Dopo avere studiato a Brera e a Londra, e dopo un nuovo periodo nella sua città d’origine, Bergamo, Davide Allieri è tornato a Milano in pianta stabile qualche anno fa con una residenza a Viafarini, ha lavorato per due anni come assistente di Marcello Maloberti e poi ha fatto una serie di mostre, collettive e personali – da MARS, da Placentia Arte, fino a DUET curata da Daniele Perra, da Rita Urso. Da un anno ha preso uno spazio bellissimo in via privata Passo Pordoi, una stradina che si prende da via Quaranta e finisce nella campagna aperta, e pezzo a pezzo la sta trasformando nel proprio studio-abitazione e in un art space che ospita mostre di altri giovani artisti. Alla fine di un giugno segnato dalla lunga ansia del COVID, entriamo in una grande stanza per metà occupata da opere installate per il progetto Buia 1:31, in parte smantellato dopo l’inverno per fare spazio ai nuovi lavori di ristrutturazione dello studio.
Raccontami di "Buia 1:31".
La forma di queste installazioni è indefinita, come se un ciclone avesse rovesciato tutti gli oggetti, gli elementi, sul pavimento, ponendoli tutti sullo stesso piano estetico e semantico. Sono calchi, oggetti trovati, display, contenitori, supporti.
Le teche in particolare sono un oggetto ricorrente nella tua opera.
Si, assolutamente, a partire dalla mia prima mostra a VIAFARINI dove una vetrina che avrebbe dovuto esporre dei calchi in grafite di alcuni contenitori divenne l’opera stessa. Ho sempre lavorato sul vuoto e sul display, sul rapporto contenuto-contenitore. Sono partito dall’azione di togliere, di svuotare, di mostrare il vuoto, ma ora, in Buia, ho tentato di creare la senzazione di vuoto, di abbandono, nello spettatore. Il senso del progetto “Buia 1:31” è di creare il vuoto nell’intero spazio: non entri più in uno spazio a guardare oggetti vuoti, ma è il vuoto che ti cattura in una situazione.
Come hai assemblato questi elementi insieme? Come li hai scelti?
Quel gruppo di teche incrostate (un insieme di vetrinette accumulate quasi a formare un enorme soundsystem trasparente, ndr) erano i terrari che avevo a casa quando ero ragazzino, in cui allevavo insetti, rettili e bestie di vario genere, che poi avevo smontato quando sono partito per Londra. Erano rimaste in una stanza, ma sono rimaste le tracce della terra, dell’acqua, dei mondi che contenevano. Oltre agli originali, ho anche delle copie di questi terrari che ho costruito riproducendo artificialmente i segni di un contenuto che non c’è mai stato, producendo di fatto contenitori slegati dalla loro funzione. Poi ci sono i calchi in gesso dei perimetri (di stanze, di case in cui ho vissuto o a cui ero legato) o di elementi di cantiere, come le lamiere ondulate. Sono frammenti spazio-temporali.
E gli ottoni?
Gli ottoni nascono dal “Billboard” che ho fatto per Sergio Rossi nel progetto a cura di Rossella Farinotti, a Rimini. Il Billboard era il sinonimo del display, la sua funzione era quella di mostrare un display vuoto, ma con un materiale prezioso come l’ottone.
Con Rossella Farinotti hai fatto anche la prima mostra qui a DAS, un anno fa.
Si, ero entrato da pochissimo, e con la sua curatela abbiamo allestito insieme la mostra “To Make Something of Myself”: una riflessione sul paesaggio, cone materiali diversissimi e le prospettive di quattro artiste, Cloe Fariselli, Lucia Cristiani, Silvia Mariotti e Corinna Gosmaro. Il confronto e la collaborazione su come situare le opere nello spazio è stato interessantissimo e molto bello, mi ha fatto cogliere molte cose anche su questo studio.
E che progetti hai per il futuro di questo artspace?
Oltre al restauro lento e progressivo – in autocostruzione – dello spazio per farlo diventare abitabile, vorrei portarci almeno una mostra all’anno.
Perché hai scelto proprio questo posto?
Ero tornato da poco da un viaggio negli USA, dove ero rimasto molto colpito, al di là della bellezza delle loro opere, dalla professionalità di artisti come Theaster Gates e Tony Lewis. Mi è apparso chiaro il ruolo importantissimo che lo spazio per fare le cose ha nella vita professionale di un artista, e ho cercato uno spazio industriale. Mi è capitata questa occasione straordinaria, con una luce che cade dall’alto e di lato, e me ne sono invaghito.
Che impressione hai della zona, da quando la frequenti quotidianamente?
È molto interessante, oltre a NFQ, che si trova due portoni più in là, c’è lo studio di Giovanni Oberti, e naturalmente Prada, e ICA, e un po’ più distante la galleria ZERO. Vista da qua, è ancora una terra di mezzo tra Ripamonti e Corvetto. Quando via Quaranta comincia a svuotarsi, dopo le sette di sera, diventa una meraviglia.
Dove vai a mangiare, o a bere? Dove passeggi?
Qualche volta da Tajoli oppure anche al Madama. Mi piace moltissimo andare al Campo, dove la vista si apre verso i casermoni del Corvetto. Qui si incontrano animali di ogni tipo: aironi, cicogne, rapaci, ricci, fagiani, pappagalli, conigli, lepri, scarabei cornuti. Una volta mi sono imbattuto in un serpente enorme, un’altra in un esemplare di farfalla cinese, la farfalla Cobra. Invece se qualche volta vado verso la Conad mi capita di incontrare personaggi notevoli che escono dal Fashion Club.