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Alvin Curran

Tra i più importanti compositori contemporanei, americano ma con base a Roma da tantissimi anni, domenica 25 settembre Alvin Curran sarà al laghetto di Villa Borghese per una nuova versione del 'concerto ambientale' Riti Marittimi nell'ambito di Romaeuropa Festival.

Written by Chiara Colli il 12 June 2016
Aggiornato il 2 December 2018

C’è stato un tempo in cui i cervelli anziché scappare, in Italia ci finivano. In particolare a Roma, in particolare intorno alla metà degli anni ’60. È qui che inizia, effettivamente, il percorso professionale di Alvin Curran – americano di Providence, classe 1938, «Democratico, irriverente e tradizionalmente sperimentale», per citare l’incipit – già abbastanza eloquente sul personaggio – della sua biografia. Un percorso che negli anni ha sempre avuto come peculiarità l’assimilazione e la coesistenza dei contrasti, «Non trovo nessuna contraddizione nell’essere un compositore che improvvisa e viceversa un improvvisatore che compone. Da parte mia ho sempre trovato la modalità, anche nella scrittura, di tenere insieme gli elementi di entrambi gli approcci in maniera molto viva», racconta. Composizione e improvvisazione, musica colta e popolare, strumentazione classica e field recording, luoghi dell’accademia ma soprattutto fuori l’accademia – che si trattasse di un «garage di Trastevere» o, in tempi più recenti, dei suoi “laboratori naturali” (laghi, parchi, dolmen e magari anche porti per navi).

Anello fondamentale della musica contemporanea e d’avanguardia, nonché del legame che unì il minimalismo d’oltreoceano con il circuito rock di – per fare due nomi – Franco Battiato e Claudio Rocchi – Curran fu protagonista insieme ad altri compositori americani espatriati a Roma di una scena che 50 anni fa si dedicava all’improvvisazione libera e ai primi esperimenti con l’elettronica. Nel 1966 fondò il collettivo Musica Elettronica Viva insieme a Frederic Rzewski, che andava ad aggiungersi alla ricerca attuata in quegli anni anche dal celebre Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza guidato da Franco Evangelisti e che, al suo interno, includeva musicisti del calibro di Ennio Morricone ed Egisto Macchi.

MEV
MEV al completo: Allan Bryant, Ivan Vandor, Richard Teitelbaum, Frederic Rzewski e Alvin Curran

Domenica 25 settembre, Alvin Curran sarà ospite del Romaeuropa Festival con il “concerto ambientale” Riti Marittimi, al laghetto di Villa Borghese. Occasione perfetta per tornare su quello che Alvin Curran ci raccontava qualche mese fa circa la sua esperienza musicale a Roma e il fermento internazionale di quegli anni.

Ne parliamo nel suo studio (meravigliosamente caotico) nella sua casa a Roma: ironico e allergico a qualsiasi tipo di autoreferenzialità, Alvin Curran si esprime in un italiano praticamente perfetto ed è quel genere di persona che avresti voglia di ascoltare per ore.

ZERO: Prima di addentrarci nel vivo della sua esperienza romana, ci racconta come è iniziata la passione per la musica?

ALVIN CURRAN: Sono cresciuto in un ambiente musicale, mio padre era musicista in un complesso locale, suonava musica da ballo per le feste in città – quella eseguita in America dalle big band negli anni ‘30 e 40, musica popolare con i vari tormentoni di Broadway. I miei genitori non avevano una formazione da musicisti, ma hanno insistito affinché io e i miei fratelli studiassimo il pianoforte, che per loro era un segno della medio borghesia. Una memoria molto forte che conservo è legata a quando la domenica accompagnavo mio padre a teatro, suonava in una big band jazz che si esibiva per degli intermezzi di varietà durante i film: ero sempre seduto accanto a lui e il mio compito era girare le pagine dello spartito (risate, NdR). Il fatto di essere cresciuto con la musica popolare americana mi ha dato immediatamente delle radici forti, una fonte alla quale torno sempre ad attingere, importantissima per la musica che faccio oggi – radicalmente opposta a quella, ma che proviene da una concezione d’avanguardismo del tardo ventesimo secolo. Seguirono gli studi di pianoforte di musica classica, un percorso che allora non mi interessava molto e per il quale in realtà non mi sentivo troppo portato, almeno come pianista.

