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FUNCLAB

A casa dei Funclab, il collettivo di creativi based in NoLo

quartiere NoLo

Scritto da Piergiorgio Caserini il 19 aprile 2021

Foto di Anna Adamo e Guido Borso

Questa è un’intervista multipla per davvero. L’editor non è stato capace di sintetizzare la moltitudine di voci che si sono accavallate nell’arco di un bel pomeriggio che chiunque definirebbe tra amici, indossando birkenstock blu su un parquet scaldato da un tappetoMa forse non ha voluto farlo perché gli pareva ingiusto. Accolti con un «Benvenuti nella mia cucina» in abbacinante stile televisivo, esacerbato dalla visione familiare di un luogo visto e rivisto in innumerevoli call, li abbiamo incontrati tutti: i regaz di Funclab.

Foto di Anna Adamo e Guido Borso
Funclab-Records

Zero vi conosce, tutti vi conoscono, tutti vi sorridono e vi fanno feste nel quartiere. Diteci due parole su di voi, come nasce Funclab?

Lorenzo: In pratica il gruppo si è formato appena finito il liceo, dall’unione di due realtà che bene o male facevano cose differenti, nel senso che ognuno faceva il suo, e che avevano voglia di proporle. Un mix esplosivo. Pensa, io facevo il PR, gli altri sperimentavano perlopiù in studio, un altro faceva BMX, insomma, l’esigenza comune era fare qualcosa e abbiamo deciso di farla assieme. Il primo eventino è stato in un negozio di dischi, con una ventina di persone, poi per un po’ siamo stati all’Agharti in via Vigevano, un posto di cui solo ricordiamo le leggende (pesantucce a dir la verità), e a cui senza volerlo abbiamo lasciato un regalino, anche quando il proprietario l’ha venduto: una nostra prespaziata in terra, con scritto FUNCLAB e una bella freccia che puntava dentro il locale. Vai a capire com’è successo che ci sia rimasta per quattro anni. Poi al Salone del Mobile 2016 abbiamo fatto una grande installazione di tivù e anche la serata è stata una bomba: da lì abbiamo cominciato a collaborare con Nike e diversi altri brand… siamo cresciuti. E due anni fa abbiamo aperto la nostra label. Avevamo un disco già pronto, e mentre cercavamo qualche etichetta a cui mandarlo ci siamo fermati, ci abbiamo pensato un attimo, e abbiamo deciso di fondarla noi. Solo il primo anno forse furono un centinaio di eventi. Di base sapevamo di avere almeno un djset alla settimana, fisso. 

 

Giacomo: Insomma fino a quattro anni fa siamo forse andati a rilento, ma poi, cominciando con gli eventi abbiamo preso velocità. Poi, trovandoci simultaneamente in un contesto musicale e di set design abbiamo vissuto situazioni dinamiche e diverse, conosciuto amici, ed era un’esigenza comune un po’ per tutti. Ora che stiamo convergendo sul serio, tipo 24/7, lavoriamo assieme anche su progetti singoli. La cosa ideale è avere una mole di lavoro ideale tale per cui io posso prendere una produzione e chiedere aiuto per fare questo e quello, e lì diventa automaticamente uno studio.

Quando c’erano, gli eventi. E il lockdown?

Lorenzo: Alcuni progetti live stavano cominciando davvero a funzionare. Siamo andati al Magnolia, abbiamo aperto a Mount Kimbie, Shigheto, alzando di brutto l’asticella. Siamo passati dall’essere i ragazzi che ti fanno la “selecta” cool portandoti un po’ di gente al progetto live con un contenuto e un’identità forte, ricercata. In quel momento è arrivata sta bastonata. Però siamo rimasti sul pezzo. A produrre, a lavorare, a sperimentare. La cosa che sarà curiosa adesso è vedere chi, quando si aprirà, è rimasto attivo e ha continuato consolidandosi, e chi invece ha smesso, è sparito.

 

Tommaso: Stiamo facendo solo quello in pratica. Ma poi credo che a cambiare saranno gli orari. Cioè io mi rendo conto che nelle abitudini quotidiane già adesso tirare l’una… almeno per me già l’estate scorsa mi sembrava pesantissimo fare una giornata fuori di casa, figurati dopo questo periodo. Secondo me vinceranno i party diurni, solo selector.

Daremo finalmente un senso compiuto alle occhialate e sarà felice chi è sovente colto dal sonno, d’altronde Milano stanca… ma via: cambio di prospettiva. Metà di voi è cresciuta qua, l’altra metà ci ha passato parecchi anni. Raccontateci cosa avete visto.

