Dopo la pubblicazione di Febbre e la candidatura del Premio Strega 2020, la vita di Jonathan Bazzi è cambiata. Da allora è diventato editorialista per Domani, partecipato all’antologia collettiva Manifesto, e lavorato al suo prossimo libro. Io l’ho incontrato ai giardini di Porta Venezia – un quartiere che gli è caro, ci ha spiegato perché – per parlare, tra le altre cose, del suo rapporto con Febbre e del successo della narrativa autofiction.
Febbre è uscito da due anni e continua visto che hai vinto il Premio Sila in questi giorni. Com’è che ti ha cambiato la vita Febbre?
Sicuramente mi ha portato ad avere delle giornate più vicine rispetto a quello che sono, che mi sento di essere. Prima di Febbre io ero il tipico quasi trentenne con una laurea umanistica e in balia di desideri più o meno frustrati, tentativi, collaborazioni… un po’ stritolato dai ritmi di produzione di contenuti dell’industria culturale soprattutto per la rete, perché, dopo l’insegnamento dello yoga, mi sono mantenuto scrivendo per magazine e riviste online, ritrovandomi spesso ad avere delle giornate che consistevano nello scrivere del mondo senza mai uscire, nel mondo. Era una cosa alienante. Con Febbre questo circolo vizioso si è un po’ allentato. Posso decidere di più i miei tempi. Poi non so se nel futuro più lontano continuerà ad essere così, però per ora riesco a scegliere di cosa occuparmi, di cosa scrivere.
Che rapporto hai con il libro dopo l’uscita? È un prodotto che senti ancora vicino o che comincia ad allontanarsi?
Devo dire che io ormai lo considero un’entità a sé stante, anche perché questa durata, questa durevolezza, questa insistenza che Febbre ha, non mi appartiene. Io sono una persona che sin dall’adolescenza ha teso abbastanza verso la dispersione: cominciavo un sacco di cose, poi mi distraevo perché mi chiamava qualcos’altro, quindi ho sempre faticato a portare avanti delle cose a lungo. Però, ed è una cosa per me affascinante, sono riuscito a creare questa cosa che invece mi ha permesso di mettere radici e avere una stabilità che, da solo, fino ai trentadue anni, non mi ero riuscito a dare. Il libro, per l’intreccio delle cose che ha dentro, è riuscito ad attirare l’attenzione di molte persone diverse, e questa è una caratteristica di cui sono molto felice, perché una delle mie preoccupazioni più grandi è che rimanesse in qualche modo confinato come “libro della comunità LGBT”. Io non sono fissato con prodotti e libri che devono portare il marchio della comunità LGBT e ci tenevo che ci fosse questa trasversalità, che non era per nulla scontata. Il solo fatto che contenesse il tema dell’HIV esulava in qualche modo dal mainstream, perché è un tema di cui non si parla al di fuori dei casi scandalistici in cui c’è il mostro, l’untore da mettere alla gogna. Febbre tendo a vederlo come una cosa a sé stante che io in qualche modo seguo. Lui, lei, fa delle cose, e io ormai lo, la seguo. E ormai non sempre con euforia perché sono uno che si stanca molto a ripetere le stesse cose.
Quando il libro è uscito nel 2019, io dopo tre o quattro settimane me lo sarei lasciato alle spalle, facendo skip e andando avanti. Ma lui per le cose che ha fatto mi ha costretto a rimanere con lui. Il Premio Strega e tutti gli eventi, con il piccolo tour di presentazione che abbiamo fatto, sono arrivati l’anno dopo, tra marzo e luglio 2020. Per molte persone il libro è uscito l’anno scorso, perché il Premio Strega gli ha dato un boost di visibilità facendolo conoscere a molte persone che non seguono attentamente uscite editoriali, nonostante ci fossero state tre, quattro ristampe. Quest’onda continua ancora adesso, infatti anche quest’estate farò delle presentazioni del libro. Questa durata è stata problematica per la mia scrittura, perché mi ha costretto a stare in una situazione di continua distrazione: cose da fare, interviste… ancora oggi è difficile prendermi delle giornate in cui scrivere ininterrottamente avendo la mente sgombra. Sto vivendo una situazione di compromesso, allenandomi a forme di attenzioni più parcellizzate, frammentate, rispetto alla mente sgombra che avevo nella stesura di Febbre, che ho scritto prendendomi un bel po’ di mesi sabbatici grazie al mio ragazzo che in quel periodo ha compensato alle entrate che non stavo garantendo io.
