Ad could not be loaded.

Tutta la musica è possibile: Hugo Sanchez

A pochi giorni dall'uscita del primo album a firma Front de Cadeaux e della Session 3 di Tropicantesimo, abbiamo deciso di imbarcarci in un lungo viaggio al centro del suono

quartiere Pigneto

Scritto da Nicola Gerundino il 2 novembre 2022
Aggiornato il 3 novembre 2022

Foto di Valentina Pascarella

Luogo di residenza

Roma

Attività

Dj, Producer

Faccio uno strappo alla regola e presento l’intervista in prima persona, perché quella con Hugo Sanchez non solo è stata una chiacchierata bellissima, in cui abbiamo ripercorso oltre vent’anni di Roma tra musica e clubbing, ma è stata un’esperienza illuminante, che mi ha permesso di disegnare un percorso che altrimenti non sarei stato in grado di tracciare. Una mappa cosmologica del suono in cui la costellazione della disco statunitense brilla assieme al pop sotterraneo italiano Del dopoguerra, in cui la cumbia e il trip-hop riverberano assieme al new beat belga e al post-punk. Un universo che si poggia – cosa che non avrei mai detto – sul lavoro e gli insegnamenti di John Cage: primo fra tutti l’inesistenza del silenzio e, all’inverso, l’onnipresenza del suono. Il suono c’è, esiste sempre ed è sempre al lavoro dentro le persone, mutandole. “In ogni momento, qualcuno sta facendo, ha appena fatto o sta per fare tutta la musica che è possibile immaginare”. L’intervista comincia in medias res, con i ricordi di Hugo sui suoi primi passi da giornalista – esperienza che si rivelerà fondamentale per tutta la costruzione del suo mondo sonoro – e prosegue tra Roma, Berlino, il Belgio e il Pigneto, fino ad arrivare alle ultime due uscite discografiche di quest’ultimo scorcio di 2022: “Tropicantesimo Session 3” su Penny Records e “We Slowly Riot”, primo album a nome Front de Cadeaux, uscito per la label francese Antinote.

Tanti anni fa scrivevo per una rivista che si chiamava Beatnik poi, grazie a Giancarlo Susanna che conduceva Stereonotte su Radio Rai, arrivai anche al Mucchio Selvaggio. La mia prima intervista la feci a Lou X, ma per un’altra testata ancora. Il Mucchio nei primi anni Novanta era molto focalizzato su rock e post-rock e non c’era nessuno che scrivesse di elettronica, nonostante con i primi Prodigy e Chemical quel pubblico stesse cominciando a interessarsi al ballo. Quindi iniziarono a passarmi dischi di Björk, Tricky, Portishead, Massive Attack: io venivo dall’hip-hop, per cui quei suoni, oltre a capirli, mi interessavano parecchio. Facevo molte interviste al telefono, con l’artista che stava alla cornetta nella sede della sua casa discografica. Avevo un piccolo registratore con un microfonino a ventosa che si agganciava al telefono e mi sono fatte mille sbobinature! Per il Mucchio ho seguito anche due edizioni del Sónar che sono state massacranti, perché la rivista era inquadrata a sinistra e tanti artisti come Herbert o i De La Soul le davano precedenza. Iniziai anche a ricevere tantissimi promo. Ancora non suonavo come dj. Poi, sempre attraverso sempre il Mucchio, ho conosciuto Agatha e da lì – siamo nel ’96/’97 – ho cominciato a passare un po’ di dischi alle prime chill out del Branca, assieme ai Brancaphonic. Suonavamo con i lettori di casa e con dei giradischi spartani: sessioni lunghissime in cui ascoltavo musica di cui non immaginavo neanche l’esistenza, tipo produzioni di Brian Eno e di altri compositori che conoscevo solo per cultura generale. Parliamo sempre di un’epoca in cui internet non esisteva e in cui andavo a Porta Portese a comprare i dischi. Ho cominciato ad accumularne sempre più e sempre di più suonavo nella saletta. Ogni tanto facevo anche le aperture nella sala grande. Il Branca apriva più o meno alle dieci, si riempiva, e poi, a mezzanotte circa, iniziava la musica anche nella sala grande. La prima volta che ci ho suonato non sono riuscito a fare un passaggio a tempo – uno per dirne uno! – e non riuscii a capire il perché. Poi Riccardo (Petitti) mi spiegò che il problema erano le persone che suonavano i bonghi – all’epoca c’era ancora chi se li portava – e mandavano in confusione il dj che stava in consolle, per cui bisognava stare molto attenti e alzare parecchio i monitor.

C'è stata una serata o un episodio particolare che ti ha portato a dedicarti esclusivamente, o quasi, alla musica?

