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Consigli per gli ascolti #7

Scoperte, novità, dischi oscuri e colonne sonore del 'lockdown' scelti e commentati per noi da musicisti, direttori artistici, negozi di dischi, etichette e radio indipendenti

Scritto da Chiara Colli il 12 maggio 2020
Aggiornato il 13 maggio 2020

Henry Rollins in quarantena nel suo basement

CRISTIANO LATINI


A lui si deve una delle cose migliori successe a Roma per la musica negli ultimi anni. Cristiano Latini è il ragazzo sorridente che probabilmente vi ha spillato una birra o accolto all’ingresso del Klang, spazio devoto alla musica di ricerca (elettronica e noise, ma non solo) che ha aperto a fine del 2018 e già casa di molte orecchie avventurose romane. Il passato da tecnico del suono e da cultore della birra artigianale, racconta di altre due peculiarità del suo locale (invero, “né un club, né un ristorante o pub”): l’acustica impeccabile e l’offerta beverage e food di qualità.


Cucina Povera – “Tyyni” (Night School, 2020)
Da vorace fruitore di suoni, ho preso questa reclusione forzata come un’occasione per smaltire quanto più possibile l’infinita lista di pubblicazioni da recuperare o scoprire, complici due buoni monitor da studio e una quantità di tempo indefinita. Con rammarico, ho scoperto che in questo assurdo momento storico che stiamo vivendo la mia capacità ricettiva è pressoché pari a zero. Ho sentito centinaia di dischi, ma contrariamente al solito mi trovo a essere quasi impermeabile. Il periodo è certamente ricco di preoccupazioni e suppongo che le risposte per quanto riguarda gli effetti che questo isolamento possa aver avuto sul nostro sistema nervoso centrale saranno oggetto ricerca e analisi per lungo tempo. Fatto sta che, dal 10 marzo a oggi, ad avermi colpito sono davvero pochissime cose, tra cui questi due dischi che non hanno alcuna connessione fra loro, ma che mi capita praticamente sempre di ascoltare in successione e che pertanto percepisco come intimamente collegati. Sono entrambi ascolti dal profilo chilly-riflessivo, a mio avviso adatti alle lunghe e pigre giornate di isolamento. Partiamo con l’ultima fatica di Cucina Povera. Che poi non sarebbe proprio l’ultima in quanto a distanza di un mese ha rilasciato anche un EP in collaborazione con Haron (“Plafond 6”, molto bello). Per chi non la conoscesse, lei è finlandese, vive a Glasgow da un bel po’ di tempo e si chiama Maria Rossi. “Tyyni” è il suo terzo disco ed è un lavoro intensissimo nonché profondamente introspettivo. Ha un che di ritualistico e magico. Qualcosa che mi fa pensare a un crepuscolo vissuto in mezzo a una foresta nordica, durante una danza lenta e sinuosa attorno a un fuoco in cui ci si lascia andare a sensazioni e viaggi altri – in rigorosa presenza di una drum machine e un paio di synth che accrescono la suggestione con naturalezza e maestria. Cucina Povera è una sorta di strega-digitale che conduce una funzione seducente, potentissima, appoggiata su sfondi minimali e ipnotici. C’è oscurità e consolazione, c’è abbandono a se stessi ma anche consapevolezza. Qualcosa di fortemente meditativo e catartico. Otto brani durante i quali il tempo si dilata e si restringe, perdendo la sua connotazione abituale e procedendo verso territori rarefatti ed intangibili. Una mezz’ora fuori dal mondo, da vivere possibilmente a occhi chiusi, evadendo dalle mura di casa attraverso un rigenerante sogno lucido.



