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Giovanni Pellegrini

Il regista, fondatore di Ginko Film, racconta i suoi sguardi su Venezia partendo dal doloroso ricordo dell'acqua granda alla vigilia della presentazione del suo nuovo documentario: La Città delle Sirene

Scritto da Matteo Marcon il 11 novembre 2020
Aggiornato il 12 novembre 2020

Ok, siamo nell’anno della pandemia e il coronavirus si è imposto sulla scena con arroganza. Ma non dimentichiamo che esattamente un anno fa, il 12 novembre 2019, a Venezia è accaduto uno dei peggiori disastri dal dopoguerra: la chiamiamo “aqua granda atto secondo”, per non svilire nè consegnare all’oblio l’alluvione del ’66. Il regista Giovanni Pellegrini, classe 81, veneziano doc, è stato un testimone d’eccezione di quegli eventi. Per molti motivi: sia perché la sensazione dell’acqua salmastra che arriva dove non era mai arrivata ha dovuto subirla in prima persona camminando sugli stivali nel suo studio della casa di produzione Ginko Film, sia perchè è con l’occhio allenato del documentarista che ha scelto di affrontare il racconto di quei giorni, sia perché era già da anni impegnato a raccontare Venezia dalla prospettiva di uno degli elementi che più la caratterizza: l’acqua. Nasce così “La città delle Sirene” un docufilm su quei giorni che verrà proiettato online nel primo anniversario della mareggiata, dalle ore 18.00 alle ore 24.00, sul canale YouTube di Ginko Film e anche sul sito di Science Gallery Venice. L’evento si inserisce all’interno di un grande progetto di memoria collettiva digitale promosso dall’Università Ca’ Foscari intitolato “Aqua Granda 2019” ed è l’occasione per parlare di quella storia, con un diretto testimone, di Ginko Film, di una barca che si chiama Musa e di molto altro ancora.

La città delle sirene: perché hai scelto questo titolo per il tuo nuovo documentario?
«Nel film racconto la settimana tra il 12 e il 19 dicembre 2019 quando Venezia è stata investita da una serie di acque alte eccezionali: il titolo nasce dal dato fisico e sensoriale più evidente, un fatto che mi è rimasto nella memoria di quei giorni. Le acque alte vengono annunciate dalle sirene, un dopo l’altra, quelle sirene hanno segnalato gli eventi che hanno messo in ginocchio la città. C’è dunque un riferimento alla “sveglia” che queste sirene quotidianamente ci davano, rappresentavano una sorta memento mori, ma il messaggio vuole essere più ampio, evocativo, oltre l’aspetto rigidamente descrittivo. Al contrario di Ulisse che era curioso e ammaliato dal loro canto, per noi le sirene rappresentano una sensazione tutt’altro che piacevole, al tempo stesso noi veneziani possiamo essere identificati come dei moderni “ulisse”: Venezia stessa è una sirena, ci incanta e nonostante i rischi, nonostante le difficoltà, vogliamo vivere qui. Non si tratta di una bellezza statica, è soprattutto lo stile di vita a creare un legame speciale con questa città: vivere a contatto con l’acqua, senza macchine è quasi indescrivibile. In questo contesto non va dimenticato che l’acqua alta è un fenomeno connaturato alla città, la sfida del documentario è stata quindi quella di definire un inizio e una fine, una cornice per un fenomeno con il quale ci confrontiamo da sempre».

battello incagliato in riva degli schiavoni, una delle immagini simbolo del 12 novembre 2019

Come è stato girare in quei giorni?
«Sono andato a trovare amici che hanno attività cercando di dare con la loro testimonianza spazio ad una Venezia lontana dai riflettori e dai luoghi più iconici, come piazza San Marco e i suoi caffè. Ho intervistato persone che avevano la casa danneggiata, e anche attività commerciali: un libraio, un artigiano, un ristoratore. C’era l’imbarazzo della scelta, ma era tutto difficile e complicato, ad esempio non avevo accesso a internet, le riprese sono state fatte sulla base del mio istinto, sono andato nei luoghi dove sarei andato anche senza telecamera, sentivo che il mio compito in quel momento fosse quello di documentare e nient’altro».