Sì. Successe quando, dopo un po’ di aperture, mi chiesero di suonare prima di un dj breakbeat molto quotato all’epoca, Freq Nasty. Quella sera torno a casa dopo il lavoro, mi preparo un po’ di dischi, mi stendo un attimo e mi sveglio a mezzanotte passata con il telefono che squilla e quelli di Agatha che mi cercano perché non si sa che fine ho fatto! Nel 2000/2001 lavoravo in un agenzia pubblicitaria del gruppo Kataweb, ero diventato copywriter senior, quindi tutte le mattine dovevo andare lì e timbrare. In più avevo l’impegno giornalistico, in più suonavo. Insomma, quella sera ci fu un vero e proprio crash di sistema, che mi colpì molto. Poi c’è stato l’11 settembre, un giorno stranissimo. La mattina arrivo al lavoro e scopro insieme ai colleghi che tutti i computer sono stati rubati. Il mio computer era quello del lavoro: avevo tutto lì. Dopo un po’ esco, perché decido di comprare immediatamente un portatile, torno e iniziano ad arrivare le immagini delle Torri Gemelle dal televisore della sala riunioni. Altro shock. Il giorno dopo decido di dare le dimissioni

 

E...

E con i soldi della liquidazione mi compro dei bei piatti (il mixer già c’è l’avevo) e insieme a Edoardo (Rodion), che già conoscevo perché faceva dei lavori di sound design, Simone Tso, Valeria Nikky ed Federico Ciamei, fondiamo lo studio Digital Delicatessen e RadioDD a San Saba, dove siamo rimasti per diversi anni. Lì, grazie a Edo, che nel frattempo aveva spostato il suo studio, ho imparato a produrre. Insonorizzammo il piano inferiore e ci portammo tutti gli strumenti. Facevamo ambienti digitali, musica per cd-rom, videogiochi, musica per la pubblicità etc. Lì Edo ha iniziato a lavorare seriamente alle tracce di Rodion. Poi è arrivata la Gomma (una label tedesca molto attiva nei primi anni Duemila, nda) e ci sono stati anni super intensi: avevamo il Pigneto Quartet, facevamo il festival di RadioDD con Lady Maru e Felix Kubin… Poi Edo si è trasferito a Berlino, ma io non me la sono sentita. Una questione di luce e di clima. All’epoca avevo già conosciuto Anna Clementi, cantante e figlia del compositore Aldo Clementi, che veniva dalla contemporanea e aveva studiato con Cage. Facevamo cose tra il pop e l’elettronica, un po’ sperimentali. Andavo spesso a Berlino con lei perché le sue tracce le registrava Thomas Stern, per anni fonico degli Einstürzende Neubauten. Ricordo uno studio disordinatissimo, con un approccio super punk. Io ero abituato a Edo che invece era iper preciso: bastava accendere la ciabatta e funzionava tutto. Questi invece avevano un po’ il cervello fritto dagli acidi: Thomas diceva che all’epoca li prendevano praticamente tutti giorni, anche quando riascoltavano le registrazioni dei Can o degli Einstürzende. Lui in particolare si è occupato anche dei live degli Einsturzende che, raccontava, cominciavano con lui che registrava e rimandava fuori i rumori del pubblico in attesa del concerto, fino a quando non si creava un drone bestiale. Insomma, con Anna ho iniziato a frequentare un po’ Berlino, ma per me era troppo, troppo cupa. Pensa che la prima volta che ci sono andato era il 16 agosto: ero partito in pantaloncini dopo aver fatto una festa a Capocotta. Arrivo là ed era novembre! Anche se tutti stavano andando a Berlino, tipo Maru e il Cikitone, io ho detto no. La luce e il clima per me sono sempre stati fondamentali: anche quando sono stato lì per molto tempo non mi sono mai trovato veramente a mio agio: ‘sta cosa di essere nel nulla con la neve e passare le giornate in studio non è mai stata per me. Edo invece ci si era trasferito con armi e bagagli e aveva anche allestito un suo studio: a Marzahn, fuori dalla città, in un ex ufficio della Gestapo dove tutte le stanze erano diventate studi. Infatti buona parte del progetto Alien Alien si è sviluppata qui. Poi andavo a ballare e anche a suonare. Franceschino, Mr. Ties, uno degli organizzatori del party Homopatik, una volta mi invitò addirittura a suonare per dodici ore! Io già facevo gli after Too Fat Too Late qui a Roma con Irene (Clashmama, nda), ma fu comunque incredibile scoprire utopie come il Berghain, che all’epoca non era il divertificio di adesso – che non è una critica, perché è normale che diventi così nel momento in cui tutta Europa ci va a ballare il weekend. In ogni caso, era bello avere la possibilità di immaginare dei posti dove la musica esisteva e durava a lungo.

 

Nel frattempo a Roma cosa succedeva?

