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The Virus Diaries – Ottava parte

Un racconto della serie di ZERO 'Propagine. Storie del contagio'

Scritto da Marina Zucchelli il 6 aprile 2020
Aggiornato il 3 giugno 2020

Illustrazione di Roberto Alfano

 

ZENZERO

Il bambino alza il dito indice verso il cielo convesso, lasciando la sua impronta digitale, bianca e piccola e timida. È la luna, che alle otto del mattino ancora pende su di noi, mentre andiamo ad aprire il pollaio.
Non porto più il grosso maglione coi bottoni che mia nonna comprò a Fatima tanti anni fa, quando ancora andava ai pellegrinaggi; quello lungo fin sotto al sedere, nero con fiori gialli e violetti ricamati. L’ho portato fin’ora perché caldo e morbido, e perché mi sembrava una specie di amuleto contro il virus. Lo penso ancora, ma ora fa troppo caldo per continuare a indossarlo. Esco alle otto con la felpa e i leggins che mi sono portata da Roma e che alterno a un paio di jeans e un maglione. Oppure ho la tuta che mi ha prestato mia madre. A volte faccio delle combinazioni, tipo: felpa e jeans, oppure: maglia della tuta e leggins. Dipende. Ho però finito da tempo tutte le combinazioni possibili. Sono passata attraverso il momento in cui dovevamo essere persone migliori, poi quello che decretava che ne saremmo usciti come persone peggiori; poi quello delle persone né migliori né peggiori ma nuove, diverse. Poi ho attraversato lo stadio persone uguale a prima, quello del nulla potrà scalfirci, e ora sono talmente confusa da non sapere più chi ero e chi sono, sempre che ci sia una differenza tra le due, anche minima.

Sono passata attraverso tutte le fasi della quarantena e mi stupisco che ora, solo ora, si cominci a parlare di “Fase 2”.

Entriamo nell’ara davanti al pollaio. Tolgo il gancio che chiude la porta della piccola costruzione che fa da recinto coperto, il bambino la spinge, e le galline escono, furiose, scavalcandosi l’un l’altra, chiocciando stridule, travolgendo il bambino e ignorandolo, come anime pazze in cerca d’aria. Il bambino resta immobile. Non si offende, non si spaventa, non le aggredisce, non alza la voce. Si lascia spostare un poco dalla furia del gruppo, e non è contento né triste: resta lì a guardarle uscire, una per una, perché le galline non hanno coscienza e questo lui sembra accettarlo. Sembra un piccolo monaco buddista, che si concentra sul difficile compito che gli ha assegnato il suo maestro: aprire la porta del pollaio. Le sue guance segnano il confine della sua faccia tonda, finiscono nella bocca arricciata, chiusa come fosse il collo annodato di un palloncino. È una minuscola opera zen, le pennute si allontanano liberate, tracciando direzioni nello spazio, schiacciando la terra ancora umida, lasciando impronte. Lui in silenzio ne prende atto. E in silenzio si lascia cambiare dall’esperienza che ha fatto, senza il desiderio di correggerla, di perfezionarla.

DIREZIONI NELLO SPAZIO

A tavola seguiamo gli orari di Fratello 1, che ogni settimana ha un turno diverso e che non mangia più alla mensa della fabbrica. All’inizio gli operai, scaglionati per orari, pranzavano a distanza di sicurezza, alternati lungo le tavolate.

Si mangiava senza avere nessuno di fronte, lo sguardo a vagare in un vuoto imprecisato, col vicino a un metro e mezzo di distanza.

Poi la mensa è stata chiusa come il bar all’interno dello stabilimento, tanto che le macchinette automatiche di caffè e snack arrivano, secondo mio fratello, a incassare due, tremila euro al giorno. A casa di mia madre pranziamo presto se Fratello 1 ha il turno pomeridiano, e tardi se ha il turno mattutino. In base a questo scegliamo il telegiornale, che aspettiamo e ascoltiamo come un oracolo dal quale dipende la nostra esistenza. C’è silenzio quando passano le immagini dei cimiteri, delle bare allineate nelle chiese, e dei camion dell’esercito sui quali sappiamo esserci le bare. Il tg2 passa un servizio sul prezzo delle mascherine, che vengono vendute a 12 euro al pezzo. Oh! Esclama mia nonna, rompendo il mutismo generale e alzando gli occhi verso Fratello 1 – che siede proprio davanti a lei, e che non stacca gli occhi dal televisore – per vedere che effetto abbia prodotto quella notizia su di lui. Sembra un misero spettacolo teatrale di dilettanti: qualcuno ha dimenticato di fare una pausa tra una battuta e quella successiva, scordandosi le proprie battute; la tensione è solo negli attori e non nei personaggi, non sale e non scende, e tutto si dipana in maniera identica. Non ci si ricorda più in quale punto si debba far crescere il dialogo, così il prezzo delle mascherine è più orripilante di una colonna di camion militari che sfilano nel cuore della notte in una città, e che non si sa bene dove vadano.

The Virus Diaries: prima, seconda, terza, quarta, quinta, sesta, settima parte.