Come veneziano e come regista immaginiamo che quella di registrare le immagini della città dopo la devastante mareggiata del 12 novembre fosse un’urgenza naturale: quale linea hai scelto di seguire?
«Sì, sentivo che stavamo vivendo un avvenimento, storico, o quasi, certamente unico. Il mio precedente lavoro era sull’alluvione del ‘66 di cui avevo sentito parlare tanto da piccolo. Stavamo una vivendo un’esperienza simile. Inoltre tutto questo si è intrecciato con il lavoro su “Venezia Liquida” un progetto a cui lavoro da tempo che nasce per andare oltre la cartolina turistica e raccontare la vita in laguna da dentro, le sue luci e le sue ombre, l’impatto dei cambiamenti climatici. Queste nuove riprese nuove, erano nate proprio per confluire in “Venezia Liquida”, poi il materiale si è rivelato talmente potente che comprimerlo avrebbe significato sacrificarlo, forse anche censurare ciò che quei giorni hanno rappresentato. Ho scelto di realizzare un lavoro ad hoc. L’urgenza, come il mio approccio, non è stata quella di concentrarmi sui musei più famosi, perché queste immagini sono già, cosa posso aggiungere? Mi sono chieso. Come veneziano e docmunentarista ho l’opportunità di arrivare direttamente alla Venezia vissuta, alla sua dimensione sociale e urbana, i cui problemi sono molto più complessi di quello che viene spesso semplicisticamente raccontato».

Che effetto ti ha fatto vedere le immagini di quell’evento, barche affondate, delle chiese allagate fare il giro del mondo?
«Mi fa piacere vedere che l’attenzione su Venezia e le sue fragilità sia sempre alta. Per fare un esempio: un mio amico reporter di guerra mi ha raccontato che anche un kebabbaro a Mosul, durante il conflitto aveva una foto di Venezia appesa nel suo negozio. Quello che mi fa rabbia è la superficialità e la semplificazione con cui a volte vengono raccontati i suoi problemi. Probabilmente anche in italia c’era gente che pensava fossimo affondati. Questo documentario dedicato a Venezia e ai veneziani, ma è fatto anche per chi non conosce la sua città, ha cercato di mantenere anche un approccio divulgativo, spiegare ad esempio il fatto per noi scontato delle maree. Fa rabbia anche il modo in cui viene visitata, come l’elemento da non perdere di una classifica di luoghi in top ten, e d’altro canto sono spesso gli stessi veneziani a sfruttare questa città come un vacca da mungere, o una gallina dalle uova d’oro, senza dare niente in cambio, quando questa “magià” ha davvero bisogno più che mai di noi, che ce ne prendiamo cura».

Venezia durante il lockdown era una specie di formazione geologica, la pietra d’Istria dei palazzi sembrava una scogliera naturale, l’elemento umano era scomparso. Affascinante, ma anche inquietante: sembrava un futuro post apocalittico, andare in giro per la città da solo ti da la sensazione di essere l’ultimo rimasto sulla terra.

 

Parlaci anche di Venezia Liquida: cosa emerge dal rapporto tra l’arcipelago urbano e il mondo naturale della laguna e delle sue acque?
«Venezia Liquida, è un progetto che rischia di non finire mai… Lo porto avanti da molti anni e nasce dalla mia esigenza di andare oltre i riflettori. L’autenticità di Venezia si ritrova ormai quasi solo nei canali, nei rii del centro storico e attraversando la laguna, dove pulsa lo spirito vero. Questa è una città anfibia, nata sull’acqua. Il disegno dell’opera consiste nel piazzare il punto di osservazione privilegiato proprio dalla laguna, attraverso persone che ne incarnino le peculiarità. Vado avanti da anni, le riprese dovevano arrivare tra marzo aprile e maggio di quest’anno. Poi sono arrivati il lockdown e prima ancora l’acqua granda. Questi elementi di attualità si sono imposti sulla lavorazione in maniera imponente, non si può prescindere da questi eventi. L’obiettivo del documentario è anche quello di mostrare gli effetti di questo turismo di massa sul nostro tessuto socio economico, facendo emergere lo sbilanciamento di un modello di industria turistica che non è sostenibile, l’opportunità offerta dagli episodi del novembre 2019 e dalla pandemia è di raccontarlo al negativo, ovvero documentando l’assenza di questo grande e ingombrante motore economico, che è altrettanto potente».

I Carmini allagati

Venezia sta perdendo la sua dimensione acquatica?
«Temo di si, se penso che molti amici veneziani oggi non sanno nemmeno portare una barca. È un fatto sintomatico di come stia perdendo la sua anima, e più mi rendo conto di questo più sento la necessità di valorizzare questi elementi prima che svaniscano. Mi sono laureato con una tesi in storia della Navigazione, indagando molti aspetti spesso ignorati dagli studi storici, con scarsa bibliografia: tecniche di navigazione, abitudini alimentari, dimensioni economiche. Oggi le navi sono quasi un elemento folkloristico della città, la speranza è che questa tradizione di “navigatori” venga recuperata».