A Roma suonavo in situazioni alternative, come Phag Off e Subwoofer, sempre con il Cikitone. Finite queste esperienza però, Roma non mi stava dando più niente. Così, una decina di anni fa, con Manuel Savoia (il regista di “Sambaca” di Alien Alien), Anna Clementi e Francesca Bianchi decidemmo di prendere questo posto in via Alessi, dove prima c’era la serigrafia delle Bunka. Abbiamo portato qui gli strumenti, i dischi e abbiamo iniziato a lavorarci. Con Anna ho collaborato molto ed è stata una figura fondamentale, perché mi ha fatto capire che l’insegnamento più importante di Cage – che tutto è suono e il silenzio non esiste – non era solo un qualcosa di filosofico, ma avviava concretamente dei processi creativi differenti. Poi Anna si è trasferita a Berlino e la Pescheria ha iniziato a cambiare. Un passaggio importante è stata la nascita e la diffusione di Boiler Room. Con Irene passavano chill out intere a vedere tutti i video. Ci siamo detti: “Proviamo a farlo anche noi, magari riprendendo il dj dall’alto”. Così abbiamo definito questo piccolo format che si chiamava One Dice, in cui abbiamo invitato a suonare dj amici, tipo Mammarella o Cosmo.

Mi ricordo di un dj giapponese divertentissimo in una di quelle serate.

DSKE! Lui per esempio l’ho conosciuto al Berghain: non parlava quasi niente di inglese, ma poi me lo sono ritrovato dappertutto. È venuto anche a suonare qua e io sono andato a suonare da lui in Giappone. Dopo l’esperienza di One Dice, Manuel si è trasferito a Milano, perché cominciava a lavorare ad altri e alti livelli, e la Pescheria è stata colonizzata sempre più dal suono che dal video. Ho portato tutti i miei dischi e abbiamo stimolato altre persone – chi non aveva più spazio o chi non aveva più il giradischi – a fare lo stesso, con l’idea di creare una stanza dei giochi sul suono: non un club, né uno studio di registrazione.

 

Mi incuriosice molto il modo in cui nel mondo di Pescheria e Tropicantesimo viene utilizzato il termine "suono", come se fosse un'entità a sé stante, immanente.

Ci piace parlare di suono e non di musica perché il concetto di musica è ormai troppo culturale, con informazioni organizzate, come la canzone. Il suono invece c’è sempre, qualsiasi cosa fai: è una concezione diversa. Ogni azione quotidiana è un concerto, come ci ricorda la famosa apparizione di Cage a Lascia o Raddoppia, “Water Walk”. Chiudere la porta per registrare e tagliare fuori tutto il resto vuol dire non essere in armonia con il mondo, perché il suono esiste sempre, a prescindere. Anche quando siamo nei locali per suonare o ascoltare un concerto, in realtà sentiamo sempre tutto, quelli che parlano a cui dici “Ti prego siamo qui per ascoltare”, quelli che vanno al bagno, quelli che stanno al bar. Molte persone entrano nei posti non rendendosi veramente conto che portano un suono: quel vociare, quel raccontare le proprie storie. Poi se chiedi silenzio c’è chi si scusa perché capisce l’importanza dell’ascolto, chi invece non capisce e ti considera un folle. Per me non può esserci sempre un contrasto, un’educazione: bisogna trovare un’armonia in cui tutti si possano esprimere e in cui il suono sia il suono di tutti. In Pescheria abbiamo cominciato a lavorare sempre di più su questo aspetto, campionando rumori e campionando in modo storto. Il contributo di Edo da questo punto di vista è stato importante, perché in fase di produzione ha sempre agevolato e mai censurato.

 

Nei brani di Tropicantesimo c'è più composizione o più campionamento?

Diciamo cinquanta e cinquanta. Quando ci siamo incontrati, Lola faceva già una serata che si chiamava U-kabarett (all’Init e alla Locanda Atlantide). Una volta invitò me ed Anna ad andare e così iniziamo a lavorare assieme. Fu abbastanza scioccante: nelle prime sessioni succedeva che io mettevo un pezzo e lei partiva a cantare una canzone, come se sul mio piatto ci fosse una base e lei avesse in testa tutte le “a cappella” della storia del pop italiano dagli anni Settanta in poi. Tirava fuori canzoni mai sentite, pezzi di Radius o altre cose che io non conoscevo proprio. Quindi, di base, siamo partiti da questo gioco di canto su basi in cui Lola trovava delle armonie tutte sue. Altre produzioni invece le abbiamo realizzate con strumenti un po’ rudimentali: una drum machine che avevo preso con Edo nel 2000, un campionatore Electribe, una loop station. Quella di Tropicantesimo è un’esplorazione dell’illusione sonora, un po’ come la scena di “Mullholand Drive” in cui Rebekah Del Rio cade mentre sta cantando e la musica va avanti lo stesso. Ci piaceva l’idea che il suono e la voce di Lola continuassero nei dj set anche dopo il momento di performance. Molte persone infatti nelle prime feste non capivano cosa stesse accadendo. Anche l’idea di mettere la consolle al centro del Fanfulla è nata per togliere un po’ la gerarchia che ritrovavo nei club, tutti divisi in stage, backstage, privè etc. Volevo mettere alla portata di tutti delle strumentazioni importanti, anche se poggiate su delle cassette di plastica: mi piace che la gente si chieda da dove venga il suono, cosa sia possibile con gli strumenti e non pensi che una serata sia semplicemente una sequenza di dischi. Questa dinamica poi è diventata ancora più feconda al Fanfulla, dove c’è gente con orecchie molto aperte e con collezioni incredibili, che magari vengono suonate qualche volta dopo i concerti. Volevo far capire che con quei dischi era possibile un’altra musica ancora. Espandere quella cultura musicale e incontrare persone con un’altra sensibilità e curiosità rispetto al mondo del ballo, è stata un’esperienza che mi ha dato molto e mi ha permesso si di ritirare fuori tante stramberie che avevo collezionato nel tempo e non suonavo mai, come un pezzo dei Joy Division cantato come cumbia o dischi di Jon Spencer.

