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Platea

Una vetrina, un display, una stanza segreta, che crea un dialogo costante tra la piazza e dimensioni parallele.

Scritto da Giulia Russo il 4 aprile 2022
Aggiornato il 5 aprile 2022

Platea, talk con Alberonero, Staid e Caserini

Una vetrina, un display, una stanza segreta, che crea un dialogo costante tra la piazza e dimensioni parallele, lo spazio Platea è “un incidente di sguardo”, come amano definirlo i fondatori Claudia Ferrari, Laura Ferrari, Carlo Orsini, Luca Bucci, Lorenzo Bucci e Gianluigi Corsi.
Perché mentre aspetti la corriera, può capitare che attraverso uno sguardo furtivo, un mondo altro ti rapisca all’interno di un luogo inaccessibile ma sempre esposto.
Incontriamo Carlo Orsini, lodigiano, architetto da sempre, curatore ed esploratore instancabile di nuovi linguaggi artistici.

Abbiamo semplicemente la possibilità di esporre e per noi, a questo punto, significa farlo in modo continuativo 24 ore su 24, tutti i giorni della settimana, in un posto dove la gente semplicemente passa e guarda.

 

Partendo dall’inizio: come vi siete incontrati e come è nata l’idea di creare uno spazio comune?

Io e Claudia ci conosciamo almeno da cinquant’anni e così anche con Laura, che è la vice presidente di Platea, con la quale siamo amici da quando eravamo ragazzini. Lei è anche una collezionista e moglie di Gianantonio Locatelli, anche lui un collezionista piuttosto importante, che ha fondato il Museo della Merda a Piacenza. Un luogo molto bello, legato alla trasformazione della materia: se non l’avete ancora visto, vi consiglio di andare. 

L’idea è nata una sera a cena, mentre Claudia ci raccontava di suo figlio che studia Fine Arts a Londra, e ci siamo trovati a interrogarci su cosa avremmo potuto fare per aiutare i giovani artisti

Quindi siamo partiti da qui: da Lodi e da uno spazio, che poi era la portineria di questo posto, Palazzo Galeano. Si trattava di uno spazio chiuso, c’erano solo un muro e delle finestre e da lì è nata l’idea di farne una vetrina. Il concetto da cui siamo partiti era l’esperienza di The Wrong Gallery di Cattelan e da una serie di associazioni, che abbiamo deciso di far convogliare in questa esperienza: ovvero concepire Platea come una vetrina su strada

Qui non abbiamo la possibilità di vendere, abbiamo semplicemente la possibilità di esporre e per noi, a questo punto, significa farlo in modo continuativo 24 ore su 24, tutti i giorni della settimana, in un posto dove la gente semplicemente passa e guarda.

Si tratta di una vera e propria finestra, uno scrigno prezioso totalmente inatteso, che si apre sulla strada, praticamente a due spanne dalla fermata del bus. Senza la dovuta attenzione, un minuto di attesa in più e si può rischiare di essere catturati come Alice nella tana del Bianconiglio. Ci racconti come avete scelto il nome?

Eravamo su a casa di Claudia, c’erano Raffaella Cortese, la sua assistente, Marcello Maloberti e io. 

E discutevamo. A me piaceva molto Oblò e tutti dicevano “Ma no, è navale! No, l’oblò è rotondo, la vetrina è rettangolare”, “Sì ma c’è un po’ di arco sopra”.. e Marcello dal niente fa: – “Chiamiamola Platea! Sarebbe il nome di una mia performance però, vabbè dai, ve lo regalo!” – e da lì effettivamente abbiamo capito subito che era il termine giusto, perché non era soltanto il nome dell’oggetto, ma era il nome proprio di quello che sarebbe scaturito dal progetto, ed è stata una magnifica apertura. Ha dato un ulteriore senso alla prospettiva iniziale di coinvolgere la città, che poi è diventata un vero e proprio paesaggio, uno spazio di condivisione che coltiviamo

Per esempio l’incontro che abbiamo organizzato oggi con Alberonero e Andrea Staid, moderata da Piergiorgio Caserini, nella piazza antistante a Platea, secondo me ha messo in risalto quello che è l’aspetto principale del progetto e cioè creare comunità: Platea vuol dire sedersi in mezzo alla strada a parlare di arte, mentre alle spalle ti passano la corriera, i carabinieri, gli automobilisti che abbassano il finestrino per ascoltare, i passanti che escono dalla messa, i ragazzi che fanno l’aperitivo e via dicendo, secondo me tutto questo è forte, cioè io lo sento davvero forte. Per cui sì, Marcello con questo nome ci ha dato l’input che ha fatto poi partire e proseguire il progetto.

Ci troviamo a Lodi, nel complesso di Palazzo Galeano, uno splendido esempio di barocco lombardo, che sorge proprio di fronte alla Biblioteca e nel mezzo di uno dei luoghi preferiti dai giovani per l’americano del mattino (quello al caffè) o della sera (l’altro), perché Platea trova spazio proprio qui?

Sin da subito ci siamo posti il problema di riportare l’arte fuori dai soliti circuiti tradizionali. Io frequento abbastanza il mondo dell’arte, frequento galleristi, collezionisti etc e alcuni mi dicevano: “Ma che te ne fai di un progetto a Lodi, fallo da un’altra parte”.

