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HÅN

Sognare in inglese per tornare a comunicare in italiano

quartiere Bovisa

Scritto da Tommaso Monteanni il 11 aprile 2022
Aggiornato il 8 aprile 2022

Foto di Glauco Canalis

Chiunque abbia vissuto all’estero ha affrontato lo struggle del non riuscire ad esprimersi come vorrebbe. D’altronde se nessuno ti capisce come la mamma, ci si può aspettare che nessuno ti capisca meglio in una lingua che non sia quella madre. Ma per capire di vivere un sogno, bisogna uscirne. Ne sa qualcosa HÅN che ci ha spiegato cosa significa scrivere in una lingua diversa dalla propria, vivere e viaggiare in chiave della propria musica, e cosa ci sia di etereo all’interno del suo pop.

«Una dimensione sognante e onirica, eterea: una dimensione di scrittura che va per immagini.»

HÅN è nome particolare, ha delle sembianze nordiche. Come l’hai scelto e perché?

È un nome svedese anche se io non ho nessuna provenienza di quel tipo, le mie origini sono completamente italiane. L’ho scelto perché sembra un nome di persona e quando ho iniziato a fare musica ero molto affascinata dalle atmosfere scandinave sia come paesaggio che come musica…fra l’altro mi scambiano molto spesso per nordica quindi mi faceva molto ridere giocare su questa cosa! E ormai me lo devo tenere.

A me piace molto! E secondo mia percezione comunica bene il mood internazionale della tua musica.

Condivido ma secondo me questa cosa vale molto per la musica che facevo all’inizio del mio percorso, soprattutto perché i miei ascolti erano molto su quel filone nordico, e quando inizi a fare musica ovviamente la tendenza è di replicare ciò che ascolti. Poi passa un po’ di tempo e inizi a definire meglio la tua identità musicale. Adesso non so bene cosa possa sembrare ma la sento mia al 100%. Purtroppo resterò sempre quella che fa le canzoni lente, è più forte di me, posso partire con una base a 150 bpm ma va a finire che li dimezzo! Quindi sarò sempre un po’ eterea anche se non lo vorrei.

A proposito di essere eterea, è un termine che ricorre spesso quando si parla della tua musica. Cosa vuol dire per te pop etereo? Ti ritrovi in questa definizione?

Un po’ sì, nel senso che sono in un momento di cambiamento musicale e non mi rivedo più molto nel mio vecchio repertorio, sento di essere un’altra persona rispetto a quando ho prodotto quella musica. Di fatto sotto alcuni punti di vista lo cancellerei dalla storia. Per riprendere un’intervista che ha fatto Giuseppe Cruciani, dice che tutto quello che ha detto/fatto da un mese prima andando indietro lo vorrebbe eliminare dal mondo, e io mi trovo molto d’accordo perché mi da fastidio fare qualcosa e non riconoscermi più in quella cosa.

 

Addirittura! E non credi che però quello che hai fatto sia comunque una foto istantanea che rappresenta un momento di un percorso?

Assolutamente! Lo è, ma a questo punto ti direi che non vorrei più guardare quelle foto (ride). Credo che il problema in questo caso per me siano più gli altri che non riescono necessariamente a capire che tu non sei più quella cosa: penso che il primo approccio è la cosa che più ti rimane di un’artista e il fatto che invece io mi sia evoluta e sia cambiata mi fa vivere in maniera conflittuale la musica che ho fatto in passato. Comunque penso che sia un problema comune di chi fa musica, bisogna accettarlo e basta. Per ritornare alla domanda su cosa significa per me etereo, rappresenta una dimensione sognante e onirica. Ad esempio questa dimensione ricade anche nella scrittura, vado molto per immagini, non riuscirei a scrivere raccontando una storia, rimango molto più astratta ed evocativa.

Rimanendo sulla scrittura, appartieni a quel piccolo gruppo di artisti che nonostante vive e fa musica in Italia decide comunque di comunicare in lingua inglese. A cosa attribuisci questa scelta? Hai scritto sempre e solo in inglese o qualche volta hai provato anche con l’italiano? Se sì, che differenze trovi?

Anche questa scelta si lega alla prima risposta: quando ho iniziato ascoltavo principalmente musica anglosassone, automaticamente cercando di replicare quello che ascoltavo l’istinto era di scrivere in inglese. Inoltre prima avevo una concezione molto “vecchia” della lingua italiana all’interno della musica, adesso che sono iniziati ad uscire progetti di vario genere la mia percezione è cambiata; infatti ultimamente sto scrivendo anche in italiano. Da un punto di vista intimo e personale lo trovo molto diverso, scrivere in madrelingua ti fa sentire più vulnerabile e sincero. Poi ovviamente scrivere in una seconda lingua significa anche accettare di non poter avere la proprietà di linguaggio di un madrelingua. Per riassumere, il motivo per cui sto provando a scrivere in italiano è perché ho percepito a livello di comunicazione e linguaggio un gap col pubblico che non riesco a colmare con una lingua che non è mia in assoluto e questa cosa l’ho capita anche vivendo a Londra per un anno. Con l’inglese non penso di riuscire a far sì che quello che dico sia veramente relatable per il mio pubblico, voglio sentirmi più connessa con chi mi ascolta.

Sono un grande fan di Londra come città, deve essere stato stimolante abitarci e fare musica. Da quanto abiti qua a Milano invece? Leggevo che sei di zona del lago di Garda, dove di preciso?

Vengo da Padenghe sul Garda, provincia di Brescia. Mi trovo in piena campagna, e come puoi immaginare è tutto molto lento. Abito qua a Milano da Settembre, mi piace la città ma non ho ancora avuto modo di esplorarla e di sentirla mia; in un certo senso non l’ho ancora vista in modo romantico. Londra è stata una bella esperienza e l’impressione che mi è rimasta per come l’ho vissuta è di una città quasi di passaggio dove le persone che vanno e vengono hanno comunque l’intento di voler concludere qualcosa in maniera abbastanza immediata, e quindi di un posto dove ci sono più possibilità di connettere con gli altri.

Ho avuto modo di vedere che hai suonato in apertura a diversi artisti importanti e anche in situazioni di spicco, fra tutte il Primavera Sound. Come te la sei vissuta a salire su un palco così rilevante?

Innanzitutto voglio specificare che ho suonato al Primavera Pro, che è uno “spin-off” del festival per emergenti. C’è un palco dedicato all’interno del festival principale. È stata un’esperienza abbastanza veloce ma intensa: siamo andati in macchina da Brescia, infatti ho questo flash di noi che siamo alle 3 di notte che guidiamo da qualche parte nei pressi di Barcellona, e come puoi immaginare sul palco emergenti è tutto molto frenetico, non vieni trattato come un FKA Twigs che ha tutto il tempo di prepararsi e prendersela con calma. Nonostante ciò mi è piaciuto molto esibirmi in quella situazione, inoltre ero stranamente calma cosa che non mi succede quasi mai prima dei live. Altre esperienze rilevanti sono state le aperture ai Cigarettes after Sex e Bonobo, che però secondo me sono arrivate troppo presto nella mia carriera, ero ancora troppo incosciente per capire cosa stesse succedendo e sfruttare quelle opportunità in maniera più consapevole.

E invece c’è qualche palco qua a Milano che ti piacerebbe calcare?

Il Magnolia è il posto che sento più affine sia per selezione musicale che per dimensione.