“Ballads of Living and Dying”, “Little Hells”, “For My Crimes” fino ai recenti “Instead Of Dreaming” e “The Path Of The Clouds”, sempre per Sacred Bones: il fil rouge degli album di Marissa Nadler, cantautrice di base a Boston, è un folk stregato, macchiato e maledetto da un black metal rallentato fino all’esaurimento. Le sue sono storie di patiboli, fantasmi. Ritratti e confessioni femminili, hanno il sapore di una soffitta, di una corda, di una trave. Tempi in cui si moriva di crepacuore. Non sono favole fuori dal tempo, sono espedienti per cogliere l’essenza del dolore, della paura, dell’ignoto. Missive suicide e lettere d’amore. Senza Instagram.
Posseduta, ossessionata dalla sua stessa musa, dalla stessa voce sinistra. Marissa Nadler è, allo stesso tempo, estremamente terrena: scandisce il quotidiano marziale con le note più alte che si possano immaginare, e ti fa prigioniero. Speranza e ossessione giocano come terribili gemelle, si separano, confondono, prendono per mano.
Ti accompagnano per le canzoni, lunghi e freddi corridoi abbandonati e non sai quale guida ci sia in testa. È una sensazione perversa, ma alla fine si muore sia di ossessioni sia di speranze. Il fatto che sia piacevole questo viaggio è una forma di eutanasia. Per chi arriva alla fine c’è il premio di quelle vecchie case stregate, tanto zucchero filato. Per chi si perde, una danza eterna, una nenia incastrata tra consumate assi di legno, fiori, sottovesti. Solo un mucchietto di ossa e una crepa a forma di cuore. Con il giusto filtro, il sepolcro perfetto da postare su Instagram.
Scritto da Paolo Santoro