Ma io, non so, sono lodigiano, sono nato qui, ho vissuto trent’anni a Milano e sono tornato a vivere qui da dieci anni. Nel tempo, stando in una città, ho visto una serie di progetti di grande qualità e piuttosto incisivi, però forse un progetto come il nostro si sarebbe perso nella globalità milanese, e non avrebbe avuto quel significato di condivisione o di fermare uno sguardo su un’opera, che invece può avere qui. Qui il nostro progetto è unico e forse questa unicità gli dà quel qualcosa in più

E nonostante ognuno di noi abbia vissuto in altri luoghi, questo progetto è anche un ritorno alle proprie radici.

Come si inserisce invece il progetto Platea nel territorio lodigiano?

Il 9 giugno 2021 abbiamo fatto la prima presentazione: durante il mese di maggio, per tre settimane, è stato esposto nella vetrina soltanto un cubo illuminato con la scritta Platea, che ha creato molta curiosità. Poi il giorno dell’inaugurazione Marcello Maloberti ha preso 16 studenti della NABA e li ha coinvolti nella distribuzione di questi manifesti 70×100, che da allora vengono prodotti per ogni mostra, con la foto della vetrina da un lato e un testo esplicativo dall’altro. I ragazzi li hanno distribuiti a chiunque passasse fino a spingersi in piazza e ancora oltre. La cosa bella è che ne hanno distribuiti più di 1400, e ne abbiamo trovato per terra solo uno. Vuol dire che la gente ha apprezzato! Questi poster, il primo e quello delle mostre successive, alla fine verranno raccolti in un grande catalogo.

C’è un filo narrativo che collega in modo unitario il racconto di questi episodi autonomi?

Il progetto funziona così: c’è un artista principale che fa una prima mostra e quindi fa anche da traino dal punto di vista di contatti e di visibilità; l’artista presenta 4 giovani studenti che segue durante la preparazione di un’opera originale e specifica per Platea e poi c’è tutto un apparato nostro, che è orientato al tipo di sostegno che vogliamo dare ai giovani, più che altro in termini di visibilità. Perché spesso si tratta di ragazzi che non hanno ancora fatto mostre, oppure magari ne hanno fatto una sola e necessitano di un certo tipo di supporto.

Per me è molto importante, perché se vogliamo sostenere i giovani dobbiamo farlo veramente, in modo concreto. E poi è molto bello, perché nel tempo si sono create delle affezioni! Oggi tanti ragazzi ci chiedono di venire! 

Quello di Alberonero, che vedete adesso in mostra, invece è un intervallo tra un progetto e l’altro; questi intervalli sono dedicati a un artista che si ispira al territorio in senso lato, ci piace che si rivolga al contesto lodigiano ma il progetto non deve essere locale e non deve per forza legarsi all’espressione naturalistica del luogo. Per esempio quello che vedete oggi è un tralcio di vite di sangiovese emiliano, perciò ha poco a che fare con noi, però c’è il concetto di pianura e, quando ho incontrato Luca, stava lavorando sul vivere e condividere il paesaggio, l’ambiente, il campo, il bosco, per cui ci siamo incontrati perfettamente perché nel nostro manifesto, tra i punti da sviluppare, avevamo scelto quello della rinegoziazione del rapporto tra natura e artificio e tra natura e cultura.

Come sta rispondendo la cittadinanza, in un momento in cui timidamente ci affacciamo di nuovo alla condivisione degli eventi e soprattutto degli spazi?

Lo scambio è abbastanza intenso, ma naturalmente non è un applauso continuo, io con i miei cani mi siedo sulla panchina lì di fronte e guardo cosa succede, proprio perché mi interessa! E c’è una diversa rispondenza, sia per fasce di età che per tipologia di persone, per esempio le coppie giovani parlano fra di loro e non si accorgono neanche di cosa stanno attraversando, non lo guardano. Poi ci sono le coppie invece di 40 anni o più che passano, alcune vanno avanti e poi ritornano e si chiedono “ma che cosa ho visto?” proprio così! Altri invece li ho visti inveire e urlare: “ma non sarà mica arte questa!” insomma, una vetrina così la reazione forzatamente la crea, perché nella sequenza di negozi e bar, rappresenta un unicum, dove puoi anche non capire cosa c’è dentro.

E quindi, data l’adesione e l’entusiastica risposta di pubblico, quali sono i vostri progetti futuri?

Facciamo sette mostre quest’anno! Abbiamo tantissime idee e ci piacerebbe allargare le vedute su altri spazi. Ma su questo lasciamo un po’ di suspense.

Per il momento, abbiamo fatto un bando rivolto ai giovani e sto girando la mattina nelle scuole per presentare il progetto. Mi sembra bellissimo vedere le facce dei ragazzi, alcuni interessati, altri che proprio non gliene frega niente. L’idea è proprio questa, cercare di coinvolgerli per fargli fare una loro riflessione molto libera: un testo, una foto, un disegno, qualsiasi tipo di espressione, un’intuizione per  innescare questo meccanismo di fuoriuscita dallo spazio tradizionale.