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Pino Perrone

Una delle figure chiave per il whisky a Roma e in Italia. Lo potete trovare in centro nello shop Whisky & Co o durante uno degli eventi firmati Spirit of Scotland. Lui è Pino Perrone e questa è la nostra intervista.

Scritto da Roberto Contini il 22 giugno 2017
Aggiornato il 23 giugno 2017

Data di nascita

28 agosto 1964 (59 anni)

Luogo di nascita

Roma

Luogo di residenza

Roma

Una persona che riesce a infondere una passione ha le fattezze di Pino Perrone: un oratore instancabile, che trasuda entusiasmo ad ogni parola pronunciata. Se poi l’oggetto della passione è un prodotto eccezionale come il whisky, ci vuole poco a farsi convincere. Pino è dietro alle due realtà di riferimento per il whisky a Roma – che sono dei riferimenti anche a livello nazionale: Whisky & Co – shop delle meraviglie a via Margutta – e Spirit of
Scotland
, rassegna giunta alla sua sesta edizione che per un fine settimana, a marzo, chiama a raccolta produttori, distributori e degustatori. In questa intervista ci siamo fatti raccontare anni e anni (e altri anni ancora) di assaggi, viaggi e scoperte.

 

ZERO: Iniziamo dalle presentazioni, come ti chiami e quando sei nato?
Pino Perrone: Pino Perrone, nato il 28/08/1964, è lo stesso giorno di Goethe, collezionista come me.

Quando hai iniziato a interessarti al mondo del bere in generale e a quello dei distillati in particolare?
Diciamo che il primo approccio c’è stato dopo aver terminato gli studi di ragioneria, quindi intorno ai 19-20 anni. L’inizio è stato abbastanza canonico, alternando la passione per il vino a quella per la birra. Negli anni 80 c’è stato un fermento culturale a Roma per quel che riguarda il mondo del bere, tanto che, verso la fine del decennio, ero quasi diventato un “assaggiatore ossessivo-compulsivo” di vini, ogni giorno avevo quasi necessità di assaggiare qualcosa di nuovo. Nel 1998 ho iniziato il corso Ais per sommelier e lì c’è stato sicuramente un approccio più professionale. Per quanto riguarda il whisky, il primo impulso di acquistare una bottiglia è stato grazie a Vázquez Montalbán: leggendo Pepe Carvalho che beveva “il miglior whisky del mondo”, a suo parere, ovvero il Knockando, cominciai ad interessarmi a questo mondo e ci fu il classico passaggio dai whisky che trovi in casa frutto di regali di Natale a una dimensione da approfondire con più cura. Che poi, a dirla tutta, non trovai il Knockando da nessuna parte e quindi “ripiegai” su un Lagavulin 16 yrs, nel vecchio imbottigliamento, completamente diverso da quello attuale. E da lì in poi la passione si è propagata quasi in forma virale con assaggi, manifestazioni, degustazioni che organizzavo con gli amici per cercare di trasmettere questa mia passione anche a loro. La descrizione migliore di questo tipo di “virus” secondo me la dà Ken Loach nel suo film Angel’s Share, che consiglio a tutti.

Hai cominciato a vendere whisky con l’Emporio del Gusto a via Chiabrera per poi spostarti in via Margutta con Whisky & Co. C’è un motivo particolare per cui hai scelto questa nuova location?
Lo shop di via Chiabrera – che continua a esistere, ma con un focus diverso – era diventato una sorta di enclave per “feudatari”, per così dire: venivano appassionati che si lasciavano consigliare e cercavo di avere una proposta di whisky di qualità in un quartiere non comune. Avevo tuttavia scelto di impostare lo shop anche con una dimensione enogastronomica: il bancone in bella vista con prodotti alimentari aveva forse un impatto eccessivo e faceva perdere qualcosa a livello di identità. Diciamo che era un problema di forma stilistica e anche di dimensioni: ero arrivato ad avere 300 etichette diverse, ma ne potevo avere solo una bottiglia per ognuno per questioni di spazio. Quando c’è stata la prima edizione del festival Spirit of Scotland mi è stato chiesto aiuto in qualità di consulente e lì c’è stata un po’ la svolta: mi sono divertito molto in questa veste, abbiamo visto che c’era possibilità di crescita e sono entrato in società con Andrea Fofi e Rachel Rennie per le edizioni successive del festival. E poco a poco è nata l’idea di realizzare uno shop 100% dedicato ai whisky e ai distillati, con la proposta a dicembre 2013 di aprire Whisky & Co insieme ad Andrea e a Max Righi – che ora ha intrapreso altre strade, lasciando la società per dedicarsi a tempo pieno all’imbottigliamento con Silver Seal – il primo negozio specializzato in Italia.

