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Consigli per gli ascolti #7

Scoperte, novità, dischi oscuri e colonne sonore del 'lockdown' scelti e commentati per noi da musicisti, direttori artistici, negozi di dischi, etichette e radio indipendenti

Written by Chiara Colli il 12 May 2020
Aggiornato il 13 May 2020

Henry Rollins in quarantena nel suo basement

Puntata #3

 

GIANLUCA GOZZI


Praticamente tutte le strade della musica “alternativa” a Torino portano a lui. Da vent’anni Gianluca Gozzi traccia percorsi indelebili per la musica dal vivo della sua città: prima con la fondazione e la direzione artistica di uno dei club più attivi in Italia per l’indie rock, Spazio211, poi con quella del Blah Blah. Nel 2015 il grande passo a livello nazionale con la creazione di TOdays, uno dei festival marcatamente più “europei” che abbiamo in Italia (la cui edizione 2020 è attualmente confermata, con tra gli altri Grace Jones e DIIV in line up) e più di recente la direzione artistica de Il Circolo della Musica di Rivoli/Torino.


Hüsker Dü – “Candy Apple Grey” (Warner Bros, 1986)
“Candy Apple Grey” uscì in un marzo di 34 anni fa, ed è un disco storico. Non perché sia il miglior disco degli Hüsker Dü, ma perché fu il primo album degli Hüsker Dü, e di tutto il movimento indipendente americano, a essere pubblicato su un’etichetta major. Il mainstream cominciava ad accorgersi dei gruppi indie americani e delle label che li supportavano verso la metà degli anni Ottanta, intravedendo un mercato in grado di rilanciare il music business. Gli Hüsker Dü da Minneapolis furono i primi a firmare per la major Warner Bros, pur mantenendo la loro autonomia musicale e contrattuale: da sempre alternativi tra gli alternativi non si sono mai limitati a seguire le regole canoniche del genere musicale, divenendo una delle band più innovative di quegli anni e per il sottoscritto una delle migliori band degli ultimi trenta anni. Alfieri del Do It Yourself, con il loro look da dopolavoro del Minnesota, con questo disco poterono permettersi di firmare per una major senza essere accusati di vendersi. La seconda traccia “Don’t Want To Know If You Are Lonely” è una delle migliori canzoni di sempre: melodia, chitarre velocissime e i tipici stacchi degli Hüsker Dü. Il testo è puro risentimento da adolescenti verso chi ti abbandona. Stupendo!

LUCA COLLEPICCOLO


Oltre a essere colonna portante di uno dei distributori più importanti in Italia per la musica indipendente, Goodfellas, Luca è anche uno dei più autorevoli “pusher” per un certo tipo di musica di ricerca in Italia (world, jazz e sperimentale soprattutto). Da anni ormai lo fa dalle colonne di Blow Up, con i suoi dj set “esotici” e saltuariamente tra gli scaffali di uno dei nostri negozi di dischi preferiti, Radiation (menzione d’onore per la sua indimenticata trasmissione su Radio Città Aperta, Spiritual Unity). Ultimamente, abbiamo anche la fortuna di ospitare la sua penna sulle pagine di ZERO.


Tortoise ‎– “Millions Now Living Will Never Die” (Thrill Jockey, 1996)
Dov’eri nel 1996? Intendo dire mentalmente, non certo in quale luogo. Ti eri sorbito il revival (pop)punk, avevi assistito all’ascesa e relativa decadenza del brit-pop, ti crogiolavi ancora tra post hardcore e noise rock di quello autentico (da casa Touch & Go ad Amphetamine Reptile, via zone limitrofe). Ma presto le chitarre ti avrebbero in qualche maniera urtato. Quando arrivò quel primo omonimo oggetto non identificato lavoravi nel mezzogiorno, per un noto distributore indipendente. Il debutto dei Tortoise era raggelante nella sua scheletrica disciplina, avevi ascoltato senz’altro i Bastro (che godimento, quando Dave Grubbs lanciava fendenti con la complicità delle future tartarughe John McEntire e Bunfy K. Brown), poco più che sfogliato i dischi degli Eleventh Dream Day e amato per quel poco che ti era stato concesso i Tar Babies. Ma i Tortoise rompevano con il post punk e quello che sarebbe accaduto con il secondo album “Millions Now Living Will Never Die” poteva tranquillamente iscriversi alla voce miracolo. Nel primo disco si era fatto a meno della sei corde, mentre qui entra in campo il genio di David Pajo (un altro che con gli Slint l’aveva appena cambiata la storia). Non chiamatelo post rock, musica totale andrebbe meglio, non fosse il termine troppo magniloquente. Da quel giorno per me non sarà nulla più come prima, mentre prendevo le fatali sbandate per Sun Ra e l’Art Ensemble Of Chicago (guarda caso altre genti che a Chicago hanno a lungo stabilito il loro quartier operativo) imparai a crescere con i Tortoise, sezionando ogni loro più remota influenza. Dal dub bianco di casa On-U Sound ai pattern minimalisti di Steve Reich, dalle scansioni motorik alle sentite elucubrazioni di stampo elettronico (guarda caso il capolavoro “The Taut And Tame” verrà remixato da Luke Vibert mentre l’altra pietra d’angolo “Djed” dagli UNKLE). Potrei ascoltare questo disco anche a distanza di cinque anni – quello che è accaduto prima di mettermi davanti alla tastiera – e conservare intatti quei ricordi e quelle emozioni.