Alvin Curran e il jazz
Alvin Curran e il jazz
La musica che sentivo più affine alla mia sensibilità, come molti ragazzi della mia età, era certamente il jazz – a quei tempi suonavo il pianoforte e il trombone, cosa che mi permetteva di far parte delle bande tradizionali che si usano da sempre in America e delle quali c’è una forte tradizione anche nella formazione scolastica. Erano musiche che allora accompagnavano le partite di calcio, era divertente perché così seguivo i match e suonavo. Un tipo di cultura che qui manca completamente, fin dalla scuola.

Queste radici nella musica popolare sono effettivamente parte del suo approccio alla creazione artistica, che finisce con l’essere tutt’altro che accademica.

In realtà, la mia è una forma di musica accademica, nel senso che proviene da fatti storici che hanno portato alla volontà di distruggere alcune tendenze della musica occidentale. Distruggere alcuni stereotipi e sviluppi che occupavano effettivamente troppo spazio, non solo dal punto di vista musicale ma anche economico, dando la precedenza a un ambito che appartiene effettivamente soprattutto all’alta borghesia. Il fatto che la musica del ‘700 e dell’800 abbia ancora oggi tutto questo spazio – nelle orchestre sinfoniche come nell’Opera – è stato un piccolo disastro per chi ha vissuto nel ventesimo e, ora, nel ventunesimo secolo. Nell’epoca di Mozart c’erano alcuni compositori di spicco che componevano per l’aristocrazia o per la chiesa, ma per secoli non si è parlato di compositori di 200 anni prima. Chi era praticante suonava la musica del suo tempo, prolungare la storia musicale per dire che Bach e Beethoven restano “la” musica colta è qualcosa di surreale e crea una situazione di lavoro molto difficile, perché i finanziamenti continuano ad andare in quella direzione. Un tipo di atteggiamento che non tiene conto della necessità di dare vero supporto alla musica di oggi e in particolare ai giovani. Questa è una tragedia particolarmente forte in Italia, perché qui non c’è una visione politica organica, manca una struttura socio-economica e culturale, pertanto chi ha un vero talento e vuole proseguire artisticamente va all’estero.

Paradossale, se si pensa che, invece, cinquanta anni fa lei dall’America si è trasferito prima a Berlino e poi proprio qui a Roma.

Negli anni ’60 Roma era uno dei posti più attraenti e accessibili che si potessero immaginare, bellezze che non si esaurivano con le peculiarità del Paese di O sole mio, perché in Italia artisticamente e musicalmente c’era molto fermento. Era una città piena di stranieri, tutto il mondo veniva qui per cercare lavoro e lo trovava spesso a Cinecittà. Pittori, artisti, galleristi celebri. E poi per la musica in Italia c’erano Maderna, Berio, Luigi Nono e anche alcuni personaggi meno conosciuti che provenivano dal movimento Fluxus, come Giuseppe Chiari.

Il suo arrivo in Italia è datato 1965. La nascita di Musica Elettronica Viva 1966: cosa è successo in quell’anno e poi subito dopo?

È stato quasi un atto di combustione spontanea, dovuta alla presenza di un’atmosfera particolare e l’incrocio di persone fisiche tutte nello stesso posto, qui a Roma. Con Frederic Rzewski e Richard Teitelbaum, con cui abbiamo fondato il MEV, già ci conoscevamo in America. Qui sentimmo la palpabile esigenza di esplorare i primi tentativi dell’elettronica, molto primitivi e con mezzi estremamente semplici. Era qualcosa che stava avvenendo nei grandi centri di tutto il mondo, San Francisco, New York, in Giappone, a Milano, in Inghilterra. Un tipo di ricerca che veniva appoggiata dai centri radiofonici – penso alla BBC con il Radiophonic Workshop o alla RAI con lo Studio di fonologia musicale – che si sono dedicati alla sperimentazione e hanno prodotto non solo lavori per grandi orchestre ma anche per piccoli musicisti sconosciuti, come il MEV o i londinesi AMM, il gruppo con Cornelius Cardew (compositore britannico con il quale Curran lavorò e divenne amico proprio in quegli anni a Roma, NdR). Contemporaneamente nacque il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, intorno al 1966, eravamo tutti amici ma in realtà non suonammo mai insieme. Noi eravamo un po’ più radicali, pieni di idee pseudo rivoluzionarie – perfino un grande pianista come Frederic Rzewski a un certo punto è arrivato a dire «Non suono più il pianoforte!», costruendosi una sagoma in vetro di un piano (risate, NdR), sul quale mise un microfono a contatto e che suonava come una batteria. C’era questo tipo di gestualità…

In che rapporti eravate con il GINC?