Abbiamo spiato questo video: la tua barca si chiama “Musa”, raccontaci anche di lei.
«Non so se sia la mia amante o la mia fidanzata o la mia figlia. Forse la mia fidanzata è la barca a motore che uso tutti i giorni, Musa invece è una sampierotta che ho visto nascere dal primo pezzo di legno, è una barca con vela al terzo, il nome l’ho scelto io, perchè andare per mare è la cosa che mi ispira di più. Per me la vela è come una droga, più la faccio e più mi passa la voglia di fare altro. La barca ja 10 anni , l’ho rinnovata continuamente riverniciata. Ne sono particolarmente orgoglioso».

Come è stato vogare tra canali e rii semideserti durante il lockdown?
«Un’esperienza che porterò con me per sempre, Venezia in quei giorni era una specie di formazione geologica, la pietra d’Istria dei palazzi sembrava una scogliera naturale, sembrava quasi di essere a Premantura, un parco fantastico in Croazia che si sviluppa su un promontorio, l’elemento umano era scomparso. Molto affascinante. Ma anche inquietante: sembrava un futuro post apocalittico, andare in giro per la città da solo ti da la sensazione di essere l’ultimo rimasto sulla terra. Gli effetti dell’assenza del turismo sono stati altrettanto drammatici, questa esperienza mi ha ricordato che le città, anche le più belle, sono fatte dagli uomini, senza di loro perdono il loro valore».

Entrambi i titoli di cui stiamo parlando, “La città delle sirene” e “Venezia Liquida” sono legati alla casa di produzione che hai fondato: Ginko Film, ad un anno e mezzo dalla sua nascita possiamo fare un bilancio di questa esperienza? E qualche futuro sviluppo?
«Siamo nati grazie a un finanziamento regionale (così come il progetto Venezia Liquida) due anni fa, siamo operativi da un anno e mezzo. Siamo soddisfatti: nonostante questo periodo difficile, che stiamo attraversando, la società continua a lavorare. Il focus è sui documentario d’autore, per sostenerci realizziamo anche video di natura commerciale. Nel 2020 usciamo con due film oltre alla “Città delle sirene”: “Le storie che saremo” un progetto collettivo tratto da sei archivi nazionali di film di famiglia per riflettere sul nostro futuro e “Transumanze” di Andrea Mura che uscirà a breve. Ginko, ha altri tre progetti in cantiere due sul teatro e uno sul sociale. La nostra sede è in Rio Marin, che è andata sott’acqua nel novembre scorso e da cui parte la narrazione della Città delle Sirene. La scelta di aprire la nostra sede a Venezia nasce anche dalla volontà di lanciare un segnale: non per forza le attività produttive devono andare in terra ferma, questa sfida sta dando un buon riscontro nei nostri collaboratori che hanno avuto l’occasione di vivere che hanno apprezzato tanto lo stile di vita in questa città. C’è stato grande entusiasmo, Venezia non è solo turismo e con questa scelta cerchiamo di ribadirlo».

Venezia come simbolo dei cambiamenti climatici, secondo te può rappresentare un modello virtuoso in ambito globale. Cosa manca in questa fase?
«Potrebbe esserlo, senza troppe difficoltà. Il concetto che prevede una riconversione progressiva all’energia verde potrebbe essere applicato anche in maniera semplice: pensiamo alle barche, poche migliaia di barche che potrebbero passare all’elettrico, allo stesso modo sarebbe da fare una transizione per la banchina dei terminal passeggeri della marittima, dove le navi attraccate stanno col motore acceso. Questi ritardi sono un chiaro segno che nella lotta al cambiamento climatico e nella transizione verde non viene fatto abbastanza. L’identità della città così immersa nella natura, i canali che abbiamo visto popolarsi di pesci uccelli, fauna, sono un esempio di come uomo e ambiente possano convivere in maniera pacifica ed equilibrata, ma rimaniamo nel terreno dell’utopia. Non siamo certo un modello virtuoso per ora».

Bisogna ricordare che Venezia vive di questa bellezza costante, che è proprio frutto di enormi investimenti di natura culturale fatti in passato, senza mecenati non esisterebbe nelle forme in cui la conosciamo, penso che oggi questo modello non vada assolutamente abbandonato. La cultura ha fatto fiorire la città, la sua assenza rischia di farla morire

 