Farwarmth – “Momentary Glow” (Planet Mu, 2020)
Di tutt’altro registro è il secondo album di Farwarmth, “Momentary Glory”. Giovanissimo produttore portoghese, Alfonso Ferreira dipinge un affresco dalle tonalità ambient/power-ambient/HD che risulta coinvolgente ed emozionale, etereo ma massimalista, ricco ma mai barocco. “Momentary Glory” è il frutto di quattro anni di registrazioni realizzate con musicisti di ogni sorta, delle quali Farwarmth rimescola e manipola sapientemente suoni e sapori, decontestualizzando e ricollocando i tasselli del puzzle in figure nuove ed incredibilmente personali. Nell’era del tecnicismo minuzioso e del sound design meticoloso (perlomeno in una certa elettronica), ciò che mi colpisce maggiormente di questo lavoro è la sua capacità di non andare oltre gli schemi dal punto di vista compositivo e sonoro, ma di riuscire a districarsi tra i loro “paletti” per utilizzarli come strumento di un’ispirata ed elegante comunicatività. Come tavolozza da cui attingere i colori, e non come mero e sterile obiettivo fine a se stesso. Ci sono una genuinità e una sensibilità disarmanti, che riescono a incastonarsi nella maturità e attualità della realizzazione. Genuinità e sensibilità (ma non banalità) che arrivano direttamente in pancia, che solleticano le sinapsi, che profumano di freschezza, rimescolando gli ingredienti di una ricetta nota e trasformandola in un’esperienza diversa seppur familiare, completa, appagante, dallo spiccatissimo trasporto emotivo. Ultracontemporaneità con un’ancora saldamente aggrappata alla spontaneità e al sentimento. Che proprio per questo estrapola qualcosa di assolutamente più personale, e quindi più convincente e originale. Dilata i pensieri con raffinata delicatezza.

DENIS LONGHI


Ideatore e curatore di numerosi progetti, ma anche dj e produttore, dal 1994 Denis Longhi contribuisce a diffondere e sviluppare la cultura della “black music” in Italia. Da Boogie Nights, Mustang, Hardboiled alla nascita del collettivo Noego nel 2001 fino alla creazione, nel 2008 insieme ad Andrea Varini, di Jazz:Re:Found, importante riferimento in Italia per le nuove contaminazioni del Jazz che negli anni è cresciuto tantissimo – spostandosi anche dalla città di nascita, da Vercelli, a Torino per trovare infine il suo nuovo format in Monferrato. La sua attività di ricerca e produzione nel campo dell’industria musicale ha portato Denis, dal 2013, a insegnare all’Università Cattolica al Master MEC e, dal 2015, a progettare la stagione Jazz’About e il Festival Distretto 38 di Trento.


Darondo ‎– “Let My People Go” (Luv N’ Haight, 2006)
La storia di Darondo meriterebbe un’interpretazione su pellicola a mano dei Fratelli Coen. Cantante soul nel finire degli anni 60, non ha mai avuto grande notorietà al microfono, mentre si è fatto conoscere dal pubblico americano come comico lavorando per alcune serie televisive. Darondo era in realtà apprezzato e conosciuto da una cerchia molto ristretta di estimatori del genere, nonostante il suo talento però si ritirò dalle scene dopo aver aperto un concerto nientemeno che a James Brown. Evidentemente non bramava la fama: “Forse il tuo sogno era di diventare James Brown o Frank Sinatra. Per me era solo un hobby”, disse. Come al solito, nella sua disciplina olimpica preferita, Gilles Peterson ha intercettato facendo digging durante un suo tour in US a inizio Duemila, un vecchio 7” pollici del singolo “Didn’t I”, inserendolo nella compilation “G.P. Digs America” e suscitando inevitabile interesse attorno alla sua figura. La prima label ad approfondire la ricerca è stata Ubiquity Record, tra le più accreditate etichette in materia di black music oltreoceano, riuscendo a ricostruire l’intero album di Darondo e pubblicandolo finalmente nel 2006, più di 30 anni dopo la sua scrittura. È un album seminale per un certo tipo di soul, struggente ma allo stesso tempo combattivo e consapevole. Una voce d’altri tempi, irraggiungibile nella sua estetica roca e disillusa, così vicina ma allo stesso tempo profondamente differente dalle ugole black del periodo di Bill Withers e Al Green.


ARMANDO CERVETTI


Nasce a Torino, ma la lunga permanenza a Brixton gli ha insegnato ad apprezzare le sfumature degli ambienti suburbani e industriali legati alla musica e all’arte visual. Nel 2011 fonda v-ars visualartspace, un’iniziativa artistica autofinanziata che si propone di accogliere autori provenienti da ogni settore della creatività legata alle arti visive. Oggi Armando Cervetti è soprattutto Gravity Records, giovane spazio urbano di cultura musicale dove trovare diversi supporti e formati legati alla musica indipendente, ma anche luogo di condivisione per workshop, concerti acustici, incontri e dj set preserali.


