Roberto Masotti presenta a Palazzo Litta Cultura il suo monumentale lavoro fotografico Life Size Acts, dedicato agli improvvisatori ritratti negli ultimi trent’anni. La mostra è uno dei piatti forti della seconda edizione di JazzMi, e occasione per incontrare Roberto, memore di una telefonata che fece nel 1996, dopo aver letto il mio primo articolo per Zero (sul terzo numero del giornale). «Posso mandarti l’ultimo disco di Keith Jarrett?». Ero senza parole. «Mi chiamo Masotti, ero al bar e ho trovato il tuo pezzo su Dave Brubeck. Mi piace. Ti interessa recensire qualche disco ECM?». Come a dire che se siamo seduti fuori dalla Pasticceria Cucchi, a ventuno anni dal nostro primo incontro, senza nemmeno sapere se stiamo facendo un’intervista o il solito aperitivo, non è certo un caso.
ZERO: Parlami di Life Size Acts, finalmente a Milano in uno spazio di prestigio.
ROBERTO MASOTTI: Sono grandi ritratti di musicisti, come una quadreria rinascimentale, composti con dei particolari. Apparentemente diversi, in realtà sono uniti da un filo comune: sono tutti musicisti sperimentali, direi radicali, spesso con un piede nel jazz. Potremmo dire che sono i grandi protagonisti dell’improvvisazione.
Perché ti è sempre interessata la musica di confine?
Sono nato e cresciuto con il rock e col free jazz. Erano gli anni Sessanta ed era inevitabile esplorare altri territori. Le ramificazioni erano sulla porta. Cercavamo tutti, ogni giorno, per la nostra vita e nei nostri sogni, di andare oltre i confini.
Mi racconti un concerto che ti ha cambiato la vita?
Senza dubbio il trio di Ornette Coleman, quello con David Izenzon e Charles Moffett al Teatro Lirico nel 1968. Rimasi sconvolto. Ero venuto a Milano da Firenze per qualche giorno con il professor Giovanni Klaus Koenig del corso di Industrial Design e altri studenti. Partecipando alla progettazione del nuovo tram di Milano. Io mi ero occupato di disegnare il pulsante per prenotare la fermata. Era un segno che sarei restato a Milano…
Avevi già cominciato a fotografare?
Le prime fotografie le ho fatte proprio in quegli anni. A Bologna, andai a un concerto di Keith Jarrett e chiesi la Rolleiflex in prestito a mio padre. Durante il concerto, quel pianista sconosciuto mi prendeva così tanto che mi alzai con la macchina fotografica a tracolla, andai sotto al palco e cominciai a scattare. Feci fuori i 12 fotogrammi in un attimo. Da allora non ho più smesso.
Il tuo legame con Keith Jarrett è piuttosto unico.
Abbiamo avuto, fin da subito, un rapporto molto semplice e diretto. Andammo in città alta, a Bergamo, e gli feci le foto per la copertina di Musica Jazz. Keith era agli inizi ma era super motivato a continuare su quella strada. Aveva un carattere forte già allora, certo non così complicato come oggi, dopo la malattia. La sua disponibilità nei miei confronti è sempre stata incredibile e quando ho pubblicato il libro con tutte le foto che gli ho scattato in mezzo secolo mi ha detto che non aveva ricevuto un regalo migliore per i suoi settant’anni. In effetti è una carrellata piuttosto unica, dalle prime foto amatoriali, ai momenti di intimità, spesso impareggiabili, che accadono solo dopo un lungo percorso insieme.
Keith Jarrett è stato il tuo tramite per ECM, vero?
Proprio così, in quell’occasione, nel 1973 mi disse che gli servivano delle foto per il nuovo Treasure Island della Impulse! e per il cofanetto Bremen/Lausanne per la ECM e mi disse: «Secondo me a Manfred Eicher interessano le tue foto. Perché non vai a trovarlo a Monaco?». Qualche giorno dopo presi un treno per la Germania. Quella session ha significato molto per me.
Come fu quel tuo primo viaggio a Monaco?