La sede di Whisky & Co.
La sede di Whisky & Co.

Come è cresciuto il mondo del whisky a Roma? Ci sono state figure storiche a livello di importazione e distribuzione?
A Roma la figura storica più importante è senza dubbio Stefano Carlucci con il suo Le Bon Bock: dal 1992 in poi è diventato pian piano un punto di ritrovo e ha fatto in un certo senso da apripista per tutto un tipo di discorso e di approccio al bere e al whisky in particolare. Per quello che riguarda il mondo dell’importazione, le realtà più forti sono sempre state legate al Nord Italia e Roma è arrivata un po’ dopo. Forse per una spinta di curiosità che a Roma manca: è un lato che si nota anche per quel che riguarda degustazioni ed eventi. Ma il potenziale e l’interesse c’è, come dimostra ad esempio il movimento degli speakeasy, sul quale Roma ha dimostrato di essere all’avanguardia.

A proposito di speakeasy, secondo te l’esplosione del mondo del cocktail ha aiutato anche la curiosità verso il whisky?
Sì, mi spingo più in là e dico che ha aiutato il mondo beverage in toto, in modo consapevole e intelligente. Ha portato sicuramente l’idea che ci si può fare un drink tenendo sempre presente la struttura e l’alchimia degli elementi che lo compongono e questo è avvenuto grazie ai barman che si sono adoperati in maniera tale che ci fosse una logica e una coerenza. Si è arrivati a creare prodotti gradevoli ed equilibrati, anche visivamente, che aiuta sempre. Per quanto riguarda il whisky, per un lungo periodo è stato considerato un elemento troppo legnoso da inserire nei cocktail, ma ultimamente si è trovato un equilibrio che ha portato alla riscoperta di tante ricette, come il Whisky Sour o il Boulevardier. Dopo questo periodo di “conferma”, si è passati anche alla sperimentazione, provando anche a inserire torbati e single malt più complessi, tanto che alcune distillerie ora stringono l’occhio alla mixology uscendo con prodotti ad hoc (ad esempio, Talisker Skye e Storm). E se si raggiunge una persona con un cocktail, è possibile che questa si appassioni e abbia l’impulso di provare il prodotto senza mix, o cerchi di ricreare il drink dopo averlo bevuto allo speakeasy o al locale e si rivolga agli shop dedicati per trovare la bottiglia più adatta.

Il corner dedicato ai cocktail all'interno di Spirit of Scotland.
Il corner dedicato ai cocktail all’interno di Spirit of Scotland.

Da quando hai aperto ad oggi, quale sono stati i maggiori cambiamenti nel tuo modo di lavorare? La clientela è cambiata in qualche maniera?
Chiaramente il modo di approcciarsi al lavoro cambia continuamente, anche in rapporto a quella che è la richiesta. Adesso, ad esempio, abbiamo deciso di puntare molto di più sul lato vintage: ci sono molti appassionati che sono in cerca di etichette ed annate particolari, non solo italiani ma anche chi è in visita per turismo od affari. Capita spesso di avere clienti stranieri che cercano su internet “whisky shop roma” e vengono qui chiedendo una bottiglia nello specifico, questo, ovviamente, nello shop precedente era più difficile. Per quanto riguarda il mercato del whisky, c’è ancora una predilezione per gli original bottlings, in particolare da parte degli stranieri. Gli indipendent bottlers non sono ancora completamente “sdoganati”, ma a livello di qualità sono spesso equivalenti o superiori se parliamo di single cask: dal mio punto di vista, cerco di anche di incoraggiare questo tipo di crescita. Un aspetto meno positivo invece è dato dalla crescita degli “squali”, ovvero coloro che comprano bottiglie per investimento e brokeraggio: si tratta spesso di persone che si sono spostate dal mondo del vino, dove il mercato di questo tipo era saturo ed il rischio di incappare in una bottiglia “fallata” è maggiore. Negli ultimi tempi c’è stato un gettito enorme di brokeraggio, che ha portato in generale a far lievitare i prezzi con bottiglie battute all’asta a prezzi surreali, che poi hanno un effetto domino su tutto il mercato.

