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Per amor di pizza: Luciano Pignataro

In vista dell'edizione 2021 de La Città della Pizza, abbiamo intervistato uno dei massimi cultori del settore, nonché tra i curatori della rassegna stessa, facendoci spiegare perché di questo piatto non ci si stanca mai

Scritto da Nicola Gerundino il 14 giugno 2021

Attività

Giornalista

Luciano Pignataro è innanzitutto un amante del cibo, quello vero, genuino, che lascia intravedere dietro ogni boccone la storia di chi lo produce e di chi lo prepara. È anche un ottimo comunicatore del cibo, non solo per la sua esperienza decennale presso Il Mattino di Napoli, ma soprattutto per il suo blog, lucianopignataro.it, dove le possibilità di avere una dritta sbagliata su bottiglie, ristoranti o prodotti sono pari allo zero. Luciano Pignataro è anche un amante di prim’ordine della pizza: un’autorità, come si suol dire. Non a caso è una delle firme di quello che ormai è diventato l’appuntamento più importante di Roma, e non solo, dedicato a questo piatto: La Città della Pizza, in programma quest’anno dal 18 al 20 giugno presso gli spazi di Ragusa Off (Emiliano De Venuti, Luciana Squadrilli, Tania Mauri, Renato Bosco gli altri curatori). In questa intervista leggerete della storia d’amore tra Luciano e la pizza e all’ultima riga la voglia di addentarne immediatamente una vi assalirà: trattenete gli appetiti però e tenetevi la fame per il weekend, quando avrete la possibilità di mangiarne cento tipi diversi, preparate da oltre trenta pizzaioli scelti tra la crème italiana e suddivisi in sette case della pizza: “Napoletana”, “All’italiana”, “A degustazione”, “Romana”, “Al taglio”, “Fritta” e “Senza Glutine”.

La Città della Pizza
La Città della Pizza

Iniziamo questa intervista con una domanda quasi filosofica: è nato prima il tuo amore per la pizza o per il cibo? Spesso la passione per la buona cucina nasce nelle famiglie dove si mangia bene, però è altrettanto vero che nell'età più giovane i primi sapori che conquistano sono quelli di strada, mentre la ricercatezza arriva più in là.

Appartengo alla generazione dei babyboomer, le nostre madri cucinavano ancora, magari anche meglio delle nonne. Il buono era in primo luogo a casa, fuori al massimo pizzeria, rosticceria e pasticceria. Il cibo mi è sempre piaciuto e sono sempre stato un mangione, anche se, beata gioventù, sono stato sottopeso fin ai vent’anni, sottopeso al punto di essere riformato al servizio militare.

Come e quando hai trasformato la passione per il cibo in un lavoro, iniziando a scriverne?

Dal cibo al campo, alla crisi dell’agricoltura di quantità italiana. La fuga dalle campagne del Sud dei giovani sono diventati ben presto oggetto dei miei articoli quando ho iniziato a fare il giornalista. Allora pochissimi in Italia si occupavano di queste cose. Dai campi al vino, con un corso per sommelier nei primi anni Novanta, dopodiché continuare a presidiare questo tema nel primo giornale del Sud è stato quasi un percorso obbligato. Nel 1993 nasce la mia rubrica sul Mattino che ancora oggi curo. Diciamo che il cibo è diventato un lavoro nell’ambito del lavoro, dal momento che me ne sono occupato come giornalista professionista dipendente di una testata, in una regione dove l’agroalimentare e la tradizione sono fortissimi. Tutti i miei colleghi si occupavano di politica, sport, cronaca, io ho praticamente occupato un campo libero.

Immagino che le differenze tra il giornalismo gastronomico dei tuoi esordi e quello attuale siano infinite. Se però ne dovessi sceglierne una per te peculiare?