Pensi che fossi impaurito da Manfred Eicher? Niente affatto, anzi mi presentai bello baldanzoso. In una scatola avevo le foto di Jarrett e pure un ritratto di John Abercrombie fatto a Montreux, grande amico scomparso da poco. Mi andò bene, perché Eicher aveva appena registrato Abercrombie in studio, prese la mia foto che finì sul retro copertina. Da quel momento fu un crescendo e dal 1973 al 1978 andai avanti e indietro da Milano per documentare moltissime sessioni di registrazione di ECM.
Praticamente non stavi mai a casa…
Viaggiavo moltissimo per le registrazioni. Ero spessissimo tra Oslo e Stoccarda, rispettivamente al Rainbow e al Tonstudio Bauer a Ludwigsburg e poi nell’ormai mitico monastero di Sankt Gerold in Austria. Poi c’erano i festival a Londra, Amsterdam, Parigi, Moers, ovviamente passai per Montreux che allargò il raggio ma non fu fondamentale e cominciai a seguire anche molti musicisti italiani, ad esempio quelli poi confluiti nella Italian Instabile Orchestra. I primi furono Guido Mazzon, Daniele Cavallanti, Gaetano Liguori, Giorgio Gaslini, Enrico Rava, Franco D’Andrea. Con loro si è sviluppata una grande fraternità. Eravamo sulla stessa barricata ma soprattutto non c’erano confini musicali!
Quando ti sei appassionato all’improvvisazione più radicale?
La mia iniziazione fu al vecchio Teatro Uomo di Largo Manusardi a Milano, dove vidi la N.A.D.M.A. di Davide Mosconi e il Gruppo Contemporaneo con Guido Mazzon. Poi ci fu il vero colpo di fulmine, che accadde alla Free Music Night della Freie Unverstet di Berlino nel 1971. Una serata “contro” ma inserita nel programma ufficiale del Berliner Jazz Tage. C’era un grande stanzone con due palchi opposti, Peter Brötzmann, Fred Van Hove, Han Bennink da un lato, Gunther Hampel e la Galaxy Band con Jeanne Lee dall’altro, poi Steve Lacy e Manfred Schoof che si alternavano. Furie scatenate, atmosfera bellissima, libera, coinvolgente. Ogni barriera era caduta.
Non è un caso se hai cominciato a seguire un altro personaggio molto legato alla tua storia personale: John Cage.
Certo… sono passato dal tram al treno! Quello di John Cage intendo. Un uomo meraviglioso. Ci conoscemmo grazie alla Cramps Records di Gianni Sassi, ero uno dei fotografi dell’etichetta. Gli uffici stavano qui davanti, vedi quel palazzo in via De Amicis dopo la banca? La seconda finestra era l’ufficio. Un mondo unico. Ricordo gli Area, Demetrio Stratos, Eugenio Finardi, Giancarlo Cardini e tutto l’entourage di Fluxus, almeno quello più legato ai suoni, poi arrivarono, Giancarlo Schiaffini, Steve Lacy, Derek Bailey e infine a Milano arrivò un uomo che, in qualche modo, avrebbe cambiato la mia vita: John Cage.
La Cramps sveva già pubblicato il primo disco nella collana Nova Musicha dedicato a John Cage…
Certo, la prima raccolta, con Music for Marcel Duchamp, Radio Music, 4’33”, ma il vero colpo di fulmine fu il suo concerto al Teatro Lirico nel dicembre 1977. Gianni Sassi e Canale 96 lo vendettero come fosse un concerto rock e il teatro era strapieno. Cage arrivò e cominciò a leggere Empty Words, un testo scritto a partire dal Journal di Henry David Thoreau ma spogliato attraverso l’uso dell’i-Ching, prima di alcune parti, poi di alcune parole e infine di sillabe, insomma era una cosa che andava verso la rarefazione. Leggeva da un banchetto di scuola illuminato da una lampada, mentre Walter Marchetti proiettava sullo schermo dei disegni dello stesso Thoreau. Dopo otto minuti, si sente bene nella registrazione, il pubblico cominciò a rumoreggiare e cominciò la bagarre.