BADBADNOTGOOD – “IV” (Innovative Leisure, 2016)
Se stilare una TOP 10 assoluta è già di per sé molto complicato, scegliere un disco su tutti diventa un’impresa che sulla carta sembra impossibile da realizzare. Eppure, in questo periodo che per molti significa quarantena forzata, tutto assume forme diverse. Ed è proprio la ricerca e la produzione di forme diverse il leitmotiv che BADBADNOTGOOD mettono sul piatto per questa gemma uscita nel 2016. “IV” si riferisce alla mutazione della band stessa, che da trio diventa quartetto con l’entrata nella formazione del polistrumentista Leland Whitty, già collaboratore nei lavori passati, ma che sembra portare nuova linfa alla formazione. Le sonorità di “IV” sono un’amalgama di eterogenee sfumature che si fondono tra loro, a partire da “And That, Too” e “Speaking Gently” che ci portano subito a girovagare per le articolate strade del jazz suonato, facendoci dimenticare l’hip-hop più ruvido del precedente “Sour Soul” con Ghostface Killah. Queste strade si sviluppano lungo traiettorie per cui, una volta imboccate, non si può tornare indietro. Nel viaggio si incontrano perle soul come “Time Moves Slow” con la voce di Samuel T. Herring che scalda il cuore, “In Your Eyes” che l’interpretazione di Charlotte Day Wilson fa sembrare ferma nel tempo, oppure la laboriosa e psichedelica “Lavender” scritta con il maestro Kaytranada. Insomma, che stiate facendo un aperitivo in videoconference oppure che abbiate voglia di chiudere gli occhi, sognare e lasciarvi trasportare, questo è il disco giusto.


LADY MARU


Dai primi Duemila, è una delle presenze fisse delle serate capitoline più underground e laterali a base di techno e house, dj resident di appuntamenti come Amigdala, oggi anche nome ricorrente al Gegen di Berlino, ma anche anima di importanti serate queer come U-Kabarett e LaRoboterie. Le origini di Lady Maru però sono nel punk, nella sperimentazione, nella no wave e nel rumore: chi la la memoria lunga la ricorderà alla batteria dei Dada Swing, i più giovani alle tastiere o chitarra di Trouble VS. Glue e Cascao e Lady Maru.


DJ Vadim ‎– “U.S.S.R. Life From The Other Side” (Ninja Tune, 1999)
Un disco che a mio avviso è ancora attuale, che frulla hip hop old school, jingle e easy listening con suoni ancora modernissimi. DJ Vadim collabora inoltre con i migliori MC e tocca temi anticapitalisti (Swollen Members in “English Breakfast”), antiautoritari (Skinnyman in “The Itchy Side”), femministi (Sarah Jones in “Your Revolution”). L’ho rispolverato per caso circa 2 anni fa e lo stavo ripassando proprio in questi giorni. Da quello che ricordo, l’artista di Ninja Tune non è mai stato eccessivamente quotato in Europa, forse suonò una volta al Brancaleone nel 2004. Per me geniale e orginale, forse paragonabile solo a Qbert, nel genere proposto. I testi rappati dagli MC scelti sono scimmiottamenti del mainstream, del potere, del parlare lingue e quindi dell’attuale tema dell'”appartenenza a una nazione”. Ad esempio “Let’s take a trip inside of my thoughts”, “Sorry I think you have to repeat it in english” in “English Breakfast” o Mc Blade che dice “How many djs do you know from Russia… Combining with the force of a lyrical soldier” in “From Russia With Love”. Oppure il rap frenetico di Starvin’ Artists in “The Pact”, di Motion Man in “The Terrorist”, il rap elegante di Sarah Jones in “Your Revolution” (“Your revolution makes me wonder, where could we go, if we could drop the empty pursuit of props and ego”). Alterna parti fitte di rappato con intermezzi di jingle e easylistening, ma resta un disco lungo e complesso, quasi troppo pieno di contenuti… Difficile da scomporre e analizzare in maniera omogenea. Ideale un primo ascolto per le pulizie ora, quando si potrà forse per un ascolto in macchina…


MARCO SANNINO


È alla guida di uno dei baluardi di un certo tipo di “resistenza” e un vanto nell’ambito della musica indipendente capitolina, in sintesi uno dei negozi di dischi più vivi e dinamici in Italia (azzarderemmo a considerarlo il migliore), Radiation Records. Origini a Palermo, radici nel punk e una visione solida ma pure coraggiosa di cosa significhi occuparsi di musica dal basso: dal lavoro indefesso suo e del dream team di Radiation, all’apertura di un secondo store nel cuore di Roma, fino ai Record Store Day, i live e le presentazioni instore e l’attività serrata con lo store online, anche a livello internazionale.