Va detto che lo spirito del Gruppo era comunque altrettanto rivoluzionario, in quanto guidato dall’energia visionaria di Franco Evangelisti. Un Gruppo nato perché lui diceva che non c’era più musica da scrivere… Aveva ragione e tutt’oggi ce l’ha ancora, lo cito continuamente. Me lo ricordo ancora, quando mi disse col suo tono di voce (imitandolo con voce roca, NdR) «Tu scrivi musica?» gli risposi di sì, e lui mi fece «Beh ma non lo sai che non c’è più musica da scrivere?» (risate, NdR). È stato uno dei primi compositori che ho conosciuto qui, era un tipo molto romano e già al primo incontro con quell’affermazione mi diede come un colpo nello stomaco. Le sue erano parole visionarie, come lui. Abbiamo fatto tutti amicizia e ci conoscevamo tutti, partecipavamo a varie edizioni del festival di Nuova Consonanza in varie forme, suonando musiche nostre e di altri. Questo evento di due gruppi di improvvisazione a Roma, negli stessi anni, guidati dal forte influsso di Evangelisti da una parte e Frederic Rzewski dall’altra – che era molto teorico e aveva un gran carisma – rese quegli anni fondamentali per la mia formazione professionale.

Era amico di Morricone?

Abbiamo avuto contatti professionali all’epoca di Nuova Consonanza e quando subito dopo si è affermato come compositore di musica da film, ma non siamo mai stati effettivamente amici. Trovo che alcune cose che ha fatto siano estremamente ispirate, sostanzialmente ha dettato nuove regole sia per la musica da film che per la musica popolare. Lo stimo tantissimo.

E in che rapporti era con l’Accademia Americana?

L’Accademia Americana è stato il luogo in cui presentai la mia prima composizione a Roma, un pezzo per tre strumenti, nel 1965. Col MEV eravamo più una sorta di garage band che suonava in uno scantinato di Trastevere, però eravamo in amicizia con i musicisti dell’Accademia dell’epoca e poi era lì che avvenivano questi eventi in cui si mostrava il Syn-ket, uno dei primissimi sintetizzatori portatili, simile al Moog, che allora era suonato soprattutto dal compositore americano John Eaton. Il Syn-ket fu un’invenzione di Paolo Ketoff, un uomo molto simpatico, russo italianizzato dallo spirito internazionale, era un grande inventore che pensava molto liberamente. Nel MEV eravamo circa in sei e avevamo ben due sintetizzatori: un Moog, il primo ad essere costruito in Europa – da Richard Teitelbaum, che prese i moduli e ne compose uno autonomamente e quando c’era qualche guasto chiamava direttamente Robert Moog in America, il quale gli rispondeva «Ok, vengo io col saldatore ad aggiustarlo!» – e un altro sintetizzatore autocostruito da Allan Bryant.

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Quali sono stati i cambiamenti sostanziali, nella vostra musica, apportati dall’avvento dei sintetizzatori?

Il primo è stato sicuramente relativo alla percezione del tempo, che diventava infinito. Cominci ad apprezzare la fisiologia della musica, un aspetto che dava il senso di poter eccedere in qualsiasi blocco di tempo conosciuto, almeno nella musica occidentale. Faccio questa specifica perché, invece, la musica orientale e africana avevano già molto di più il senso della dilatazione del tempo, facevano eventi che duravano per giorni… Capisci? Mica dei concerti. Sono stato fortunato ad aver visto qualcosa durante gli anni ‘60 sia in Africa sia in Asia, soprattutto a Bali, con la Gamelam music, che poi alla fine è una specie di musica psichedelica. Il secondo aspetto è la possibilità di lavorare in microtonalità, combinando in maniera più diversificata i toni rispetto agli altri strumenti. C’è poi un terzo grande cambiamento, che in realtà era già noto nella musica rock, ovvero l’amplificazione. Nel nostro caso, soprattutto relativa all’amplificazione di oggetti della quotidianità, dandoci la possibilità di far udire, seppur con una fonte sonora primitiva, la dimensione quasi fisica del suono di quegli oggetti-strumento.