Cosa ricordi di quei momenti concitati?
Demetrio Stratos e Patrizio Fariselli, assieme al servizio d’ordine, presidiavano il palco per difendere Cage da un pubblico sempre più straripante e aggressivo. Alcuni salirono, bevettero dal suo bicchiere, gli tolsero gli occhiali, spensero la lampada, tentarono di togliergli i fogli, ma lui continuò. Cercarono in tutti modi di farlo smettere ma lui niente, andava avanti imperterrito. Dopo due ore e mezza smise e il pubblico esplose in un applauso infinito. Fu un trionfo. Aveva vinto lui.
Poi andasti a trovarlo in America.
Dopo due anni andammo a New York con Silvia, mia moglie. Con John avevamo un rapporto ormai rodato, dovevamo fare un servizio per Casa Vogue sul suo grande loft. Non avevamo mai visto nulla di simile, era un edificio ex industriale, con montacarichi, finestroni e piante dappertutto. Quando arrivammo c’era Grete Sultan, la pianista tedesca fuggita dal nazismo a cui Cage aveva dedicato due pezzi. Andava spesso da John e giocavano a scacchi. Facemmo le foto della casa e poi un ritratto con un finestrone e le piante che è stato il suo ritratto ufficiale per dieci anni. Ricordo la cucina, con tutti i suoi cibi macrobiotici ma anche diverse bottiglie di Romanée-Conti, ormai vuote e con dei rami dentro. Gli chiesi: «Ma non sei macrobiotico?». E John: «Certo che lo sono, ma ogni tanto un po’ di veleno fa bene».
Come hai diviso il tuo lavoro con quello di Silvia Lelli?
Silvia ha cominciato a fotografare dopo di me, nel 1974. Lei è architetto, io industrial designer. Appena arrivata a Milano, dopo la laurea, Silvia ha cominciato subito a occuparsi di teatro, danza e reportage, le cose che le piacevano, mentre io ho continuato con la musica contemporanea, il jazz e il rock. Tra l’altro quelli erano gli anni di Gong.
Parlaci dell’esperienza di Gong?
Credo sia stata la più bella rivista di musica e cultura giovanile degli anni Settanta, un coagulo di esperienze che ha lasciato in me una visione a trecentosessanta gradi. Non poteva essere altrimenti, con compagni di strada come Riccardo Bertoncelli, Franco Bolelli, Peppo Delconte, Giacomo Pelliciotti, Roberto Gatti e poi Enzo Ungari che scriveva di cinema e Mario Convertino che disegnava delle grafiche pazzesche.
Tempo fa mi hai raccontato di un lungo viaggio con Riccardo Bertoncelli…
Un giorno, proprio per Gong, con Riccardo, Giacomo e Silvia decidiamo da un momento all’altro che dovevamo andare a Bregenz in Austria a sentire il gruppo Odissey di Terje Rypdal. Siam partiti in un’ora. Allora eravamo fatti così. Con Riccardo abbiamo condiviso molte passioni, Zappa, Coxhill ed altri ancora. Lui ha collezionato anche qualche mia foto, cosa che fa sempre piacere. Ci siamo trovati a tanti festival in tutta Europa. Erano delle vere migrazioni. A Moers un anno eravamo tantissimi, c’era anche Filippo Bianchi che cominciava a essere una figura chiave.
Ecco, parlami di Filippo Bianchi.
Anche con lui mille avventure. Filippo è stato un maestro nell’interpretare tutte le possibili interconnessioni estetiche e rivoluzionarie di quel mondo. Con lui ho prodotto ad esempio il mitico Live in Soncino della ICP con Misha Mengelberg, Bennink, Rava, Trovesi, Schiaffini… Ci si vedeva dovunque, a Reggio Emilia, a Sant’Arcangelo, a Cremona. Erano aree di progettualità e di sviluppo dove si realizzavano cose inaudite, originali, non di passaggio. Non era solo Europa, era Mondo. C’era una circolarità pazzesca, una contemporaneità coincidente con quanto accadeva a Londra, Berlino, Amsterdam.