Tommaso: Io ricordo distintamente quando ho visto dalla finestra di viale Monza gli amici con le rose e i palloncini illuminati. Era un weekend di due anni fa, quando abbiamo preso lo spazio qua sotto. Il primo sintomo esplicito che c’era gente fuori dai locali. Insomma viale Monza per me è sempre stata una strada con delle macchine parcheggiate… fino a Pasteur trovavi magari un po’ di movimento ma da lì in poi nulla.

 

Giacomo: Beh, la prima volta che abbiamo visto una famiglia alle 11 di sera in viale Monza ci siamo un attimo preoccupati: gentrificazione? C’è da dire però che è quasi una gentrificazione spontanea, organizzata. In parte la pagina Facebook di NoLo Social District ha contribuito a stringere legami più forti all’interno del quartiere, facendo sentire il senso di appartenenza. Almeno io l’ho sentita così. Ma del tipo che si scrivevano anche persone che non erano di Nolo, come mio fratello. Io vivevo qua e lui era iscritto a Nolo, prima ancora di me. Tutto entusiasta. Per noi che facevamo le installazioni con le tivù, poi, chiedevamo a tutti se avessero un tubo catodico da regalare per esempio, e siamo andati avanti così per almeno due anni!

 

Lorenzo: Pensa che dicevamo sempre che scendere alla fermata di Pasteur era l’equivalente di avere a che fare con il deserto, scendevamo solo noi e altri tre stronzi. Ora esci alle sei del pomeriggio è [verso esplosivo, tipo uooooooommmm. NdR].

E prima?

Ludovico: Prima c’era una certa divisione tra zone, sai: tu sei di Rovereto, tu di Pasteur. Quando ero piccolo c’era questa identificazione. Se io scendo alla fermata di Pasteur quello è il mio quartiere, la mia zona, ed è di certo più bella delle altre. Tipo un campanilismo che riguarda posti letteralmente a due passi da qua, pensa a Rovereto. Letteralmente due passi. In questo senso NoLo ha unificato, prendendo tutte queste “bande” di quartiere e facendone un senso comune. Cioè ora sei NoLo. Che poi tutt’ora rimane quasi periferia, no?, fuori dalla circonvalla esterna… anche se poi la periferia “pratica” inizia dopo la ferrovia, forse già alla Martesana, dove cominci a trovare edifici e capannoni dismessi. E anche viale Monza era così, un mucchio di ville abbandonate.

 

Lorenzo: Pensa che mio padre, da bambino, aveva il divieto assoluto di entrare nelle vie che delimitavano una certa zona da un’altra. Clitumno, Arquà, Chavez erano quelle le tre vie più pesanti: terra di nessuno. Ricordo che quasi bastava l’odore…

 

Ludovico: Io andavo a fare le lezioni di matematica in Arquà: mi portavano e mi venivano a prendere, non mi facevano fare nulla da solo. C’era gente che cucinava il pesce sul balcone, chi spacciava sul pianerottolo… insomma, freestyle.

Insomma, in generale, a prescindere dagli anni, rimane pur sempre un certo senso di vicinato, di quartierino, no? Lo dico perché sono cresciuto in un appezzamento di 600 anime e devo dire che mi sento così.

Lorenzo: Io e Nico in una via di 600 bambini, con l’oratorio che coniugava tutto il circondario. Poi sì, insomma, a me fa veramente piacere quando in giro per la strada mi chiamano per nome. Si rivive il paesino. Ma del tipo che quando vado alla Taverna dei Terroni mi fanno le feste, con il vinaio in via Venini mi faccio delle chiacchierate che durano ore, poi c’è il Beltrade… Ma per dirti, un amico, Giorgio, ha aperto qui sotto il bar Carapina, e lui è un esempio di qualcuno nato cresciuto e stabilitosi nel quartiere. È un socio, dentro al locale tiene i nostri vinili e ci ha pure fatto il servizio di catering a un evento, insomma, questo è il bello, abbiamo i nostri luoghi di riferimento.

 

Giacomo: È un’esperienza alla Taverna dei Terroni, oltre a essere simpaticissimi sembra davvero di stare in un set di una soap opera, e con pochi soldi ti porti via una porzione che vale per due!

 

Ludovico: Ma anche tutti i barettini meno conosciuti, gestiti da egiziani, cinesi, magari con una singola vetrina, che sono quelli dove al sabato sera andavo a vedere la partita con gli amici a quindici anni, ordinando rigorosamente bianchino. Cosa che ormai non si fa più.