Il tuo libro fa vedere ad un pubblico ampio una realtà che pochi toccano per mano. Lo stesso stanno facendo libri di altri autori giovani che scrivono di sé, parlando della propria esperienza di vita in prima persona. Come ti spieghi il boom di questo tipo di narrativa autofiction?
Io credo che in tutto questo centrino i social, e quindi l’inclinazione a raccontarsi, esporsi, un venir meno di certi bisogni di privacy e di protezione che prima portavano a inserire queste narrazioni all’interno di una cornice finzionale.
Io non credo molto tra una distinzione netta tra fiction e autofiction. I romanzi hanno contenuto sempre delle forti componenti autobiografiche. Molto spesso, anche recentemente, la differenza tra un romanzo e un memoir, un’opera di autofiction, è data solo dai contrassegni nominali. Il fatto che basti sostituire dei nomi per avere un romanzo o un’opera di autofiction a me fa pensare che la differenza non sia così grande. Spesso la si può motivare con un bisogno di autoprotezione e di privacy che credo, negli ultimi anni, abbiano portato ad assottigliarsi e alleggerirsi perché ci siamo abituati progressivamente con i social network e, ancora prima delle chat, che portavano a una trascrizione dei propri stati d’animo e una comunicazione dei propri stati animi che passava dalla verbalizzazione.
Io però credo che il fenomeno dei social – assieme sicuramente ad alcuni problemi, derive – abbiano offerto possibilità di parola e di autorappresentazione ad alcune comunità che prima erano invisibili, o comunque marginalizzate. Pensando al mio percorso, per me i social sono stati importanti. Nella fase in cui stavo finendo l’università e non ero soddisfatto delle cose che stavo facendo ho cominciato a spendere molto tempo e molte energie nella scrittura sui social. Erano gli albori di Facebook: 2012, 2013. Io scrivevo questi post dal tenore e dal registro narrativo, cominciando inconsapevolmente ad usare Facebook come piattaforma editoriale. Così ho attirato l’attenzione di persone dell’ambiente, cominciando a scrivere per i magazine. Poi ho capito che il rapporto con la scrittura che mi interessava coltivare era un rapporto non basato su una produzione e un consumo rapido, ma che mi piaceva prendermi cura a lungo del testo. Quindi dal 2017 sono arrivato a scrivere Febbre. La mia storia è davvero intrecciata con i social, sia da un punto di visto di canale e mezzo espressivo, sia di espressione dei miei temi, perché io faccio coming out riguardo alla mia sieropositività nel 2016 con un articolo su Gay.it dove avevo cominciato a lavorare da pochi mesi. Le piattaforme mi hanno offerto delle possibilità che da solo non sarei mai riuscito a darmi. Non ero e non sarei mai stato il tipo che riusciva a conquistarsi degli spazi dal vivo, agli eventi, parlando con la gente, facendo pubbliche relazioni. Con i social sono uscito dalla mia cameretta, riuscendo ad interessare qualcuno. Da lì sono arrivato a Febbre.
Molti parlando dei social come una delle concause dell’attuale situazione di polarizzazione politica e sociale che viviamo oggi. Cosa ne pensi?
Per la mia storia e per ciò di cui mi occupo mi capita di pensarci in continuazione. Io credo che i social producano dei vizi epistemici, cioè: tutte queste discussioni, accese, spesso anche violente, sui migranti o sulla cosiddetta cancel culture, nascono e sono frutto di quello che si vede succedere sui social. Molte persone si basano sulle cose che si vedono scorrere nelle bacheche, sui feed, pensando che quello rappresenti in qualche modo la realtà, ma non è così. Perché ci sono delle ampie, ampissime fette di società – soprattutto in Italia, che tendenzialmente è un paese molto conservatore – in cui i termini del discorso e della sensibilità della maggioranza non è quella degli attivisti di Instagram. Si tende a usare ciò che circola sui social – che è anche frutto dell’azione di un certo tipo di meccanismi ed algoritmi – come terreno su discussione, confronto e critica. Poi però, se uno esce fuori e sente come le persone parlano, gli insulti che usano… non mi sembra che ci sia questa presupposta dittatura del politicamente corretto. E non parlo solamente di persone di una certa età, ma anche di ragazzini, adolescenti.
