Quando, nel lontano 2001, Elena Dorfman cominciò a dare vita al progetto Still Lovers, sul mondo delle bambole “reali”, di quelle simulazioni sempre più perfette alla vista e al tatto di donne, ragazze e quasi bambine costruite per soddisfare le brame sessuali e affettive degli uomini, le sue immagini risultarono piuttosto scioccanti per il pubblico occidentale, diciamo non giapponese. Da sempre il femminismo analizza la questione della reificazione della donna, ma vedere con i propri occhi un quadretto idillico di amore romantico, con una mano virile struggentemente avvinta a un pezzo di plastica, oppure due bambolone a gambe aperte, stese testa-piedi su un letto in stile coloniale, o un kilt da studentessa sollevato su un paio di cosce di silicone da un braccio abbronzato, è un’altra cosa. Soprattutto se si è consapevoli delle dimensioni del mercato delle sex dolls, che nonostante l’altissimo costo è in crescita costante.
Ma l’opera della Dorfman non ha nulla a che fare con la denuncia, così come quella di Jamie Diamond (Brooklyn, USA, 1983) su un altro genere di bambole che surrogano un rapporto affettivo, quelle di neonati e bambini piccoli, nei cicli Forever Mothers e I promise to Be a Good Mother. Le serie fotografiche esposte all’Osservatorio, selezionate da Melissa Harris (Boston, USA, 1965), mostrano senza pregiudizi – o giudizi tout court – donne vere che si ricoprono il seno con un neonato finto in braccio come dopo una poppata, donne finte con un joystick in mano affianco al partner-padrone sul divano, o davanti a un drink, o addirittura a cena in famiglia o in chiesa. Madri che sistemano la molletta in testa alla bimba-bambola fuori dall’uscio di casa, bambole dal seno perfetto ma con i segni dello stampo di silicone a vista, o i giunti della caviglie a salsicciotto.
Scritto da Lucia Tozzi