 

Insomma, senza il Fanfulla tante cose non sarebbero successe.

Sì, infatti ho cominciato a frequentare il Fanfulla anche al di là di Tropicantesimo. Mi ricordo una delle prime volte fu per un concerto dei Barsexual, seguito da un dj set di Teenadelic: ore di suono bestiale! Mi colpì molto e mi chiesi come riuscissero a rendere possibile suoni così diversi da Tropicantesimo. Allora ho iniziato a focalizzarmi anche su un altro tipo di musica, che in realtà avevo già incontrato, ma non così da vicino. Per due anni praticamente sono andato tutte le sere a vedere i live e a parlare con gli artisti. Mi sono interessato all’amplificazione, alle strumentazioni, alla microfonazione, con di fianco una persona come Manu che è sempre presente durante i live ed è anche il fonico. Manu ha una passione e un amore per cui tutto funziona sempre. Ci possono essere posti che hanno microfoni e impianti più fichi, ma al Fanfulla sei sicuro che il giradischi funziona: può stare su due cassette di plastica, ma funziona. E deve suonare perfettamente perché quello è il nostro strumento della rivoluzione. Poi sì, può saltare un cavo, ma in altri posti nemmeno lo trovi. Frequentare il Fanfulla mi ha aiutato tantissimo con la pratica live di Tropicantesimo che, come dicevo, all’inizio era un gioco tra me che suonavo dischi e Lola che ci cantava sopra “Maruzzella”. Poi le nostre possibilità si sono moltiplicate e abbiamo cominciato a fare un sacco di sessioni live, non aperte ma sempre su strada.

 

Arriviamo così ai dischi, che non a caso si chiamano tutti e tre "Session".

Ai dischi ci abbiamo sempre pensato, ma non abbiamo mai avuto la capacità di fare una produzione da indipendenti, dalle prove alla masterizzazione. Da questo punto di vista è stato fondamentale Bob Corsi, che ha iniziato a venire a Tropicantesimo e si è interessato alle registrazioni che avevamo fatto – anche su tracce separate – principalmente per farne degli edit da suonare in altre situazioni. Così sono state stampate su vinile da Penny Records.

Sono tutte take preesistenti quindi?

Sì, l’unica cosa su cui abbiamo lavorato molto ex novo è stata la versione di “Karfur di notte” con gli Wow. La prima, uscita su “Tropicantesimo Session 1”, aveva una base di Funky Porcini. Una volta poi Stefano Ghittoni, che stava in fissa con il brano, mi disse: “Perché non la rifate con gli Wow?”. Io non c’avrei mai pensato. Gliel’abbiamo chiesto e si sono presi benissimo. Mi ha colpito che questo suggerimento sia venuto da una persona che non sta a Roma e non sta nel nostro mood: nel brano Lola racconta tutta una serie di cose che fanno parte del nostro immaginario e sono legate al Carrefour all’incrocio tra la Casilina e via Filarete, che è l’unico posto aperto dopo una certa ora.

Ne è uscita fuori una versione lunghissima.

Sì, gli Wow hanno portato in Pescheria la batteria, il sax etc. e ci siamo messi a registrare. Abbiamo poi fatto un primo master nello stesso studio dei Giuda e dei Måneskin, ma non suonava proprio. Un giorno vado a trovare Donato Dozzy e gli faccio ascoltare il pezzo. Gli piace tantissimo, ma inizia a dire che secondo lui avremmo dovuto alzare questo, aggiustare quest’altro, abbassare, tagliare. A quel punto gli abbiamo proposto di lavorarci e lui ha accettato entusiasta. In uno o due giorni ce l’ha rimandato ed era perfetto. Il resto dell’ultima uscita è una session di prove al Fanfulla che stavamo facendo prima di una serata. “Alabama”, per esempio, è nata su un pezzo di cumbia elettronica di un tizio che avevo conosciuto ai tempi di RadioDD, El Peronista, su cui Egeeno ha iniziato a cantare all’improvviso “Alabama Song”. L’abbiamo riascoltata e ci abbiamo lavorato su. Mi piace documentare il fatto che Tropicantesimo sia un flusso vivo, non una creatura da studio, di quelle “luce rossa, registri e finisci là”.

