Inizia il 4 novembre con un concerto del Golden Striker Trio di Ron Carter la prima edizione di JazzMI, un nuovo progetto di festival diffuso (80 concerti, 120 eventi, 20 artisti) che di certo in città mancava. Ne parliamo con Luciano Linzi, direttore artistico con mille storie passate e presenti, che ha deciso di tornare a Milano per lasciare un segno.
ZERO: Come nasce questo progetto?
LUCIANO LINZI: Nasce cinque anni fa dall’intuizione mia e di Titti Santini di quanto sia necessario per Milano avere un jazz festival. Sono passati ormai quindici anni dall’esperienza dei festival al Ciak e da quel che faceva Antonello Vitale all’Arco della Pace. Eppure a Milano c’è un panorama jazz molto florido, penso al Blue Note che ha aperto qui, alla fantastica programmazione di Gianni Gualberto al Manzoni, alle attività di Musica Oggi. Per questo abbiamo pensato a un festival inclusivo che consenta anche di comunicare altre cose che accadono in città.
Che tipo di festival sarà?
Contiamo di coinvolgere quante più attività possibili. Sarà un festival di concezione moderna, diffuso in città, qualcosa che cerchi di dare una scossa. Una grande scommessa basata solo sul rischio imprenditoriale: botteghino e sponsor. D’altra parte, in questa fase storica, abbiamo pensato che fosse l’unico modo per partire.
Sarà un festival di concezione moderna, diffuso in città, qualcosa che cerchi di dare una scossa
Quali saranno i concerti più importanti?
Avremo molto jazz americano: Ron Carter, John Scofield, Christian McBride, ovviamente Dee Dee Bridgewater con la quale ho avuto una lunga storia di collaborazioni, il duo di Paolo Fresu con Uri Caine, il trio di Enrico Rava con Matthew Herbert e Giovanni Guidi e poi Robert Glasper, Christian Scott e altre cose di confine, penso a Johnny Greenwood e al suo progetto Junun con documentario, ma sempre con l’idea di tenere la barra dritta su un programma jazz molto solido.
Perché credi che sia così importante tenere questa direzione?
In questo momento storico la parola “jazz” va preservata e spiegata nella sua essenza e caratteristica di linguaggio che ci può aiutare, attraverso la contaminazione, l’inclusione e l’improvvisazione, a navigare attraverso questi tempi complessi. Il jazz ha che fare con molti elementi del nostro vivere quotidiano: va valorizzato e portato in luoghi che aumentino le possibilità di coinvolgimento.
Avrete anche del jazz italiano?
Certamente, moltissimi concerti anche di giovani e anche gratuiti e poi un progetto di sinergia e divulgazione della storica tre giorni che Musica Oggi organizza al Teatro Piccolo dal 5 al 7 dicembre, che vorremmo fosse concepita come una propaggine di JazzMI che presenta i migliori jazzisti italiani che negli anni hanno lavorato con la Civica.
Quali altre realtà milanesi saranno coinvolte?
Lavoriamo sul modello del London Jazz Festival, allarghiamo la comunicazione a un cartellone unico da comunicare con forza. Daremo forza anche ai programmi del Blue Note, di Aperitivo in Concerto al Teatro Manzoni, del Bonaventura, di Base, di Masada e di tante altre realtà che faranno parte della programmazione allargata.
Cosa ci sarà oltre alla musica?
Vogliamo lavorare sulla storia della musica jazz in città, costruire un’iconografia attraverso personaggi e luoghi del passato, anche a partire dal Teatro dell’Arte che ha ospitato negli anni Sessanta alcuni concerti memorabili, dal quintetto di Miles Davis al quartetto di John Coltrane a tanti altri momenti cruciali per il jazz in Italia.
Come sarà il rapporto con la Triennale?
Innanzitutto il Teatro dell’Arte ospiterà molti concerti, poi oltre al master class e presentazioni di libri, lavoreremo su due mostre, penso in particolare alla retrospettiva di Riccardo Schwamenthal cui abbiamo chiesto di tirar fuori dagli archivi molte foto realizzate negli anni 50 e 60 a Milano o proprio al Teatro dell’Arte. Avremo poi la mostra di Roberto Polillo da Base: in quegli anni seguiva il padre Arrigo in concerti memorabili che seguiva e fotografava e che hanno fatto la storia del jazz in Italia.
Vogliamo lavorare sulla storia della musica jazz in città
Parliamo della tua storia: come hai cominciato ad appassionarti al jazz?