MICHELE PALOZZO


Nel fermento perpetuo di Milano, Plunge – di cui Michele è direttore artistico – è uno dei non-più-giovani (nasceva ormai cinque anni fa!) progetti dedicati alla sperimentazione sonora che con continuità ha tracciato un percorso di ricerca riconoscibile, attingendo tanto dai grandi nomi internazionali quanto dalle piccole realtà dell’underground italico. Partito “dal basso” con una prima stagione autonoma in vari spazi della città, da qualche anno Plunge cura la direzione artistica di Inner_Spaces, la rassegna del lunedì ospitata e condivisa con San Fedele Musica – quest’anno conclusasi anticipatamente a causa dell’emergenza Covid-19.


Skúli Sverrisson, Óskar Guðjónsson ‎– “The Box Tree” (Mengi, 2012)
Per contribuire con qualcosa di davvero unico, ho cercato nei miei archivi quei dischi la cui bellezza sia inversamente proporzionale alla loro notorietà, ripescando un gioiello “post-jazz” che verosimilmente non più di un ascoltatore su mille conoscerà. “The Box Tree” è la seconda – e a oggi ultima – collaborazione in studio tra il sassofonista Óskar Guðjónsson e il bassista Skúli Sverrisson, due islandesi dal talento melodico straordinario ma con un tocco caldo e delicatissimo, davvero capaci di racchiuderti in una confortevole bolla di pacificazione mentale/spirituale – e chi non ne ha bisogno, ora come ora? Il sax tenore di Guðjónsson ha la stessa qualità flautata del più noto trombettista Arve Henriksen, ma ancor meno tesa alle tonalità acute, adagiata sulle stesse flessuose vibrazioni di un contrabbasso senza ruvidezze, lirico come il liuto del maestro rinascimentale John Dowland. Miglior disco jazz/blues agli Iceland Music Awards del 2012, il riconoscimento più grande che “The Box Tree” può ottenere è la riscoperta da parte vostra, indipendentemente dai generi che solitamente prediligete: questo gioiello è davvero per tutti.

MORENO MARI


Fondatore di Neu Radio, ex voce storica di Radio Città del Capo, la storia di Morra Mc, all’anagrafe Moreno Mari, ha inizio nella “Bologna di una volta”, quella degli “indipendenti” che hanno creato l’humus culturale della città. Ex musicista punk, poi attore, conduttore radiofonico e organizzatore di eventi, Moreno è anche l’ideatore di Garden Beat, festival dedicato alla cultura black che da qualche anno delizia Bologna col sole caldo di agosto.




Yussef Kamaal ‎– “Black Focus” (Brownswood Recordings, 2016)
Questo disco rappresenta la sintesi di un suono già presente nell’underground della South London – il furore di grime e jungle, le trame del jazz e il calore malato del funk. Un disco capace di far viaggiare la mente, anche in questi tempi oscuri: 9 tracce composte e suonate da Yussef Kamal, con al banco del mixer l’esperto musicista e produttore Malcom Catto degli Heliocentrics. Yussef Kamal sono una coppia formata da Yussef Dayes (batterista dal magico e fantasioso tocco afrobeat) e da Kamal Williams (talentuoso tastierista che reincarna perfettamente lo spirito del jazz anni 70, sperimentatore e pieno di groove). I due riescono nell’impresa di far uscire un disco ricco di sfumature, raffinato e iconico, che ricorda i loro imperdibili e trascinanti live. Nonostante insieme abbiano riscosso un notevole successo, i caratteri dei due si sono presto rivelati incompatibili lasciando che entrambi intraprendessero fortunate carriere da solisti. Ma la potenza evocativa di questo disco – lungo poco più di 40 minuti e completamente strumentale – che riesce a unire varie forme di black music ci darà sempre la possibilità di un carnale viaggio cosmico.

