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Ma quindi, alla fine, cos’è il design?

Arriva preparato alla designweek

Scritto da Anna Paola Buonanno il 18 agosto 2021
Aggiornato il 1 settembre 2021


Credo che questo sia uno degli articoli più difficili che mi sia ritrovata a scrivere: un po’ perché i 40° gradi all’ombra rendono bollenti anche i tasti del computer, e un po’ perché, in verità, io il design non so esattamente cosa sia nonostante io faccia parte di quella “bolla” che vede la sua massima espansione e popolarità durante la celeberrima settimana del Salone del Mobile (quest’anno eccezionalmente spostata a ridosso della fine dell’estate).
Perciò non credo che tra queste righe troverete risposte o nozioni preconfezionate che vi aiuteranno a diventare improvvisamente intenditori del mondo del design (o del progetto, sinonimo da usare qualora doveste incontrare qualcuno della bolla), ma di certo spero che queste mie parole vi spingeranno verso una riflessione, perché in fondo è questo il ruolo del design: dare le fondamenta al pensiero logico, critico e creativo e aprire strade a risultati inaspettati.

Questa disciplina, spesso etichettata come frivola, eccentrica e talvolta superflua, è più che altro un fluido capace di adattarsi a qualsiasi contenitore e dunque può essere applicata ad altrettante discipline “più autorevoli” – le scienze, la letteratura, la medicina, la tecnologia, solo per citarne alcune. Non è un caso infatti che la 23ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano l’anno prossimo sarà curata da Ersilia Vaudo, astrofisica e Chief Diversity Officer all’ESA (l’Agenzia Spaziale Europea) che con il design di Bruno Munari, Achille Castiglioni o Vico Magistretti c’entra poco; come non è un caso che curatorə , teoricə e progettistə siano sempre più orientati a capire come il design possa intervenire in maniera  più attiva nell’attuale crisi politica, economica e ambientale.
D’altronde già con Broken Nature (la Triennale del 2019 curata da Paola Antonelli), il design era stato mostrato al grande pubblico come qualcosa capace di includere e lavorare su materiali, processi e fenomeni naturali, lasciandosi alle spalle il (pre)concetto di essere solo il manufatto finale di un processo industriale.
Le ricerche trasversali su flussi di dati, sul recupero di rifiuti elettronici, le interfacce virtuali o lo sfruttamento delle foreste (solo per citarne alcune) di studi come Metahaven o Formafantasma, ci dimostrano, ancora una volta, che anche grazie al progetto è possibile modificare i mondi esistenti e costruirne di nuovi e di diversi.

Tempo fa, una designer mi ha raccontato di aver consigliato alla cugina, neo-diplomata e indecisa, di non scegliere la Scuola di Design ma piuttosto di studiare chimica e poi diventare designer, perché tanto il mestiere del designer in qualche maniera si fa. Nonostante fossi d’accordo sul fatto che per diventare progettista non sia necessario avere grosse nozioni e che attualmente per un designer sia faticoso trovare un adeguato riconoscimento professionale, mi sono sentita di dissentire perché credo che il design aiuti a sviluppare capacità innate che – ahimè – la consapevolezza dell’età adulta tende ad atrofizzare.

Il design ci insegna a essere più curiosi, a porci domande, ad osservare per imparare e a trovare metodi alternativi; ci porta a prendere decisioni (a volte in tempi molto brevi), ci allena a selezionare nel mucchio e ci educa a comunicare nel modo più universale possibile, mettendo in relazione mondi diversi e apparentemente distanti. Il designer dialoga con il fabbro, il vetraio e il falegname, ma anche con filosofi, fotografi e direttori di musei, capitani d’industria ed editori.
Insomma, non vorrei finire nel frasi-fattismo de “il nuoto è uno sport completo”, ma è vero che attraverso il progetto impariamo ad applicare un modus pensandi e operandi per migliorare il nostro quotidiano, nel vero senso della parola. Perché il design opera proprio nelle pieghe della vita di tutti i giorni.

Con molta probabilità, arrivati fin qui, la vostra confusione sul senso del design si è acuita. Per farmi perdonare vi lascio un altro suggerimento da giocarvi durante la design week (magari mentre starete stappando con il cavatappi di Alessandro Mendini l’ennesima birra seduti sulla sedia dei Bouroullec): citate uno dei giganti del progetto, Enzo Mari, che diceva «tutti dovrebbero progettare per evitare di essere progettati». Perché il design è tutto qui, nell’imparare a progettare la propria vita.