Vivevo a Padova, mia sorella Laura era più anziana di sette anni, già quando ne avevo cinque mi faceva ascoltare dischi dei Beatles e dei Rolling Stones. Come molti poi, dopo un periodo rock, sono arrivato al jazz attraverso il prog: King Crimson, Yes, Soft Machine. Ho sempre avuto una forte passione per tre musicisti: Nick Drake, Tim Buckley e John Martyn, tutti piuttosto sperimentali e con elementi jazzistici forti.
Che concerti ricordi di quei primi anni?
Negli anni 70 proprio i Soft Machine a Padova e poi Jethro Tull e Gentle Giant a Treviso. Sui giornali leggevo sempre le finestre dedicate al jazz.
Che dischi compravi?
Non avevo molti soldi e allora mi ero messo a lavorare il pomeriggio da Gabbia Dischi, un negozio di Padova. Era l’occasione per ascoltare più cose e avere un rapporto con i clienti.
Due dischi simbolo di quel tempo?
Sicuramente Birth di Keith Jarrett e poi Bolivia di Gato Barbieri.
Come hai cominciato a organizzare concerti?
Cominciai a lavorare con il Centro d’Arte Padova che organizzava concerti jazz fin dagli anni 50, quando era studente a Padova Franco Fayenz. Cominciai a collaborare come assistente di Ugo Fadini alla rassegna del 1973: lavoravo dietro le quinte, una bella palestra per parlare in inglese e conoscere i musicisti.
Qual è stata la svolta?
Proprio nel 1973 c’era stata la prima edizione di Umbria Jazz, volevo andare sia a Perugia sia a Montreux ma mia madre mi disse di scegliere uno dei due. Scelsi il festival internazionale, dove ascoltai il gruppo elettrico di Miles Davis – ora quel concerto è uscito in cofanetto – e poi Gato Barbieri con Paul Motian. Era fantastico ascoltare tutti quei musicisti in riva al lago, un’atmosfera stupenda. Come entrare in un’enciclopedia del jazz carne e ossa. Ci sono andato per dodici anni di fila.
Un concerto cruciale di quegli anni?
Certamente il concerto al pianoforte solo di Keith Jarrett al Teatro Donizetti di Bergamo nel marzo del 1973, una cosa che mi ha completamente stregato. Sono stato molto fortunato perché poi, dal 1984, ho cominciato a lavorare con lui. Me lo avevano appioppato a Ravenna perché sapevano che io ero una persona molto paziente. Molti parlano del suo carattere difficile ma è solo una difesa di un uomo timido e introverso e posso dirti che, parlando con lui l’anno scorso a Napoli, dopo una giornata di tensioni, è bastato parlare di Miles Davis sentirgli ricordare alcuni momenti quasi con commozione. Jarrett vede in Davis il suo maestro di vita e devo dire che in tutto quello che fa incarna in pieno l’artista che vive totalmente per la creazione in un rapporto unico con lo strumento.
Qual è stato il primo vero concerto che hai organizzato?
Nel 1974 a Montreux avevo visto l’orchestra di Gil Evans. Il concerto è iniziato senza la tromba di Hannibal Marvin Peterson: era appoggiata sulla sedia, Hannibal si era perso e arrivò a concerto iniziato passando dalla platea. Salì sul palco e fece un’esibizione pazzesca. Tornai a Padova e suggerii di invitarlo in quartetto con George Adams.
Poi che filoni hai seguito?
Una grande attenzione per ciò che accadeva a Chicago e Saint Louis, anche grazie a Isio Saba, che lavorava con quegli artisti e col quale avevo fatto amicizia insieme a Massimo De Carlo.
Come hai conosciuto Massimo?
Veniva anche lui a comprare dischi da Gabbia e ci lavorò anche per un breve momento. Scoprimmo subito che avevamo una passione comune il jazz e per i ristoranti. Massimo cominciò a lavorare con il Centro d’Arte e lo guardavano come fosse un marziano, così singolare per il suo portamento e l’esuberanza! Immaginalo con le sue passioni viscerali per l’arte, la musica e il cibo e amplificati esponenzialmente dalla sua gioventù.
Parlami per un attimo dei tuoi ristoranti preferiti, allora.
Sono tanti, ovviamente a Padova alle Calandre, da Alajmo ho fatto anche il mio primo matrimonio. Con Massimo siamo sempre andati in giro alla ricerca di buoni ristoranti ma anche viaggi all’estero…
Raccontamene uno.