Basti pensare, e questo è un pensiero che faccio sempre più spesso negli ultimi tempi, che le forze politiche più forti nel nostro paese oggi sono quelle che non sostengono qualcosa di simile al politicamente corretto, ed è facile che il prossimo governo che avremo andrà in quella direzione lì. Queste persone parlano di epoca del vittimismo, ma io lo trovo problematico, amorale. Anche perché lo fanno con la volontà di posizionarsi pensando al loro tornaconto, alimentando un’identità oppositiva rispetto a discorsi di maggior inclusività che ci sono arrivati anche con i social.
Da tempo sei editorialista di Domani. Come separi il lavoro di autore dall’attivismo e dall'opinionismo?
Per me sono due cose abbastanza separate. Rispetto a quello che facevo negli scorsi anni, per la complessità e le energie in campo, tendo a produrre molte meno opinioni di un tempo, quindi il mio rapporto principale con la scrittura è quella della dimensione narrativa in cui valgono delle regole diverse. Mi interessa un approccio più descrittivo che prescrittivo. Anche quando rivolgo lo sguardo verso me stesso mi interessa cogliere delle tendenze e delle inclinazioni sbagliate, problematiche. Quando invece mi misuro con la scena pubblica e quindi anche con la società, le forze politiche e i discorsi che circolano sui media e sui social tendo a farmi portavoce di istanze e domande che ancora oggi nel nostro paese restano silenziate o scarsamente considerate. Lo vediamo ora, con il nostro Presidente del Consiglio che non ha ritenuto opportuno spendere mezza parola sul DDL Zan, ritenendolo un tema divisivo e dicendo che non è tempo di affrontarlo. Io trovo che sia divisivo perché ci sono delle persone che ragionano sulla base di pregiudizi e portano avanti un pensiero violento. Non si tratta di posizioni da mettere sullo stesso piano.
Recentemente sempre con Fandango hai partecipato a un’antologia collettiva. Me ne parli?
Si chiama Manifesto. Un’antologia curata da Iacopo Barison che ha messo insieme dieci voci che offrissero una fotografia, per quanto parziale, delle scritture dei millenials. Sono tutti autori e autrici nati tra il 1985 e il 1996. L’idea partiva dal fatto che la letteratura, fino a un certo punto, non si sia riuscita molto a liberare dal Novecento, e che anche negli ultimi decenni spesso ci si è rifatti in modo rigido a quei modelli, senza cercare strade più vicine per lingua, per stile o temi rispetto a quello che è successo negli ultimi anni. Io credo che con il digitale molte cose siano state stravolte ma per certi aspetti la letteratura e la narrativa sembrano essere rimaste indietro. L’idea di Jacopo è quella che, se si va a cercare tra gli autori che hanno esordito negli ultimi anni si trovano delle eccezioni a questo tipo di flusso abbastanza conservatore dell’ambiente editoriale. Così ci ha chiesto di riflettere attorno a tre parole d’ordine – io, qui, adesso – e produrre quello che volevamo: potevano essere dei racconti tradizionali, dei personal essay… a partecipare c’è stata anche Zuzu, che essendo fumettista ha partecipato con delle tavole, e Tutti Fenomeni, che ha contribuito con un racconto in versi.
Io ho scritto un racconto che ruota attorno al tema delle dipendenze e del rapporto con l’alcool che ha come protagoniste una coppia di donne. Mi interessava parlare delle dipendenze in una chiave un po’ diversa, perché solitamente né si parla all’interno di un contesto di isolamento, solitudine e degrado. Io volevo guardare alle dipendenze condivise all’interno di una dimensione sociale, mettendone in luce il fascino, e quindi la componente che poi è sempre rimossa, magari nel tentativo di non fare promozione.
Come va col nuovo libro?
Ho cominciato a scrivere il nuovo libro alla fine del 2019. Con quello che ho successo con lo Strega mi sono dovuto interrompere. Sono andato avanti per fasi separate, un po’ ad ondate. Se tutto va bene uscirà all’inizio dell’anno prossimo… adesso vedremo se riuscirò a rispettare le consegne. Però non amo parlare di quello che sto scrivendo prima dell’uscita non tanto per una questione di scaramanzia, ma per il fatto che non condividere mi permette di mantenere una certa tensione interna. Così sto cercando di dire il meno possibile perché mi aiuta ad arrivare a quello che poi sarà il momento dell’annuncio, del titolo e della pubblicazione il più concentrato possibile. Anticipare allenterebbe la suspence che una parte di me stesso vive nei confronti delle altre.
Che rapporto hai con Porta Venezia?
