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Luca Lo Pinto

Essere fuori, ma dentro. E dirigere (artisticamente) il MACRO

quartiere MACRO

Scritto da Riccardo Papacci il 17 giugno 2022

foto di Guido Gazzilli

Luogo di residenza

Roma

Con una formazione un po’ inusuale da storico dell’arte, Luca è stato tra i cofondatori del magazine NERO. Attraverso la sua attività è riuscito a coniugare linguaggi e percorsi eterodossi, creando una struttura concettuale caratterizzata da un’attitudine facilmente riconoscibile, lavorando su quel crinale che permette di essere dentro e fuori dalle istituzioni (e dall’istituzionale). Anche all’interno di uno spazio incredibilmente complesso come il MACRO, di cui è direttore dal 2020.

Il tentativo di fare qualcosa di diverso, ovviamente senza arroganza, ma cercando di apportare un po’ di costruttività anche nella critica dello “stare fuori”.

Qual è stato il percorso che ti ha portato fin qui?

Ho studiato storia dell’arte alla Sapienza, ma, a parte alcuni insegnanti, non è che sia stata chissà quale esperienza stimolante. Più che altro in quel momento ho avuto la fortuna di ritrovarmi in un incrocio di persone che mi hanno motivato e interessato. Con alcune di queste, Valerio Mannucci e Lorenzo Gigotti (e poi Francesco De Figuereido) abbiamo creato NERO proprio in quegli anni. Un momento importante per me. In quello stesso periodo venne a farci una lezione Cesare Pietroiusti. Fu un evento che aprì la mente a tutti noi. Cesare lavorava in una galleria che si chiamava Primo Piano e stava cercando un assistente. Mi ritrovai quindi in questa galleria storica, con una proprietaria che lavorava soprattutto con artisti concettuali e minimalisti, con particolare attenzione verso alcuni artisti più giovani. L’esperienza di NERO e la curatela sono sempre state parte di uno stesso corpo. Se da una parte ero ossessionato dal fare le mostre, dall’altro mi trovavo in contrasto con l’autoreferenzialità del mondo dell’arte. Il muoversi costantemente tra questi due mondi e linguaggi è stato fondante. Ma è stato importante anche frequentare persone, soprattutto artisti, molto più grandi di me, oltre ai miei coetanei, e quindi oscillare tra generazioni diverse.

A questo punto ti chiederei di raccontarmi un po’ il MACRO.

Confesso che per me l’idea di istituzione è sempre stata associata a una forma di potere che, non voglio dire andava ostracizzata, ma che spesso risultava come qualcosa capace di confinare, restringere, costringere, piuttosto che uno spazio di libertà.

Magari uno spazio da usare e basta…

Sì. In questo penso a NERO e al suo stare fuori, ma non in senso sessantottino. È più che altro un non ritrovarsi in un’offerta e quindi essere costretti a crearne un’altra. Fare una rivista è creare un’istituzione. Magari un’istituzione effimera, che non ha uno spazio fisico, anche se c’è la fisicità della carta o l’immaterialità digitale del web, ma è un’istituzione, per me. Se questo ha una visione, un seguito, significa che hai costruito qualcosa. Ritrovarmi di fronte al MACRO mi ha posto una sfida: provare a portare quell’attitudine e quell’aspetto di interrogazione e auto-interrogazione dentro l’istituzione. Farlo in un museo con un’architettura complessissima, assolutamente bipolare, non senza una storia, ma con una storia fatta di inciampi più che di percorsi lineari, ha moltiplicato i livelli della sfida. Uno di questi certamente è stato il tentativo di fare qualcosa di diverso, ovviamente senza arroganza, ma cercando di apportare un po’ di costruttività anche nella critica dello “stare fuori”. La mia idea era quella di mettere in discussione gli oggetti, eliminando – ancora una volta – l’autoreferenzialità dell’arte. Un po’ come un magazine: un posto in cui entri e leggi, passeggi, osservi, in modo anche frammentato, rizomatico, rompendo la linearità. Portando dentro la frammentarietà che c’è fuori e provando a dargli una struttura: questa è la bipolarità. E per questo ho deciso di immaginare il MACRO come un magazine, con una griglia editoriale di otto sezioni fisse con una cover; una griglia, però, concepita per essere rotta e per produrre improvvisazione.

Questo è interessante.

Sì, se non c’è una cornice non improvvisi, perché non hai qualcosa con cui confrontarti. È puro caos.

Hai mai avuto delle limitazioni? Idee che avresti voluto portare avanti e che invece non hai potuto?

Zero. Devo dire che non c’è mai stato niente che non sia stato voluto o, ancora di più, già pensato dall’inizio. Anche perché l’idea che avevo, trasformare il Museo in una mostra che durasse tre anni, non era così scontata. Certo, questa cosa può sembrare più che altro evocativa e non fattuale, mentre invece il concetto del magazine è chiaro a chiunque entri nel museo. Attuare questa visione mi ha “costretto” ad avere già in mente quasi tutti i numeri di questo magazine che sarebbero usciti, anche se poi, ovviamente, qualcosa è cambiata nel tempo. Un’avventura fitzcarraldiana, portata avanti da un team piccolo, ma assolutamente dedito a far trascinare la barca al di là della montagna.

Da direttore del MACRO, secondo te, cosa significa “contemporaneo”? Come lo spiegheresti? Oppure, con quale parola definiresti la contemporaneità?

Messa così si rischia di andare su frasi già sentite, che sono poi anche vere. Ad esempio, quando si dice “contemporaneo non si riferisce a ciò che è prodotto oggi, ma ciò che ha qualcosa da dire rispetto al presente”. Ecco, magari leggi Frigidaire, che ha quaranta anni, e parla a te più di tante riviste prodotte oggi. Questo è vero. Se è invece una domanda sul tempo legata ai linguaggi culturali è complicato rispondere. È un tempo sempre più fatto a pezzi, disperso.

Ecco, volevo arrivare a questo. In che modo ti relazioni con questa dimensione? Come provi a lavorarci?

Sarebbe sbagliato ignorarla e continuare a pensare al museo come a un luogo “safe” rispetto al mondo, ovvero un posto in cui entri e ti ritrovi in una capsula. Va benissimo, ma questo può accadere in posti come il Louvre. Qui sarebbe quasi impossibile. Credo però che non si debba neanche essere succubi di certe dinamiche, riproducendo semplicemente quello che ti arriva dall’esterno. La difficoltà è tutta lì. Lavorare su quel crinale che c’è tra l’essere a tempo e fuori tempo, perché quando si è fuori tempo c’è una intenzionalità. Il discorso della doppia velocità si ricollega poi al discorso della spazialità: allo stare fuori e stare dentro.