Fu una rivelazione per entrambi il viaggio a New York nel 1978, avevamo diciannove anni e andavamo per un mese e mezzo a stare a casa di Muhal Richard Abrams che abitava in un complesso, il Manhattan Plaza, che la città di New York aveva affittato ad artisti, ballerini, musicisti, dalle parti di Times Square che allora era una zona anche abbastanza malfamata. Una casa incredibile, ci passavano Charles Mingus, Dexter Gordon, Anthony Braxton e tanti altri: era come stare dentro il mondo che avevamo sempre sognato. Andammo anche a Chicago a trovare Joseph Jarman e tutti gli altri dell’Art Ensemble of Chicago…
Che cosa hai fatto poi?
Conobbi Umberto Marcato, un cantante che aveva fondato la Gala Records. Pubblicava un disco l’anno con le sue canzoni. Umberto negli anni 60 era diventato una star in Scandinavia cantando i grandi successi della musica italiana, talvolta in finlandese o svedese. In Italia non lo conosceva quasi nessuno. Mi chiese di rivitalizzare l’etichetta e allora cominciai a produrre dei dischi di jazz italiano.
Perché proprio dei dischi jazz?
Quando proposi a Marcato di pubblicare del jazz, lui accettò l’idea con entusiasmo: conosceva il valore del jazz, in Svezia era accompagnato da orchestre di formidabili improvvisatori che suonavano musica leggera per sbarcare il lunario. Un po’ come avveniva da noi dove l’Orchestra della Rai che faceva gli show tv più importanti, da Mina a Luttazzi, era farcita dai migliori solisti del tempo, Gianni Basso, Oscar Valdambrini, Dino Piana…
Da chi hai iniziato?
Il primo disco di Roberto Gatto con Michael Brecker e poi il quintetto Lingomania di Maurizio Giammarco che aveva vinto per due anni il Top Jazz ma non aveva mai inciso nulla: Riverberi ebbe un grande successo commerciale anche grazie alla distribuzione Ricordi. Da quel momento fui assaltato dai musicisti che volevano essere pubblicati ma continuammo a fare poche produzioni e molto ben curate. Poi arrivò l’incontro con Dee Dee Bridgewater.
Siamo a metà degli anni 80, vero?
Sì, ero stato al Midem e mi avevano parlato della Bridgewater che si era trasferita a Parigi per fare un musical sulla vita di Billie Holiday. Comprai i diritti del suo live al New-Morning per 500 $. Telefonai alla sorella di Renzo Arbore, Sabina. Per caso erano insieme e Renzo la ricordava giovanissima negli anni 70 nell’orchestra di Thad Jones a Umbria Jazz. La invitarono in televisione quattro volte a DOC e facemmo il botto: 60.000 copie! Poi accadde un caso più unico che raro…
Ovvero?
Il suo manager si lanciò e andò a chiedere a Ray Charles se gli andava di fare un duetto con la Bridgewater, lui accettò e quando fu fatta la registrazione lui, forse per riconoscere il lavoro che avevo fatto decise di lasciarmi i diritti per l’Italia pur avendo firmato con Universal per il resto del mondo. Allora li portammo insieme come super ospiti al Festival di Sanremo del 1989 e fu un successo clamoroso cui si aggiunse un nuovo album.
Poi cantò con i Pooh, vero?
Mi chiamò Stefano Senardi, che era appena arrivato alla CGD dopo l’acquisizione della Warner. I Pooh volevano andare a Sanremo in cui era sta recuperata l’abbinata artista italiano/straniero e volevano cantare con la Bridgewater, una scelta ardita. I Pooh erano musicisti davvero super professionali, con un interesse curioso per quella voce così forte e diversa da loro: andarono insieme a Sanremo e vinsero. La popolarità di Dee Dee arrivò alle stelle!
Come sei stato coinvolto nella Casa del Jazz?
È partito tutto da una trasmissione che faceva Pierluigi Diaco: “Il sindaco e il dj”. Walter Veltroni voleva fare una sua compilation e lavorammo insieme a “Me, we”, progetto nato per raccogliere fondi per costruire pozzi d’acqua in Mozambico. Ci siamo conosciuti meglio e un giorno di qualche anno dopo mi telefonò per dirmi che voleva portarmi a vedere Villa Osio, per farne la Casa del Jazz. Per motivi sentimentali volevo trasferirmi a Roma e fu una combinazione perfetta.
Come sono stati quei primi anni?