 

Egeeno e Gabrio sono le due voci di Tropicantesimo assieme a Lola.

Sì. Egeeno ha iniziato a cantare quando Anna si è trasferita negli Stati Uniti per lavoro. Poi anche lui è partito ed è entrato Gabrio, che già lavorava al Fanfulla la domenica e avevo visto dal vivo con gli Holiday Inn. Con loro abbiamo fatto anche un live molto particolare di cui sono sempre stato contento, perché ero sicuro che il pubblico di Tropicantesimo non potesse mai immaginare che a Roma ci fosse una band così! Gabrio ha portato dentro un altro approccio ancora perché ha un background diverso, che nasce dal punk e dal post-punk. Egeeno ha studiato canto jazz, mentre Lola non solo ha portato il pop italiano meno conosciuto, ma anche, ad esempio, la canzone di protesta brasiliana, che sa esprimere in maniera dolce posizioni parecchio dure. Molte persone ci dicono che Tropicantesimo è una specie di macchina del tempo in cui tutto è possibile e tutto è contemporaneo. Una dinamica difficile da realizzare nel clubbing, perché lì la trasmissione della musica è diversa: è più sul suono che non sulle storie. Questa dimensione quindi poteva essere possibile solo al Fanfulla, dove la gente è rilassata e il pubblico non sta sull’attitudine della performance, in cui tutto deve essere perfetto. È stato bello vedere come la canzone abbia cambiato anche il mio modo di suonare. Prima i miei dj set erano molto più schematici: non dico che mettevo i brani già in ordine prima della serata, ma quasi. Adesso invece mi capita di suonare delle cassette di dischi “sbagliate”, prese in Pescheria e portate al Fanfulla al posto di altre. Invece di negare e rifiutare di suonare cose che non avevo preparato, mi sono così ritrovato a inventare, a capire come passare da un disco all’altro. Non è una cosa scontata per chi, come me, viene dalla cultura del beat matching. E infatti è stato bello allargare la consolle di Tropicantesimo ad altri dj come Mammarella o Maurizio Athome e stimolarli ad allontanarsi dal beat matching. Oltretutto, quella di Tropicantesimo non è una consolle semplice perché è stata costruita sull’impianto del Fanfulla, dove alcune cose suonano bene altre no. Un impianto fondamentale perché non aggressivo, che aiuta quando devi stare molte ore nello stesso posto. La dimensione del Fanfulla, tornando al discorso di prima, mi ha permesso di abbandonare diversi preconcetti. All’inizio molte persone mi chiedevano di mettere la techno, io rispondevo che era domenica e il programma techno del weekend era già stato trasmesso. Poi alla fine si sono tutti mezzi ingarellati con questa cosa dei ritmi lenti e la gente ha cominciato a dire “Domenica andiamo al Fanfulla perché Hugo ce mette la slow”. La slow! Se ne sono fatti una ragione! Quello del rallentamento è un discorso che Tropicantesimo ha in comune con Front de Cadeaux.

 

A proposito di Front de Cadeaux, mi ha incuriosito molto quello che hai scritto nel giorno di uscita dell'album, ricordando come il rallentamento dei dischi che, appunto, accomuna Front de Cadeaux e Tropicantesimo, sia legato ai party nelle saune.

Parliamo delle feste Subwoofer, nate negli anni in cui già facevamo Phag Off, sempre con il Cikitone. Fu proprio lui una volta a dirmi: “Perché non facciamo una festa per orsi come ne stanno già nascendo in Europa, con un suono che non sia la classica commerciale, tipo Britney o Raffaella Carrà?”. Nelle saune froce di solito c’era Madonna oppure, addirittura, i programmi domenicali televisivi in filodiffusione. Io ogni volta pensavo: “Come è possibile che non ci sia un’alternativa? Possibile che uno deve scopare con questa musica in sottofondo!?”. Così abbiamo iniziato a portare i nostri cd, colonizzando con il suono dove potevamo. Subwoofer durava un intero weekend: si iniziava venerdì in un posto che si chiamava Sphinx, a Piazza Fanti, vicino Termini, un cruising club da fuck party; il sabato ci si spostava al Frutta e Verdura, prima che diventasse un after, poi la domenica in sauna. Anche il cruising ormai era diventato una sorta di formato, con musica sempre a cassa dritta, brutta, che parlava del consumo, del GHB, del chem sex fatto in maniera consumistica.

È in questo periodo che nasce il sodalizio con Maurizio Athome?

