlantide immobile; ogni mattina. La notte ha come azzerato i nostri ricordi recenti, e affacciandoci alla finestra si ha effettivamente la percezione del reale, il silenzio soprattutto, a cui ci si è, incredibilmente, affezionati. E ogni settimana finisce, e noi la impacchettiamo e la mettiamo via, su uno scaffale, in un congelatore immaginario, come fanno i macellai con le parti delle bestie.

Ci diciamo: un’altra settimana è passata, finita. Come a volercela effettivamente togliere davanti. La spacchetteremo poi, nella fase 6 o nella fase 7.

Il pomeriggio si inoltra invece, come un rifugio. Fuori, col bambino, troviamo quelli che chiamo per lui fiori che si soffiano. Ci andiamo proprio alla ricerca, e quando ne troviamo uno io dico: Eccolo! E il bambino ripete: Ecco! Gli dico di prenderlo, lui si piega sulle gambe come spingendo a terra il sedere, afferra il fiore e lo strappa, gli dico di soffiarlo, e lui lo fa; sono in ginocchio, mi godo il sole di traverso che anticipa la sera e che ci illumina di taglio. Ma la simbologia è troppo forte, trita, disneyana, e io cerco di rovinare tutto. Gli dico che basta, bisogna andar via, rientrare, è tardi. Lui molla il fiore ormai nudo, che senza quei peletti bianchi è solo un gambo senza corona, e il fiore atterra spezzato, inutile, tra l’erba scapigliata. Io mi alzo e mi allontano, il bambino mi segue, e camminando si guarda le scarpe come a chiedere cosa si sia fatto di male.

LA BESTIA INTERA

Fratello 1 fa il barbecue per il suo compleanno, fa il pulled pork. La sera prima, la sera del 3 aprile, indossa i guanti celesti, spacchetta la spalla di maiale avvolta nella carta oleata, la guarda, la prende tra le mani chirurgiche. Mi stupisco quasi che non abbia la mascherina per fare quell’operazione. L’i-pad acceso davanti a lui, in modalità stand by allungata a un’ora, riporta le quantità del trito di spezie necessarie alla marinatura della carne. Prende la bilancia e inizia a misurare la paprika, la polvere di senape, lo zenzero, il miele, e tutti gli altri ingredienti disposti davanti a lui in sequenza, secondo l’ordine che suggerisce la ricetta sull’i-pad. Anch’io vorrei essere come lui, saper fare le cose in maniera metodica, ritornare sempre alla logica, e anche quando cucino non stare lì a inventarmi scuse se non ho un ingrediente, non sostituirlo con un altro pensando andrà bene lo stesso, andrà tutto bene. Vorrei usare sempre le componenti esatte, nelle quantità corrette, nel giusto ordine. Fratello 1 lavora come operaio per una grande multinazionale. Quando ci invitò, a settembre, alla festa per i 50 anni dello stabilimento, portava un paio di jeans blu scuro e una polo bianca. Ci diedero dei pass da appendere al collo, e scaglionati per orari ci fecero fare il giro delle strutture, capannoni enormi come hangar, il cui percorso era segnato a terra da frecce colorate. Qui si producono le componenti, qui si assemblano gli interruttori industriali, qui le spedizioni, poi la robotica, i computer che segnano quanti pezzi produce quella squadra, quell’operaio. Un pomeriggio caldo fatto di tartine al formaggio e caffè espressi serviti da un robot. Posso fare riferimento a questo scenario ora che la produzione, le fabbriche, sono le parole che aleggiano nel nostro mondo pandemico, come se il paese fosse una grande industria e noi tutti fossimo operai, che fanno il loro turno, rispettano la distanza di sicurezza con l’altro operaio, producono il proprio arnese in ambienti sanificati, e finito il compito tornano in case silenziose, dove li aspettano i figli reclusi, mogli e mariti. Fabbriche, di questo si parla ora quando si parla di lavoro. I politici in tv dicono con disinvoltura: il manifatturiero, come fosse un mondo ovvio, come fosse l’unico. Mi pare ci si dimentichi della realtà delle cose: le donne delle pulizie nelle case, gli avvocati nei tribunali, i cuochi delle mense, i commessi dei negozi, gli insegnanti di scuola guida, gli allenatori di bambini nei campi sportivi.

Siamo come in una ipotetica Pyongyang; avanziamo composti e distanziati mentre l’economia si sublima.

Siamo tutti perfetti in questo nuovo ordine industriale, come mio fratello, che è il numero 1, alto e magro e moro, con le dita lunghe a misurare con strumenti di precisione la quantità di ogni ingrediente, così da calibrare ogni elemento e non sbagliare nulla. Fratello 1 passa l’insieme delle spezie nel grinder, trita foglie, polveri, sciroppi, poi li scarica in una ciotola. Una volta preparato il composto lo versa sulla spalla del maiale, che a volercela vedere si capisce dov’era la bestia intera, tagliata via, con le sue mille parti, esterne ma soprattutto interne, complesse e meno uniformi della spalla, che forse del maiale è la parte più compatta, più facile. E mio fratello la strofina con dolcezza, massaggiandola con mani di lattice.

The Virus Diaries: prima, seconda, terza, quarta, quinta, sesta parte.