Il progetto di apertura fu fantastico, Veltroni aveva una bella visione della città proiettata a livello internazionale, penso anche all’Auditorium di Roma, alla Casa del Teatro, alla Casa delle Letterature, alla Casa del Cinema. Con Gianni Borgna lavoravo molto bene. Il sindaco mi chiamava in continuazione, facemmo moltissime cose partecipano anche a momenti importanti, penso al conferimento della cittadinanza onoraria a Carlo Azeglio Ciampi che si concluse proprio con un concerto alla casa del jazz con Enrico Rava, Danilo Rea e Roberto Gatto. Veltroni considerava la Casa del Jazz una sua creatura e gli piaceva farla vedere: una sera capitò a cena con Robert De Niro e Meryl Streep…
Ho sempre molto amato tutto ciò che ha fatto Martin Scorsese, quindi direi Toro Scatenato.
Un libro.
Difficile indicarne uno ma se devo dirti un libro che ha cambiato il mio modo di vedere il mondo in un certo momento della mia vita, dico 1984 di George Orwell.
Un incontro.
Quello con Miles Davis. Ho una foto scattata da me il 25 agosto 1981 alle 5 di sera sulla West End Avenue. Gil Evans mi aveva suggerito di andare davanti a casa sua a quell’ora perché usciva sempre a fare jogging. Infatti, uscì di casa, era da solo, lo avvicinai e mi chiese di accompagnarlo: stava andando a casa della moglie, Cicely Tyson. Era tranquillo, gentilissimo. Dopo un po’ gli chiesi di potergli scattare una foto perché nessuno, se avessi raccontato quell’incontro, mi avrebbe creduto. Allora Miles si mise in posa. Era appena rientrato sulle scene, dopo un misterioso ritiro di 5 anni, con l’esibizione al Newport Festival e l’uscita di “The man on the corner”…
Visto che parlavamo di Massimo De Carlo, dimmi un artista visivo che ti appassiona.
Ancora una volta è difficile fare un solo nome ma devo dirti che negli ultimi anni mi sono sempre più appassionato al lavoro di Alberto Burri, davvero un artista straordinario, di grandi visioni, che in passato non avevo percepito appieno.
Torniamo agli ultimi anni e alla parentesi Alemanno.
L’assessore era anche competente ma mi disse, letteralmente: “Mi dispiace ma ora dobbiamo mettere uno dei nostri”. Diedero la direzione a Giampiero Rubei, a gennaio 2011 mi chiama Vinicio Capossela che conoscevo da tempo per chiedermi se mi volevo occupare delle sue nuove produzioni. Voleva rendersi più indipendente dalla sua casa discografica storica. Facemmo insieme Marinai, profeti e balene, un grande successo. Vinicio è un artista che ha visione, sensibilità, intelligenza: una persona molto scaltra che merita tutto il successo che ha.
Sei tornato alla Casa del Jazz, che programmi hai?
Credo molto nel rilancio. Luca Bergamo è un assessore molto capace, che ha visione internazionale, un professionista con i fiocchi che mi auguro possa lavorare al pieno delle sue potenzialità.
Quali sono i progetti che avresti voluto fare, ma non sei riuscito a realizzare?
Francamente non ho molti rimpianti, preferisco parlare delle cose fatte, penso al tributo a Lucio Battisti del 1990, allora non era molto popolare fare progetti di questo tipo, ricordo che Enrico Rava era quasi raccapricciato ma poi ci lavorò e così anche Mango, Antonella Ruggero, Rossana Casale, Mia Martini. Fu un progetto per me molto interessante. Sono certo che una copia arrivò anche a Lucio Battisti ma non so se l’ascoltò e non ho mai saputo che cosa ne pensasse. Me lo ricordo invece una volta quando venne in CGD, lo accompagnai per un attimo per i corridoi. Diceva “che bella atmosfera, quanti giovani!” ed io ero emozionatissimo: Battisti non si faceva mai vedere ed era come incontrare una leggenda.
Che cosa farà da grande Luciano Linzi?
Devo dirti che credo moltissimo nel progetto JazzMI anche perché s’inserisce in una città che sta riprendendo la leadership che nel tempo aveva perso.
Dove andiamo a mangiare quando vieni a Milano?
Portami da Andrea Berton, ricordo ancora l’ultimo pranzo da lui nel vecchio ristorante e mi piacerebbe provare quello nuovo.
Fatta! Dove mi porti quando vengo a Roma?
Assolutamente da Giulio Terrinoni che dopo aver lasciato Acquolina ha aperto Per Me, formidabile per la sua capacità di trattare il pesce in modo creativo e geniale.
Sono prontissimo…