Il MEV come de resto anche il GINC, erano espressione di un fermento che non c’era solo in Italia, ma in tutto il mondo in ambito artistico/musicale. Avevate contatti con l’estero?

Fin da subito abbiamo potuto pianificare un primo tour in Europa perché c’era già molto interesse, dai festival alle radio di musica contemporanea: Francia, Germania, Olanda, tutto il mondo era interessato a questi nuovi suoni. Messo questo nel contesto di uno sfrenato mondo giovanile completamente stonato (risate, NdR), ognuno a suo modo era determinato a cambiare il mondo. C’erano i marxsisti più duri, quelli legati all’aspetto puramente politico; poi c’erano quelli dell’ambito psichedelico, con diversi modelli di personaggi: il rock e la musica contemporanea erano molto vicini, se pensi ai Pink Floyd o al krautrock, molti di loro sono partiti con i nostri stessi sintetizzatori e la musica minimale americana. Il MEV era capace di fare tutto questo senza però voler entrare nel mondo della musica popolare, per quanto fossimo rivoluzionari eravamo effettivamente un ramo – piccolo, in evoluzione ma importante – della musica classica. E su questo non c’era niente da fare.

NYT
New York Times, 21 febbraio 1970
Questo tipo di sperimentazione aveva radici molto profonde, soprattutto in America, attorno a personaggi come John Cage, David Tudor o Charles Ives, che un secolo prima ricreava musica facendo suonare più bande simultaneamente anche fuori tempo. Avevamo un po’ quell’energia americana che si collocava tra cattivi bambini e geni visionari che vedevano il futuro (risate, NdR). Eravamo gli eredi di questo tipo di tradizione americana, e un aspetto importante è che nessuno entrava in quella tradizione, ovviamente, per fare soldi. Lo stesso mondo del rock’n’roll era fantastico e molto attraente, penso ad esempio a Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, in cui i Beatles suonavano assolutamente sperimentali. Non sentivamo che loro avessero rubato da noi, perché questo tipo di particolare collage psichedelico, in cui confluiva anche il minimalismo, era nell’aria. Erano esperimenti che appartenevano a tutti, non solo al mondo colto o a quello popolare. Solo che loro nell’utilizzo di queste tecniche, strutture e idee erano capaci di fare miliardi. E noi solo la pizza! (grandi risate, NdR). Appartenevamo a un mondo molto umile, quello del fare da sé, circoscritto da certi comportamenti e abitudini. Ma non necessariamente lontano dal mondo di John Lennon e Yoko Ono.

Oggi le capita di sentire nella popular music contemporanea l’eredità di quello che avete fatto allora?

La sento continuamente, soprattutto nella musica rap. Nei rapper più radicali, ovviamente, e senza entrare nel merito di quello che dicono, che è parte dell’aspetto più strettamente sociale o politico. Ci sono però delle cose che musicalmente mi colpiscono, l’utilizzo di piccoli sample, di suoni naturali, la capacità di portare avanti la parte verbale a tempo, o appositamente fuori tempo, o usando tempi multipli, tecniche complesse che sono un riflesso della musica improvvisata e della musica aleatoria, in cui le cose succedono a caso – e qui torna poi il nome di John Cage. Uno di questi è sicuramente Frankie Hi-Nrg, un rapper vecchia scuola ma intellettuale e capace di creare pezzi di musica molto belli. Abbiamo collaborato insieme, nel 2002 scrissi per lui un brano che poi è diventato Brute Beat Brut Bruit, eseguito insieme all’ensemble Alter Ego, in cui il risultato era una sorta di battle tra la mia composizione strumentale e il suo fraseggio rap.

Nessun riferimento, rispetto a questa eredità, nell’elettronica contemporanea?