In quella scena, un giorno, era entrato Franco Battiato.
Tutto accadde grazie a Pelliciotti, con cui andavamo per festival jazz in lungo e largo per l’Europa. Grazie a lui iniziai a lavorare anche con Peppo Delconte della Bla Bla e così conobbi Battiato e anche gli Aktuala.
Ovviamente ho letto Fenomenologia di Battiato di Enzo di Mauro con quelle tue foto incredibili.
Stiamo parlando del 1973, Battiato e Juri Camisasca arrivarono a Bologna e organizzammo due giorni di servizio fotografico in studio e facemmo anche questa serie di Franco che scende dalla collina e sembra uno sciamano. Per fare foto mentre suonava proposi alla galleria G7 un suo live in solo e ci riuscii. Ci sono stati poi tanti altri momenti con lui negli anni, in studio e fuori, come per la copertina de La Voce del Padrone. In quegli anni da me passavano un sacco di persone.
Hai qualche ricordo particolare di quelle sessioni?
Tantissimi e diversi, con un sacco di musicisti che ho avuto il privilegio di incontrare, da Herbie Hancock, Kevin Ayers, Eugenio Finardi, Roberto Cacciapaglia, Claudio Rocchi, alla PFM. Ricordo Nico, stupenda e indimenticabile, che ho cercato di fotografare in modo originale e poi ovviamente gli Area e dunque Demetrio Stratos.
Ci lasci un ricordo di Stratos?
Difficile limitarsi a uno, abbiamo condiviso così tante cose! Ricordo quel giorno del famoso ritratto con il clarone di Fariselli, tutto fasciato di rosso e legato con la corda, secondo me è una foto epocale. Demetrio era un amico mio e di Silvia, a lui e agli Area abbiamo fatto così tante foto che la fine ci abbiamo fatto un libro. Una personalità incredibile, che amava giocare con l’obiettivo. Un giorno Silvia scattato delle foto della sua bocca, come per cercare di fotografare la sua incredibile voce. Uno come lui non c’è più stato. Eppure se ne parla troppo poco. Se si commemorasse Stratos per un decimo di quanto si celebra la Callas, sarebbe buona cosa. A pensarci bene, erano entrambi greci.
Visto che hai citato la Callas, è giunto il momento di parlare della Scala.
Ovviamente sono anni diversi. Un giorno Silvia torna a casa e mi dice: «Sai, mi hanno proposto di diventare la fotografa ufficiale della Scala ma io gli ho detto che non ci penso nemmeno, mica posso morire in teatro». Resta in silenzio, poi aggiunge: «Magari potrei dire che accettiamo solo se possiamo farlo insieme!». Così, dal 1979 al 1996, la Scala è diventata la nostra vita. Classica, opera, balletto. Lo abbiamo fatto con tutta la passione possibile e abbiamo avuto la fortuna di portarci la nostra visione di questo mestiere.
Come andò l’ingresso in teatro?
Eravamo emozionati, ma subito ci furono momenti memorabili, le stagioni iniziali furono fantastiche. La scoperta, quel momento analitico in cui vai davvero a fondo seguendo tutte le prove, senza mai andartene un momento. Un’immersione totale e una grande responsabilità. Poi per noi era esaltante: le nostre foto erano pubblicate dappertutto!
Ci racconti un momento da togliere il fiato?
Senza dubbio l’ultima scena del Falstaff di Verdi, regia di Giorgio Strehler, con Lorin Maazel sul podio. Poi sul finale tutte le luci del teatro si accendevano, anche in platea ed io, in costume, ero a bordo di una barca che entrava in scena e andava verso il centro del palcoscenico. Allora ho estratto la Leica e ho fatto quelle foto in cui il teatro, il pubblico, l’opera diventano tutt’uno. Furono pubblicate dovunque.
Con la Scala siete anche stati in giro per mezzo mondo.