Ci stavo pensando ora. Fino a un attimo fa lo avrei legato a delle fasi più recenti: il fatto che io ho abitato e l’ho frequentato molto negli ultimi dieci anni. Ma effettivamente Porta Venezia è un punto di riferimento da tanti anni per la comunità LGBT. Le mie prime uscite durante l’adolescenza con le quali ho cominciato a vivere la mia socialità LGBT sono state all’Elephant di Via Melzo, che ora non c’è più. Io ci andavo molto spesso già durante la seconda, terza liceo. è stato un luogo fondamentale assieme al Borgo del Tempo Perso, in Porto di Mare, dove mi sono trovato circondato da ragazzi e ragazze omosessuali. Per me si lega a queste iniziazioni molto cariche emotivamente perché fino a quel momento il mio orientamento – che non è, come qualcuno pensa, solo sessuale, ma anche sentimentale, relazionale, identitario, e quindi più ampio – si era espresso in solitudine. Porta Venezia è uno dei primi posti dove io ho cominciato a vivere apertamente e con gli altri la mia identità. Fino ad un certo punto questo rapporto con la zona era stato circoscritto con l’Elephant. Poi, quando ho cominciato a vivere a Milano, sono stato in Città Studi, tra via Monza e Loreto e poi in Via Kramer. Da lì ho familiarizzato in maniera più profonda con la zona, che per me è diventato un punto di riferimento, anche per via del fatto che sia uno dei posti con la più alta concentrazione di ristoranti vegani, forse anche per la presenza di comunità altre rispetto a quella italiana.
Oggi Milano è il posto in cui vivi. Come ti senti a esserti lasciato Rozzano alle spalle? Pensi mai a tornarci, o hai in progetto di andare altrove?
Io mi sono trasferito a Milano quattordici anni fa. Ho attraversato dei momenti molto complicati e faticosi in cui ero estremamente precario, con entrate altalenanti, e non ho mai goduto di un consistente supporto della famiglia. Poi c’è stato un momento di svolta, quando ho cominciato a vivere col mio ragazzo. Questo mi ha reso meno solo, isolato. Ci sono stati momenti di difficoltà economica in cui ci siamo supportati a vicenda per uscirne. Sicuramente il fatto di non essere più un atomo vagante nella follia degli affitti e delle condizioni e delle garanzie che vengono chieste dalle agenzie mi ha permesso di avere un orizzonte un po’ più ampio, motivante. Non tornerei a Rozzano perché lì – pur essendo molto vicina in linea d’aria, saranno dieci chilometri; alla fine è Viale Missaglia che le divide – c’è un’atmosfera emotiva e culturale radicalmente diversa. È un altro posto. È Milano, ma non è Milano. Ho sempre avuto sin da quando ero piccolo, durante l’adolescenza, questa volontà di stare dove le cose succedevano, dove le possibilità erano tante e non ci si doveva accontentare. Oggi sto molto meglio di come stavo a Rozzano, e comunque non so se ci sono altri posti in Italia dove mi trasferirei. Forse, ci fosse la possibilità, ci sono alcuni posti all’estero che potrei prendere in considerazione; però, essendo piuttosto pigro e disorganizzato e con una certa tendenza alla dispersione, i lunghi spostamenti mi fanno perdere tempo ulteriore di quanto ne perderei di mio. Più sono comodo più ho la speranza di riuscire a combinare qualcosa… tendo a perdermi nei miei pensieri, nelle mie ansie, e quindi credo di essere fatto per la città.
Sicuramente negli ultimi anni, a differenza di quello che mi succedeva a Rozzano, ha cominciato a venirmi voglia di altro. Oggi, pensando ai viaggi, mi capita sempre più di voler incontrare quei volti della natura che non ho mai visto. Era una cosa che fino a poco tempo fa non avevo. Non so se in futuro si tradurrà in un progetto di trasferimento che non sia in città. Ma io qui sto bene.
Un’altra delle cose che mi ha imposto l’uscita del libro è quello di spostarmi molto di più rispetto a quanto facessi prima, per cui ho conosciuto posti che e città non avevo mai visto. Come Roma, che ho visto per la prima volta per la promozione del libro. Ma per mia indole ho bisogno di una prevalenza casalinga. Una base piuttosto stabile. Per una certa indecisione ci metto tempo a concludere cose. Quindi una base fissa mi permette di avere quella produttività di cui ho bisogno per venire incontro alle esigenze delle persone e del mondo che mi circonda.