Molto semplice: vent’anni fa chi si occupava di food viveva dello stipendio di un giornale. Oggi gli editori non credono alla qualità della forza lavoro, al capitale umano come risorsa, ma lo vedono solo come costo. Questa costringe molti a diventare al tempo stesso giornalisti e comunicatori per poter sopravvivere e l’autonomia del mestiere è messa in discussione sempre più seriamente. Oggi i ragazzi che si occupano di food, ma soprattutto di vino, sono molto più preparati di quanto lo eravamo noi, ma hanno anche molto meno possibilità di esprimersi ed è un problema serio.

Cosa vuol dire in generale per te raccontare il cibo, che si tratti di giornalismo o meno?

Il cibo è la storia carsica di tutta l’umanità, vedo cosa mangi e come mangi, e capisco subito chi sei. Quello che mi ha sempre affascinato sono le persone che ci stanno dietro e i loro sforzi incredibili. Dalla crisi del 2008 in poi sono loro che hanno portato l’Italia avanti, l’unico settore che è cresciuto in valore e qualità oltre che in export, contravvenendo ai principi liberisti imperanti della ideologia bocconiana che può essere riassunta così: grande stipendio ai manager, licenziamento della forza lavoro, vendita del marchio a una multinazionale. Nel food si è fatto esattamente l’opposto, sinora, soprattutto nel vino, dove una intera generazione ha lavorato per la successiva.

Da quando negli ultimi anni il cibo, o forse sarebbe meglio chiamarlo food in questo caso, è entrato con forza nelle nostre vite - vuoi per i social o per i talent rivolti ad aspiranti chef - anche la pizza è cambiata ed è diventata allo stesso tempo un piatto di culto e un campo di sperimentazione. Quali sono gli aspetti più rilevanti di questo mutamento secondo te?

Il successo della pizza è stato il saper diventar un lusso accessibile. Un processo cominciato una quindicina di anni fa grazie a tre visionari: Enzo Coccia, Gabriele Bonci e Simone Padoan. Il primo ha posto l’attenzione sul tema della lievitazione e sulla qualità degli ingredienti, in un mondo in cui si pensava che sulla pizza si poteva mettere di tutto perché tanto era buona lo stesso. Il secondo perché ha dato dignità alla tradizione romana, partendo dallo stesso ragionamento. Il terzo ha inventato la pizza di stile italiano a spicchi. Nel mio libro “La Pizza, una storia contemporanea” edito da Hoepli, faccio il paragone con il mondo del vino degli anni Novanta: si è creata una vera e propria gara verso il meglio e in poco tempo la gente ha accettato di pagare qualcosa in più sapendo però di spendere per una lievitazione migliore e materie prime migliori. La pizza è popolare, mette d’accordo gourmet e appassionati, unisce le generazioni, non fa distinzioni di sesso e di nazionalità, la pizza è gioia, il “monoprodotto” più collaudato in un’epoca in cui si è sviluppata la gastronomia “monoprodotto”.

Per paradosso, ma forse nemmeno troppo, tanti di questi cambiamenti sono avvenuti in città come Roma che non nella patria per antonomasia, Napoli. E sempre per paradosso, ma forse nemmeno troppo, tutti questi cambiamenti in fondo in fondo non sono altro che dei percorsi alternativi per arrivare a una perfezione che a Napoli (e in Campania) già c'è. Anche a Napoli però ormai si sperimenta molto.