Sì. Con Maurizio ci siamo conosciuti in una chat per orsi. A far scattare tutto è stato un manifesto di Felix Kubin che avevo in camera e che lui riconobbe subito perché, mi disse, era anche un suo amico. Così iniziò a venire tutti i mesi a Roma per Subwoofer. Facevamo festa ma sentivamo anche un sacco di dischi: mi ha fatto scoprire tutta la new beat belga e anche la dimensione industrial di gruppi come Front 242 etc. Nei momenti di ascolto abbiamo cominciato ad abbassare i bpm e a mettere i dischi a 33 invece che a 45 giri, perché dopo un weekend di festa e dopo ore di sauna eravamo proprio sfibrati: c’era la stanchezza fisica e anche la voglia di abbassare i volumi e i bpm. La cosa ci piaceva molto, così abbiamo iniziato a produrre delle edit da suonare e le abbiamo portate da Edo per lavorarci. Oltre al suono abbiamo sempre prestato molte attenzione anche ai messaggi: cose piccole ma incisive. Per esempio, nel primo pezzo abbiamo inserito uno spoken che diceva “c’est pas mon problème le pédé bpm”, non è un mio problema il bpm dei froci. Un sacco di dj francesi come Ivan Smagghe hanno scapocciato totalmente per questo brano e hanno iniziato a suonare un remix fatto da Fabrizio Mammarella in cui c’era un break dove si sentiva perfettamente questa frase. Questo messaggio colpì nel segno perché intercettava perfettamente un allontanamento della scena gay, che ormai era diventata un’altra cosa rispetto all’universo disco degli anni Settanta, che invece veniva riscoperto e spinto da Dj Severino di Horse Meat Disco, alle cui feste siamo andati un sacco di volte a ballare. Quello che denunciavamo era proprio questo: siamo froci ma vogliamo ballare col groove. Quella scena si era associata a una musica troppo performante, da scopata con il GHB, una dimensione distante da quella cultura di emancipazione del corpo gay e del corpo nero che negli Stati Uniti era avvenuta in luoghi sotterranei ballando, mentre noi in piazza avevamo una controcultura del no, del no future, che ci aveva portato a rompere le vetrine. Loro invece dicevano sì, dicevano che era tutto possibile. Nel frattempo Subwoofer era diventata un’esperienza riconosciuta a livello europeo: ci invitavano a suonare alle feste, ma ogni volta avvertivo un disagio quando incontravo quella musica durissima, disumanizzata, senza groove. Questa repulsione, oltre alla nostra amicizia, ci ha portato a Front De Cadeaux, cercando di far crescere anche un network di dj che avesse la nostra stessa insofferenza. Il beat lento è nato per gioco, ma poi è diventato la nostra strada.

 

È interessante anche il discorso che fate sulle sostanze, che è presente in diversi vostri brani. Ad esempio in "La Ketamine", che apre l'album.

Maurizio è uno psichiatra, lavora nel servizio nazionale belga e si occupa della riduzione del danno: i giorni li passa con sette, otto pazienti in cura per crystal meth, cocaina, anfetamina, ketamina etc. Spesso racconta di situazioni che da una parte fanno ridere, perché non pensi che le persone possano arrivare a fare certe cose assurde, ma dall’altra fanno anche capire come e quanto agiscano le sostanze. In “La Ketamine” diciamo che la ketamina “c’est bonne pour les animaux”, che è una sostanza buona per gli animali, che forse noi vogliamo diventare degli animali, perché la ketamina dissocia dal pensiero binario. Diciamo anche “tu n’existe pas”, tu non esisti, lo fai per annientarti, per non essere presente a te stesso o anche solo per moda. Non ci mettiamo mai a produrre tanto per scrivere, ma sempre perché c’è qualcosa dietro: un’idea, un racconto, un pensiero. Ad esempio, ultimamente abbiamo realizzato un manifesto che si chiama “Sad Is Fashion” perché un brand che ci si chiama Agnès B ci ha chiesto di realizzare un brano. Ogni circostanza è un occasione per denunciare, da veterani. Anche nel disco abbiamo inserito un manifesto, “We Slowly Rot”, in cui parliamo del fallimento di una rivoluzione. La musica dance era nata come un’emancipazione dal pop. Il remix di Patrick Cowley di “I Feel Love” è stato emblematico da questo punto di vista: un brano di quindici minuti che permetteva a quel mood e a quelle sostanze di diventare un momento infinto. Moroder aveva capito come fare musica in loop con gli arpeggiatori, con i 12” ci si emancipava dai remix dei brani pop e iniziavano a uscire pezzi con una drammaturgia propria, come “French Kiss” di Lil Louis, che nel bel mezzo del brano si permette di rallentare e mettere un orgasmo, un momento che non si ripete e non diventa un ritornello. In “We Slowly Rot” diciamo che la dance ha perso questo spirito, che è diventata uno standard e che quell’intuizione di cambiamento è tramontata.

 

Qual è stato il primo impatto di un suono così rallentato rispetto ai bpm standard del clubbing?