Ned’s Atomic Dustbin “God Fodder” (Furtive, 1991)
In un tempo poi non troppo lontano, i festival indie rock degni di questo nome erano due: Glastonbury e Reading. I pochi altri erano irraggiungibili con gli spostamenti dell’epoca, avevano un taglio artistico differente, e non un’oncia del loro appeal. Pre-internet, e pre-voli low cost, si passava buona parte dell’anno sbirciando in qualche edicola illuminata della stazione i numeri di NME o Melody Maker, monitorandone la gestazione. Ancora quindicenne, atterrando a Reading per la prima di cinque volte successive, la sensazione era di stare realmente in un altro pianeta. C’erano sì gli headliner, che lambivano il mainstream quello vero, ma la mia attenzione era tutta per quell’infinito sottobosco di gruppi che in quei palchi nascevano, pascevano, e morivano, e dei quali, al di fuori di quei contesti, si sapeva poco o nulla. Non parlo di nomi minori, inesistenti all’epoca e assurti a rango di culto da successive riletture storiografiche ma, al contrario, di gruppi che ho visto suonare per anni di fronte a folle semi-oceaniche idolatranti, e che poi hanno passato i due lustri successivi nel tentativo vano di ritrovare quell’incantesimo ormai inverificabile, riempiendo coi loro dischi gli scaffali dei magazzini di overstock, forati e “onecentcds” di mezzo mondo. Tra i gruppi che di quell’immaginario hanno scritto la colonna sonora e di cui si fa fatica oggi anche a ricordarne il nome, mi colpì a suo tempo un filone che, sebbene molto connesso alla scena UK punk dell’epoca – quella degli altrettanto sfigati Snuff, Midway Still, Leatherface e simili – flirtava con l’uso di feedback e melodia della scuola USA di Hüsker Dü/Dinosaur Jr e un certo primigenio grunge. Tre nomi su tutti: Mega City Four, Senseless Things e Ned’s Atomic Dustbin. Di questi, gli ultimi indovinarono un paio di singoli fulminanti (l’antemica “Kill Your Television” e l’irresistibile “Grey cell Green”), e un album “God Fodder”, del 1991 che, forte di uno shoegaze/pop/punk con un inatteso piglio “groovy” dovuto alla decisamente inusuale presenza di due bassi, e (va detto) di un’azzeccata merch campaign (quegli assurdi bermuda neri di felpa con il loro logo stampato sulla coscia divennero un vero e proprio “trademark” dell’outfit tipico di quegli eventi), garantì ai Ned’s un posto di prima linea in quella mini-rivoluzione: in quegli anni sarebbe stato annoverato senza troppi indugi, e per certi versi a ragione, tra i primi dieci dischi fondamentali dei 90’s. Poi però, un giorno come un altro, se ne dimenticarono tutti.

STEFANO PILIA


Formazione accademica e approccio punk. Pochi dubbi che Stefano Pilia sia uno dei migliori chitarristi del panorama musicale italiano, non solo per la sua produzione da solista, non solo per le collaborazioni sempre avventurose ma anche per la versatilità della sua chitarra, capace sempre e comunque di essere riconoscibile. Dischi e palchi condivisi con Massimo Volume, Rokia Traorè, Il Sogno del Marinaio, Afterhours, In Zaire, Alessandra Novaga, Massimo Pupillo, Oren Ambarchi, Phill Niblock, Wu Ming, David Grubbs e chissà cos’altro nel cassetto.


Eliane Radigue ‎– “Trilogie De La Mort” (Experimental Intermedia Foundation, 1998)
In questi giorni lunghi e ritirati ho scelto di riimmergermi ancora nella bellissima “Trilogie de la Mort” di Eliane Radigue: “Kyema”, “Kailasha” e “Koumè”. Tre capitoli capaci di creare un largo e profondo spazio meditativo. “… Going beyond death in this life, beyond the dichotomy of life and death, and so to become a witness to life itself” Thomas Merton.

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  1. Puntata #1
  2. Puntata #2
  3. Puntata #3
  4. Puntata #4

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