Francamente, quella che oggi viene definita elettronica sperimentale la trovo difficilmente interessante, spesso stereotipata, di maniera. Anche chi ci tiene a essere radicale o sperimentale, spesso finisce con l’essere troppo determinato da convenzioni musicali, che si tratti di un ritmo a 120 o 144, più chill o meno chill. Il fatto è che troppo spesso la musica soffre – o non soffre! – del fatto di essere espressamente pensata per scopi commerciali. La tradizione da cui vengo io non pensava mai a quell’aspetto. O meglio, non si rinunciava ai soldi, era importante avere il giusto ritorno per il lavoro fatto, ma il fine non era guadagnare. Eravamo dei pazzi sperimentalisti e anche grandi successi come quelli dei minimalisti americani – Steve Reich, Philip Glass, la grande poetessa Laurie Anderson, anche lei con radici sperimentali – o lo stesso John Cage, che ha fatto una barca di soldi… Beh, la loro musica sarebbe stata prodotta anche se non avesse portato soldi. Ed è questa la grande differenza.

Tornando a Roma, cosa l’ha tenuta qui per tutti questi anni?

(Occhio fisso per qualche istante, poi fa il segno del tre con la mano, NdR). Tre donne! (risate, NdR)

Alvin-Curran-Orchestra-Iato (2)

Anni in cui, comunque, ha avuto modo di creare legami col territorio anche in tempi più recenti, ad esempio dal 2012 con il Collettivo Angelo Mai.

All’Angelo Mai abbiamo fatto una serie di concerti, in particolare con la Iato Orchestra, un gruppo di una trentina di musicisti improvvisatori, non tutti professionisti. A me, a dire il vero, tutt’ora capita di lavorare con musicisti non professionisti: danno un’energia diversa da un professionista, che sta sempre lì a guardare l’orologio in attesa della pausa. Loro non hanno quel problema, danno un’energia che i professionisti non possono mai dare. Questi concerti sono state occasioni per creare improvvisazioni di gruppo componendo musica insieme a 30 persone; musica dal vivo, spontanea, creata nel momento attraverso alcune tecniche basate su una gestualità che cambiava velocemente, creando una specie di dialogo istantaneo tra me e loro.

Se avesse un budget illimitato, che progetto farebbe?

Farei un giardino musicale, ho già dei progetti, del resto sono anche giardiniere (ride, NdR). Una specie di pozzo da cui esce il suono del mondo, suoni dal Tagikistan, dall’Indonesia, dal Mali… Uno degli aspetti fondamentali della mia crescita ed evoluzione come musicista e compositore, come agente di cambio nel mondo diciamo (ride, NdR), è la naturale evoluzione verso l’istallazione sonora, l’importanza dell’incontro tra vista e udito. Già nelle mie composizioni capita che usino suoni della natura e field recording, o che mi capiti di organizzare eventi in posti come laghi, parchi o siti archeologici. L’ultimo è stato pochi giorni fa, un “Concerto Preistorico” in un dolmen di Bisceglie, circondato da ulivi. Immagina una domenica mattina alle 9, in mezzo a un sito archeologico, una performance con un coro primitivo e percussioni. Ho fatto concerti del genere in tutto il mondo, anche piuttosto grandi come dimensioni (recente, tra l’altro, la “Sinfonie per sirene”, composta per un’orchestra piuttosto inusuale, formata dalle enormi navi ormeggiate nel porto di Palermo, NdR).

Le capita di andare a sentire musica dal vivo qui a Roma?

In realtà capita di rado, l’ultima volta è stata però di recente, per l’esecuzione di Stimmung di Stockhausen a cura dell’ensemble Voxnova Italia nell’ambito di Romaeuropa. Dopo il concerto, devo dire molto bello, mia moglie e io siamo andati al bar-ristorante La Moderna, sempre a Testaccio. Ed è stato incredibile perché quella sera c’era un complesso che suonava le musiche americane degli anni ’20, ’30 e ’40, con tutte le persone che ballavano. La band era bravissima ed è stata una serata molto particolare per me, perché sono passato da Stockhausen alla musica della mia infanzia. Esattamente quella musica popolare americana di cui ti parlavo a inizio intervista.