Le prime volte che siamo andati in studio da Rodion abbiamo dovuto spiegare che il beat noi lo volevamo esattamente così, squantizzato, non doveva essere corretto né binario. Ableton e i software musicali hanno riportato la musica a una griglia prevedibile, che non ha più una dimensione umana perché non ti fa fare delle scelte: quando si ascolta e si balla il proprio corpo deve invece scegliere a che suono aggrapparsi. Queste dinamiche sono evidentissime nel post-punk o nella musica spezzata alla Dj Shadow realizzata (manualmente) con l’MPC. Come detto, io sono cresciuto con l’hip-hop, con il trip-hop, la drum’n’bass e il breakbeat: tutte musiche che hanno dentro tantissimi accenti e in cui non conta la velocità, anche se può sembrare il contrario. È una cosa che ho imparato al Brancaleone, dove vedevo gente ballare in ogni modo, a seconda dell’accento sonoro che seguiva. A me piace quando il pubblico, ascoltando la musica, pensa: cosa sta succedendo? Cosa può succedere dopo? Le feste di Tropicantesimo infatti sono ecosistemi, qualcosa di vibrante, che sta accadendo, in divenire, in decisione. Anche il ritmo binario in 4/4, se rallentato, può essere molto interessante: rallentare un disco è come ingrandire una pellicola, ti permette di ingrandire la maglia sonora e trovare cose nuove, nascoste. Ci siamo messi a rallentare qualsiasi album, anche le cose più becere, dischi da cinquanta centesimi. Abbiamo recuperato la progressive, la tribal degli anni Ottanta/Novanta, l’house, anche la minimal. È stato incredibile scoprire come un gesto piccolo può cambiare il modo in cui è stata programmata una macchina in fabbrica, trasformandola in un’alleata.

Nel 2018 siete stati protagonisti di una Boiler Room. Che impatto ha avuto questo episodio nella diffusione del vostro suono?

Quella Boiler è nata un po’ per caso. Avevano organizzato a Ghent una Room tutta dedicata alla new beat e avevano ovviamente chiamato Maurizio, perché ormai in Belgio è considerato un dj “storico” che mette acid e new beat. Lui non se la sentiva di farla da solo, così mi chiese di suonare insieme come Front De Cadeaux. Il set era lunedì pomeriggio e la domenica avevo Tropicantesimo… Finita la serata prendo l’aereo e arrivo a Ghent. Con Maurizio ci eravamo un po’ confrontati e l’avevo messo in guardia: quello che passa in televisione viene fissato per sempre. Lo avevo imparato dalle mie esperienze lavorative. Gli dissi che avremmo dovuto pensare a un set che fosse il più semplice possibile: “Io mi porto i cinque pezzi che conosco meglio, fai la stessa cosa anche tu”. Ora, succede che nel momento in cui suoni per Boiler Room certi club ti devono chiamare per forza, non possono proprio evitarlo: è meccanismo a cui questo mondo è assoggettato. Con noi successe qualcosa di particolare. Nell’ambiente si cominciò a dire: “Hai sentito quelli? hanno un beat diverso”. La gente chiedeva la track ID e c’era chi spiegava che non era possibile fornirla, perché o avevi quel pezzo e te lo ascoltavi rallentato oppure niente. I driver quando venivano a prenderci iniziavano a chiederci se anche al peak time del sabato suonavamo a 90 bpm. Quando abbiamo percepito questa cosa ci siamo detti: “È fatta! Questi si stanno cacando sotto, perché non sanno cosa può succedere!”. Il fatto è che il bpm risponde a una logica capitalistica: più sei alto, più sei bello, più sei ricco, più hai un cazzo lungo, più godi, più sei felice; più il bpm è alto, più le persone ballano, più fai soldi, più hai successo. Di tutto questo a noi non fregava e non frega niente, per noi conta il groove. Lo diciamo sempre anche ai dj che suonano prima di noi e vanno nel panico perché non sanno come consegnarci la consolle: guardate che è il groove che conta, non il bpm. Dopo la Boiler Room abbiamo deciso di essere ancora più radicali e suonare solo vinili rallentati. Nel momento in cui la dance music ci sta tradendo, perché è tutta uniformata e non è più una controcultura rivoluzionaria vissuta da persone che si espongono a un’esperienza e ne escono trasformate, a noi cosa cambia? Cosa abbiamo da perdere? Nulla. Per cui assolutamente radical su ‘sta cosa! È esattamente il contenuto del manifesto “We Slowly Rot”.

 

Parliamo più approfonditamente dell'album.