Quando c’è una forte tradizione è più difficile dar luogo alla creatività. Noi italiani lo vediamo dalla birra per esempio, in cui ci siamo sbizzarriti come nessun’altro popolo ha fatto. Napoli ha un suo stile che si afferma nel 1700 attraverso la separazione dei mestieri del panettiere e del pizzaiolo, che ha un proprio forno specializzato (a bocca di luna) nella cottura veloce e ad alta temperatura delle pizze. Questa specializzazione non esiste per nessun altro stile perché si può utilizzare lo stesso forno. Ma anche a Napoli le cose si sono mosse, in direzione del miglioramento dei processi di lievitazione: i giovani amano fare pizze alveolate, con i cornicioni alti e solo molto attenti alla qualità degli ingredienti. Fior di latte e pomodoro, per restare ai basici, sono migliorati enormemente negli ultimi dieci anni. Le pizzerie sono diventate le banche dei piccoli produttori agricoli perché pagano alla consegna e questo vuol dire tanto per chi lavora la terra o per gli artigiani alimentari. E sempre più il prodotto distingue il buon pizzaiolo dai campioni e maestri. Quindi anche a Napoli si sperimenta molto, ma su una strada già tracciata e questo facilita la diffusione dello stile napoletano nel mondo (quasi tutte le grandi catene artigianali indipendenti sono di stile napoletano) perché percepito come identitario. Roma con Bonci e Iezzi ha fatto passi da gigante codificando un modello esportabile con successo, che è quello della pizza in teglia leggerissima e buonissima e con grandi ingredienti sopra.

Quali sono per te le città della pizza in Italia e perché?

Napoli per tradizione, Roma per innovazione e Milano per apertura mentale e possibilità di mercato.

Arriviamo invece a La Città della Pizza, puoi raccontarci che cos'è questa manifestazione e cosa vuole offrire?

La Città della Pizza nasce dall’idea di fare una rassegna del meglio che c’è in Italia, senza però rinchiudersi nei congressi per “gastrostrippati”, mantenendo il carattere popolare e familiare delle pizzerie: l’unico luogo di cibo in cui mi piace vedere i bambini che fanno casino! È un passaggio obbligato per chi vuole essere sotto i riflettori e farsi conoscere ed è sempre ricca di spunti e contenuti che anticipano le tendenze o le raccontano perché nate da poco.

Quali saranno le peculiarità di quest'anno rispetto alle edizioni passate?

La ripresa, la ripartenza, la voglia di tornare a vivere. Questa pandemia ci ha insegnato qualcosa che le generazioni nate negli anni Trenta e Quaranta già sapevano: possiamo perdere tutto senza una nostra colpa. Per una guerra, per un disastro naturale, per un pandemia. Il mondo della pizza è stato resiliente, ha resistito con determinazione ed è subito ripartito alla grande, oggi più di ieri.

Di cosa ti occupi per La Città della Pizza e in particolar modo di cosa di ti sei occupato per questa edizione?

Il programma è frutto di una elaborazione comune degli autori, ciascuno con le proprie sensibilità, esperienze e conoscenze diverse. Nasce nel corso di diversi mesi e lievita come un impasto. Per cui non ho una risposta precisa, ho messo anche io le dita in questo impasto che spero piaccia.

Ci dai qualche consiglio per questa edizione?

Il mio consigio è provare tutti gli stili presenti per vedere i passi in avanti che sono stati fatti. Molto interessanti, tra le altre cose, i convegni sulla professione.

Stai già pensando a cosa proporre per l'edizione 2022?

No, perché ancora non siamo usciti dalla pandemia e navighiamo a vista. Già è stato un atto di grande coraggio da parte dell’organizzazione Vinoforum promuovere questa edizione a giugno scommettendo sulla ripresa.

Chiudiamo con qualche domanda veloce. La prima: la migliore pizza che hai mangiato nell'ultimo mese e la migliore nell'ultimo anno?

La marinara di Francesco Martucci è sicuramente la pizza più interessante di quest’ultimo anno. Nell’ultimo mese, sarò banale, ma scelgo le pizze margherite di Ciro Salvo e Da Michele, rigorosamente con il fiordilatte, le mie madeleine proustiane che devo mangiare per tornare bambino.

Il pizzaiolo che ha cambiato la tua percezione sulla pizza?

Enzo Coccia per il prodotto e Gino Sorbillo per la capacità di comunicarla al mondo.

La pizzeria che non vorresti mai vedere chiudere?

L’Antica Pizzeria Pepe a Caiazzo.

Quella che invece vorresti aprisse già domani?

Una pizzeria che eseguisse solo quattro pizze ad altissimo livello: margherita, marinara, cosacca e pizza fritta.