Quali whisky non possono mai mancare da Whisky & Co?
Ci sono due modi per rispondere a questa domanda. Il primo è che non puoi mai mancare quello che il mercato richiede: in questo momento, quindi, non possono mancare i whisky giapponesi. Ultimamente è richiesta anche una certa attenzione per i prodotti americani, in particolare rye e bourbon, tornati in auge grazie alla spinta della mixology; per quanto riguarda la Scozia, sono sempre richiesti i torbati, sicuramente la tipologia più riconoscibile anche per i non esperti, e quelli che sono definiti gli sherry monsters, ad esempio Glenfarclas ed Aberlour, molto graditi dal pubblico femminile. Poi, ovviamente, c’è quello che il titolare ritiene non possa mai mancare: nel mio caso parliamo quindi di Springbank o dei Macallan del passato. Diciamo che sono particolarmente attento a tutta la questione legata alla artigianalità e alle piccole produzioni, o a distillerie che portano avanti un lavoro riscoprendo o perpetuando i vecchi sistemi, come Kilchoman per esempio.

La sede della distilleria Kilchoman,
La sede della distilleria Kilchoman,

Come decidi quali distillati vendere nel tuo shop?
Sono sempre dell’opinione che bisogna avere una conoscenza a 360°: devi colpire e coprire tutto, mettere in ballo più fonti e attingere da cose diverse tra loro, per avvicinarsi all’obiettività. Che poi la totale obiettività non esiste, è pur sempre una visione soggettiva delle cose, ma, insomma, bisogna cercare di andarci il più vicino possibile. Le visite in distillerie aiutano, senz’altro, anche perché non ci può essere solo la cultura presa dai libri, che spesso si risolve ad una cosa “presa in prestito”, magari tramandata di libro in libro e non sempre accurata al 100%. Bisogna sempre avere l’esperienza diretta, vedere come lavorano e conoscere le metodologie, dove possibile.

C’è un whisky che puoi dire di aver “scoperto” e aver portato alla ribalta, per così dire, almeno sul mercato romano? Personalmente, ad esempio, ti sentii parlare del Bruichladdich Octomore almeno tre anni prima che diventasse un whisky “di culto”.
Octomore è anche il nome del mio cane, considera. Ho scoperto che sarebbe potuto piacere perché era estremo, e l’estremismo è una condizione insita nella modernità e di questo periodo storico. L’Octomore, per le sue caratteristiche – torbatissimo, alcolico e giovane – aveva tutto per esplodere e invece ha fatto fatica all’inizio, tanto che eravamo in pochi a crederci – io e Le Bon Bock. Per la release Orpheus riuscii a prendere dodici bottiglie dalla distribuzione perché le volevano in pochi, ora invece non si trova più se non pagandolo uno sproposito. Poi c’è un discorso che si può fare sulle distillerie chiuse e che vengono “riscoperte”: su questo mi piace citare Littlemill, che abbiamo anche imbottigliato per Spirit of Scotland nel 2014, in un invecchiamento 21 yrs. Abbiamo proposto un’edizione da 150 bottiglie: durante il festival è passata un po’ sottotraccia, mentre ora il valore della singola bottiglia è quintuplicato perché il Rosebank – che è di una distilleria “equivalente” nella stessa zona delle Lowlands – è esaurito e quindi avevo puntato su questo effetto.

Ti ricordi la prima distilleria che hai vistato in Scozia?
La prima che ho visitato è stata Glenfiddich: ne ho un bel ricordo anche perché caso volle che il cicerone della visita fosse italiano. Ci sono stato un po’ casualmente durante una vacanza in Scozia prima che avessi questo tipo passione per il whisky e Glenfiddich è tra le distillerie più famose. Oggi, probabilmente, farei una scelta diversa. Però da quella visita venni a sapere che esistono whisky con invecchiamento di 50 anni, che spesso non escono nemmeno sul mercato, ma vanno direttamente in Giappone e sono fatti apposta per qualche facoltoso committente…

L’ultima che hai vistato invece?
L’ultima è stata la distilleria Chichibu in Giappone, nella prefettura di Saitama, non distante da Tokyo, a novembre scorso. È un posto impressionante e la visita è stata veramente stupenda: ho potuto apprezzare come ci sia veramente un’attenzione maniacale al prodotto, che arriva fino al controllo quotidiano della “ricetta” per quanto riguarda le proporzioni. Mentre in Scozia è grosso modo dato per assodato, in questa distilleria avevano ogni giorno delle proporzioni diverse che andavano in distillazione, con variazioni anche notevoli. Ho provato ad indagare ma non mi hanno svelato il segreto…

La distilleria Chichibu.
La distilleria Chichibu.