SIMONE CASTELLO


Prima la rassegna itinerante Il Cielo Sotto Milano, poi il brand di produzione eventi Sherpa Live, nel frattempo la nascita di Costello’s, agenzia media ma poi anche booking ed etichetta discografica con un occhio attento al sottobosco indie pop italico. Ormai da quasi dieci anni il nome di Simone Castello è legato a quasi tutto l’indie – in gran parte made in Italy, ma anche straniero – più o meno emergente che passa a Milano, in particolare grazie all’attività del Circolo Ohibò (di cui da qualche anno è il direttore artistico), ma anche attraverso manifestazioni di “scouting” come il Pending Lips Festival.


Simian Ghost ‎– “The Veil” (Playground Music Scandinavia, 2014)
In questi tempi bui bisogna cercare di pensare il più possibile a cose belle, altrimenti diventa difficile mantenere un equilibrio emotivo-psicologico. In quest’ottica, mi sento di consigliare l’ascolto di “The Veil” degli svedesi Simian Ghost, che ho avuto anche il piacere di ospitare in un freddo febbraio di qualche anno fa, dentro un Circolo Ohibò forse un po’ troppo poco frequentato per un concerto e un progetto di tale spessore. Si tratta dell’album più ricco e complesso della band, e al suo interno si trovano delle vere gemme che richiamano il meglio del repertorio soft dei Beach Boys – ottenute grazie a un uso sopraffino delle armonizzazioni vocali e di pochi ed essenziali strumenti acustici – come anche dei leggerissimi viaggi di puro indie pop scandinavo, ma anche virate più electro-pop con delle potenziali hit internazionali come “Never Really Knew”, senza fare a meno di onirici intermezzi strumentali a far da collante alle varie “sezioni” e anime del disco. Ben 18 tracce, pubblicate anche in edizione speciale su doppio cd, che ho avuto la fortuna di acquistare durante la data al Circolo e che custodisco gelosamente nella mia collezione casalinga. Sono rimasto talmente folgorato da “The Veil” che nelle mie playlist private c’è sempre un brano tratto da questo album, il cui ascolto spero possa emozionarvi come fa con me.

YURI TOCCACELLI


In principio fu Loose Habit, rassegna dedicata all’elettronica con residenza tra il Circolo degli Artisti di via Casilina e il Lanificio159. Dall’ideazione di quell’appuntamento itinerante sono passati 10 anni e il nome di Yuri Toccacelli ha continuato a essere legato a importanti realtà della musica dal vivo a Roma, prima con Ausgang, poi con la nuova vita del Monk e nel frattempo con la nascita del festival di elettronica, sperimentazione e arti visive Manifesto (che nel club di via Mirri ha la sua casa), la cui edizione 2020 è stata per ora annullata a causa dell’emergenza sanitaria. Da qualche anno ormai, Yuri è anche nel team booking di 3D e DNA Concerti.


Mark Barrott ‎– “Sketches From An Island” (International Feel Recordings, 2014)
Questo è un disco a cui sono particolarmente legato e il cui ascolto non mi annoia mai. Descrive perfettamente un certo tipo di atmosfere, cosiddette “baleariche”, che riconduco a buona parte del Mediterraneo. Ciò che mi lega di più a questo disco è il ricordo di un viaggio con la mia compagna nella “Ibiza alternativa”. Grazie a degli amici che vivono lì, abbiamo avuto la possibilità di vedere e assaporare ciò che realmente comunica il disco: i paesaggi di un’isola stupenda (che è molto di più di ciò che tutti conosciamo), degli scorci selvaggi meravigliosi, “puro campo” come dicono, el far de Punta Moscarter, il semplice rimanere in silenzio a osservarne i colori, per finire con il conoscere direttamente Mark Barrott che seleziona musica al tramonto in un bar in riva al mare (inutile dire l’atmosfera che si è creata). In questo periodo è un album che mi aiuta perché si può ascoltare a qualunque ora, permette di viaggiare con l’immaginazione, di rilassarsi o gustarsi una birretta in balcone o nella terrazza condominiale contemplando il tramonto. Gli echi e i rimandi del disco si rifanno a tanta musica che amo come la library, le colonne sonore, la balearic e la disco.

I CONSIGLI PRECEDENTI

  1. Puntata #1
  2. Puntata #2
  3. Puntata #3

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