“We Slowly Riot” è una collezione di pezzi registrati nel tempo: non siamo un team che sta tutti i giorni in studio. Ogni tanto qualcuno, affascinato dal nostro lavoro, ci ha chiesto di trasformare un suono in una produzione, ogni tanto abbiamo fatto cose per noi. L’album è uscito per la Antinote di Zaltan, un personaggio di culto che ha pubblicato progetti come Succhiamo, ma allo stesso tempo “temutissimo” nel giro. In questo percorso ci ha aiutato molto l’agenzia belga Culte e c’è da dire che con noi e Zaltan hanno avuto un bel da fare. Il disco, per esempio, è uscito senza affrontare un discorso di royalties e senza un contratto vero e proprio. Io ho sempre detto che per me non era un problema perché ero abituato a lavorare così: non me ne fregava di questi aspetti, volevo un disco per me e per i miei amici, basta. Anche a Maurizio non gliene importava. L’agenzia invece era impazzita! Ci diceva che era impossibile lavorare con Zaltan perché rispondeva alle mail quando voleva etc. La verità è che Zaltan è uno come noi, un dj che si sfascia, che in consolle si ritrova con la moglie, la fidanzata, la figlia, che beve, litiga, però fa il panico perché ha dei dischi assurdi. E io questa cosa la voglio difendere, non voglio dire a un persona di questo mondo “O ti metti in riga oppure niente”, perché lo so che anche io posso essere così, soprattutto in un club! Se il club diventa una cosa fatta da buttafuori che rompono le scatole e dj che non possono sbagliare, non ha più senso niente. Figurati che Zaltan ha lasciato anche diverse copie del nostro album al sole in giardino che si sono piegate tutte. Ma deve essere così! Evviva che sia così! Ma quale pensate sia la vita di un dj? Proprio per la vita che fa, deve essere la prima che persona che può sbagliare e fare delle scelte senza senso. Quindi ho difeso molto Antinote e ho voluto che dentro il disco ci fosse il manifesto “We Sowly Rot” affinché la gente lo leggesse. Non è stato neanche un problema che l’album fosse solo sul nostro bandcamp e non su quello dell’etichetta, perché dal mio punto di vista le persone che vogliono seguire un suono si devono responsabilizzare e attivare, non devono trovare tutto già pronto. Se ti interessa un suono devi sapere come trovarlo: sei tu ascoltatore che devi unire i puntini.

 

State già pensando al prossimo disco?

Vorremmo lavorare sul concept di loop e realizzare un doppio vinile di locked groove: un disco con dei solchi chiusi che si possono suonare sempre contemporaneamente, i cui loop hanno tutti la stessa lunghezza e quindi trovano sempre un’associazione tra di loro. È un tool che serve per accrescere la conoscenza e far capire che non serve il beat matching per fare il dj e far nascere il groove. È quello che spiegava Cage: il ritmo non è una successione cadenzata di eventi, ma uno spazio in cui gli eventi hanno logica tra di loro, che non è quella di una ripetizione regolare. È questo quello che dobbiamo combattere: il groove è una cosa che ha una logica ma non per forza quella del 4/4 e del bpm. Non è una ripetizione, ma una relazione. Nei rapporti tra persone funziona così: non conta se sei alto o basso, se hai cinquant’anni o sedici, conta la relazione in sé.

Altre idee per il futuro?

È importante continuare a militare. La nostra è una militanza, non si tratta solo di andare a suonare in giro per guadagnare i soldi che servono per pagare l’affitto di Pescheria. È necessario non abbandonare i luoghi della performance perché c’è un calo della cultura molto forte, che viene oltretutto legittimato. Ti racconto un episodio: questa estate, alla fine di una serata a Roma, un ragazzo è venuto dirmi “Questa musica non l’ho mai sentita. Ma come hai fatto, l’hai preparata a casa?”. All’inizio non capivo cosa volesse dire, poi mi sono fatto spiegare meglio e praticamente mi chiedeva se avessi preparato tutto il set prima e avessi semplicemente mandato l’audio. “Ma secondo te cosa facevo per tre/quattro ore qua, controllavo la messa in onda?”, “E come fai?” mi risponde. Ecco, molti ragazzi oggi non pensano proprio che certe cose siano possibili. Io invece ho sempre pensato che tutta la musica sia possibile, sempre. A tal proposito mi ricordo di un articolo uscito su The Wire che raccontava di un artista che aveva messo un registratore acceso in una busta e se l’era poi spedito da solo. Il commento del giornalista era su per giù questo: “Ci si deve sempre ricordare che qualcuno sta facendo, ha appena fatto o sta per fare tutta la musica che è possibile immaginare”. Quando mi dicono “Vedi che ti copiano?”, “Vedi che mettono tutti le piante alle feste?”, io rispondo sempre “Ma ‘sti cazzi! Sono cose già nell’aria”. Il rallentamento c’era già nella trap e nel dubstep, ci circondiamo di natura per contrastare la brutalità metropolitana. Magari possiamo essere i primi a cogliere certe cose, ma la mentalità per cui “questa musica è mia, l’ho inventata io” deve essere spianata completamente. Nessuno inventa niente. L’autorialità è l’incastro del sistema capitalistico: vuoi rendere una musica tua perché ci vuoi guadagnare e svoltare. Ma è un pensiero che rende tutto vuoto. Puoi avere delle intuizioni, ci possono essere delle casualità, come mio padre che va a lavorare per un periodo a Caracas negli anni Settanta e torna con delle cassette di cumbia. Anche Villalobos ha preso e registrato quello che succedeva nell’aria, nelle manifestazioni o nelle street in Cile, e lo ha riportato su una ritmica minimal. Sul suono nessuno si inventa niente, al massimo si rende disponibile un qualcosa. Noi siamo solo degli hub: l’unica cosa che dobbiamo fare è essere aperti al suono, perché poi il suono lavora da solo.