Il linguaggio cinematografico è stato un protagonista assoluto di un’estate veneziana sostanzialmente orfana di eventi: citiamo le esperienze di Rete Cinema in Laguna, di Cinema Galleggiante e di tante rassegne indipendenti come quelle promosse da Icine, Cineclub, Leofanti e altre ancora. Il cinema può salvare Venezia? Può aiutare a farla riflettere meglio su sé stessa?
«Una delle funzioni del cinema, e dell’arte più in generale, è proprio la prerogativa di aprire nuove visioni sulla realtà, aprire gli occhi allo spettatore. Sì, io penso che arte e cultura possono salvare la nostra città. Quest’estate abbiamo visto come il cinema dal basso sia fiorito in maniera evidente, forse di più rispetto ad altri linguaggi. Venezia si presterebbe ad essere un vero laboratorio. Parlo concretamente, basti pensare che il mix e la color correction del documentario sono stati fatti in laguna. Immagino per questa città un polo di produzione e di creazione, come sta avvenendo di fatto. Mentre parliamo ci sono tre troup attive in città, per non parlare degli spot e dei documentario vengono girati continuamente. Questo rappresenta anche una forma di occupazione importante. Mi auguro che non sia solo il cinema ma siano le discipline creative in generale a salvare Venezia. La Biennale è uno degli eventi più importanti a livello internazionale, genera occupazione, genera indotto e rappresenta un modello alternativo al turismo. Queste attività sono attrattori importanti, è un peccato che siano dovute intervenire l’acqua granda e la pandemia per segnalare chiaramente queste potenzialità: speravamo di arrivarci prima, come è avvenuto in altri territori. L’invistemento in cultura viene sempre ampiamente ripagato. Bisogna ricordare che Venezia vive di questa bellezza costante, che è proprio frutto di enormi investimenti di natura culturale fatti in passato, senza mecenati non esisterebbe nelle forme in cui la conosciamo, penso che oggi questo modello non vada assolutamente abbandonato. La cultura ha fatto fiorire la città, la sua assenza rischia di farla morire».

Parliamo di te: cosa ti ha fatto prendere in mano una cinepresa per la prima volta? Perchè hai scelto il “documentario”?
«Da piccolo volevo fare lo scrittore, a un certo punto mi sono reso conto che nel presente i registi a modo loro sono degli scrittori del nostro tempo. Mi emoziono di più davanti a un film che leggendo un libro, è come se vedessi concretamente convergere nella settima arte tutte le discipline che mi interessano di più: scrittura, fotografia, teatro e musica (ho suonato per anni il violino). Da qui la scelta del cinema e poi l’accostamento al mondo del documentario. Frequentando dopo la laurea in storia, la scuola di cinema di Palermo ho consciuto una forma espressiva che conoscevo poco e che oggi pratico tutti i giorni. Devo dire che nell’ambito di quella specializzazione ho conosciuto anche i due attuali soci di Ginko Film, Chiara Andrich, con la quale collaboro da 8 anni, e Andrea Mura, un’amicizia che si è trasformata in una collaborazione e un vero matrimonio professionale. Siamo intercambiabili, registi, montatori, produttori, direttori fotogragria, operatori, il nostro progetto nasce dall’adattabilità dell’albero di ginko biloba, una pianta molto adattabile, e noi cerchiamo di fare altrettanto nel campo degli audiovisivi».

Il tuo nome è ricorrente in tante visioni di città, che meritano di essere raccontate, ad esempio anche Red Regatta, un progetto sulla città che prova a dialogare con il suo passato e che ha introdotto una dimensione collettiva piuttosto inedita per Venezia: partendo da elementi molto semplici, la vela, il rosso. Com’è stato vivere da dentro la performance di Melissa McGill?
«È forse il progetto a cui sono più legato in assoluto perché ha unito tre passioni, la vela al terzo, che pratico, quella del documentario e il volo: ho potuto sbizzarrirmi con immagini suggestive fatte col drone, il colpo d’occhio di 50 vele che punteggiavano la laguna è fantastico. Il mio coinvolgimento è nato attraverso l’associazione Vela al Terzo, di cui sono membro, e che è stata contattata da Melissa McGill per la sua performance. Abbiamo iniziato a collaborare, con un reciproco scambio di idee e ne è nata un’amicizia profonda. Realizzare il video di red regatta è stato, fantastico: l’unico rammarico è stato quello di non poter guidare la mia barca perché dovevo filmare, ma fa parte del gioco».

Domanda di rito sul tuo sestiere: come lo racconteresti con una parola o una frase?
«Una delle riserve indiane dove Venezia continua ad essere una vera città. Sono “cannaregiotto, nato e crescuto a Cannaregio alto, ora traferito a cannergio basso, in Fonamenta Ormesini, zona Ghetto, che quando lo dico ai miei amici stranieri fa molto “gansta”. Come tutti i cannaregiotti tendo a non uscire mai dalla mia area, avere lo studio in rio Marin è l’occasione per passare il canal grande. Qui la zona è ancora molto abitata, e ci sono tante aree dove il tuismo non si sente, bambini che giocano in campo e famiglie che vanno in barca».

Migliori posti per colazione, pranzo, cena e aperitivo nella tua città?
«È un segeto professionale. Trattoria promessi sposi, che si vede anche nel film, Fifo, per la colazione torrefazione. Fuori sestiere direi: La rivetta, Antica Mola»

Luogo migliore/preferito per vedere un film?
«Il cinema galleggiante, vorrei che diventasse una consuetudine».