C’è una distilleria tra le tante visitate che ti ha segnato di più?
Per preferenza personale, ti direi che Springbank (Campbeltown) sicuramente merita la visita: la loro professionalità e serietà non ha paragoni e inoltre, ogni volta che va a fare il tour trovi qualcosa di diverso, ma sempre e comunque un’accoglienza super. Tra le “nuove” invece mi piace citare Arran, sull’omonima isola, sia per la sua componente insulare ma soprattutto per il salto qualitativo fatto negli ultimi anni, quando hanno avuto un assestamento positivo sulla qualità dei loro prodotti e col cambio di mastro distillatore.

La distilleria Springbank.
La distilleria Springbank.

In Italia comincia ad esserci anche una discreta gamma di selezionatori e imbottigliatori. C’è qualche brand che sta lavorando particolarmente bene, a tuo parere?
C’è stata sempre una grande tradizione di imbottigliatori in Italia, basti pensare ai grandi nomi storici come Nadi Fiori, Samaroli o Mainardi, che già negli anni 70 erano a livelli ottimi, seguiti poi nel tempo da Wilson & Morgan. Se invece devo fare qualche nome tra le nuove leve, mi piace citare Andrea Ferrari con la sua Hidden Spirits, che sta facendo prodotti di qualità e sta lavorando in maniera eccellente anche per quel che riguarda il brand, dando sempre il giusto spazio al whisky anche a livello comunicativo. Poi c’è Whisky Club Italia, che è un nome sempre valido. Tra quelli che sono, per così dire, “in rampa di lancio” e che sono partiti alla grande cito invece Fabio Ermoli e Davide Romano di Valinch & Mallet.

Stanno pian piano emergendo nuove realtà nella produzione di whisky, penso ad esempio all’India, che si è affermata con ottimi prodotti. Pensi che ci sia spazio per nuove realtà di distillazione, magari in Europa
Sono dell’idea che questo tipo di diffusione non vada impedito, ma alcune distillerie europee di luoghi meno tradizionali – e ce ne sono parecchie, in Francia, Svezia, Germania, Belgio… – dovrebbero puntare di più sul trovare un’identità propria e non semplicemente produrre come fanno gli scozzesi o gli irlandesi. Potrebbero puntare con più attenzione al metodo, per trovare una cosa distintiva, magari usando prodotti locali o puntare sulle peculiarità climatiche per fare un prodotto diverso, come hanno fatto ad esempio in India con Amrut e Paul John. Non so, mi viene in mente che si potrebbe sperimentare qualcosa con l’orzo, puntando magari su qualche varietà locale invece di importarle.

La distilleria Amrut e il suo insolito panorama esotico.
La distilleria Amrut e il suo insolito panorama esotico.

La richiesta più strana che ti hanno mai fatto in negozio?
Diciamo che la più strana è anche una delle più frequenti, ma è dovuta purtroppo al fatto che molti pendono ancora dalle labbra dei media e si presentano in negozio a chiedere lo Yamazaki Single Malt Sherry Cask 2013 che ha vinto il premio come miglior whisky qualche anno fa, senza sapere nulla: in Italia non è mai arrivato e comunque, anche volendo, una bottiglia costa sui 3.500 euro… La faccia che fanno quando gli spieghi questa cosa è notevole… Dall’altro lato della medaglia c’è chi chiede: «Ah, anche in Giappone fanno il whisky?», se gli proponiamo qualcosa di non scozzese. Ma penso che la cosa più strana sia legata al retaggio di un certo immaginario sul whisky, con la gente che mi chiede se il whisky vada riscaldato con la fiamma prima di berlo…

La bottiglia più costosa che hai venduto?
Senza parlare di prezzo, ad un privato “la bottiglia record” è stata un Macallan 15 yrs, imbottigliamento originale del 1962. Considera che il re-bottling è stato utilizzato in Skyfall il film 007 per segnare i 50 anni di James Bond al cinema, visto che il primo film è uscito proprio nel ’62..

Quando non sei nel tuo shop, dove e cosa ti piace bere?
Ora assaggio molto di più per questioni professionali, tra festival e shop e quindi magari giro di meno. Però. quando capita, c’è sempre Le Bon Bock come riferimento, assieme al Redrum e al Gregory’s, ma anche ristoranti come Arancia Blu, che hanno ottime carte di whisky.
pino perrone