Molte tournée, ricordo quella in Corea e Giappone dell’88, quasi due mesi, con una nostra mostra a Tokyo. Erano viaggi stupendi e occasioni di fotografare i complessi scaligeri fuori sede e poi eravamo con grandi artisti, la Freni, Ghiaurov, Domingo, Valentini, Terrani, Abbado e poi Carlos Kleiber, immenso, che in assenza di Domingo, alla prova generale, cantò tutta la sua parte mentre dirigeva l’orchestra. Incredibile.
Quanti parli della Scala ti s’illuminano gli occhi.
È stato un grande amore, ci abbiamo passato e consumato un pezzo della nostra vita e poi è stata occasione di elaborare alcuni nostri lavori al di fuori della fotografia di spettacolo normale. Penso a Suoni Spazi Silenzi, sedici foto che per noi sono una sorta di ritratto sentimentale del teatro o a diverse altre, più astratte, confluite in Note Sparse.
In quegli anni continuavi a girare l’Europa, quasi sempre con un tavolino…
Esatto, avevo fotografato Juan Hidalgo e Walter Marchetti usando un tavolino tondo che avevo comprato da un rutamatt. Allora mi venne l’idea di fare altri ritratti attorno allo stesso tavolo, così è nato You tourned the tables on me, titolo che mi fu suggerito, anzi regalato, da Steve Lacy. È quello di una canzone cantata anche da Billie Holiday e che ho leggermente distorto. Divenne una piacevole ossessione e così ho fotografato 115 musicisti, portandomi dietro il tavolino in mezzo Europa, in aereo, in treno, a piedi, in autobus, da Londra a Berlino, da Parigi a Roma. Presto uscirà una nuova edizione del libro che comprenderà anche altre fotografie e sequenze dalle sessioni, diciamo una sorta di “making of”.
In questo, Life Size Acts è una prosecuzione di quel lavoro, vero?
Certamente c’è un legame forte, anche se in questo caso sono immagini concentrate solo sugli improvvisatori, non necessariamente jazz. L’idea era nata dopo che avevo scattato due foto con una panoramica a Roscoe Mitchell, Evan Parker, Louis Sclavis. Le ho immaginate in scala uno a uno con aggiunti dei dettagli, come delle composizioni. La prima produzione, come ben sai, avvenne per NovaraJazz 2007. Le 27 foto ingrandite sono ora diventate 37, tutte ancora stampate telo pvc. Abbiamo un bel allestimento di Michele De Lucchi e Palazzo Litta è davvero meraviglioso. Il progetto di Mosca Partners è ambizioso e ben articolato. Devo davvero ringraziare Luciano Linzi per questa opportunità.
Da quanto tempo vi conoscete?
Direi degli anni Settanta, quando collaborava con il Centro d’Arte a Padova. Parlavamo da tempo della possibilità di fare una mostra a Milano ed è bello inaugurare all’interno di un festival come JazzMi, che tra l’altro ospita diversi dei musicisti che ho ritratto in mostra.
Per esempio?
Han Bennink, grande musicista e amico, appassionato di arte e di ogni cosa creativa, che suonerà con Franco d’Andrea il 12 novembre al Teatro dell’Arte e poi Gianluca Petrella, che suona due giorni prima con XamVolo e poi Stefano Bollani che apre il festival di quest’anno all’Auditorium di Milano, proprio la sera della mia inaugurazione. Di lui in mostra c’è una nuova composizione con Enrico Rava. Dimenticavo: c’è anche Mary Halvorson.
Quali concerti non perderai nel programma di quest’anno di JazzMi?
A parte i personaggi a me affini, che ho citato sopra, devo dire che il programma è piuttosto variegato e ci suonano alcuni vecchi amici che continuano a essere dei musicisti davvero interessanti. Penso a Gaetano Liguori, e poi Jan Garbarek, un artista che ho fotografato moltissime volte e che rappresenta quella sintesi unica di suoni sofisticati e spirituali, così ben registrati e portati in tutto il mondo da ECM, che solo il grande Nord ci ha saputo regalare. E poi ovviamente la Sun Ra Arkestra, è proprio dopo l’inaugurazione della mia mostra. Si può fare!