Partiamo dalla soluzione. Mangiare è un atto agricolo, di portata indubbiamente culturale, che deve il più possibile mantenere cosciente e intatto il ciclo biologico tra il cibo, gli elementi naturali e l’uomo. Sembrerebbe quasi l’incipit di un convegno tra buongustai radicali e un po’ elitari, invece è quello che potrebbe dirvi – e sicuramente l’ha fatto con parole diverse nella forma ma non nella sostanza – vostra nonna o, se siete particolarmente giovani, forse occorre risalire fino alla vostra bisnonna. Tanto è difficile ritrovare un atteggiamento puro, rispettoso e responsabile per ciò che mangiamo e la sua storia. In poche parole, una condotta sostenibile.
Questa parola in realtà non è nulla di nuovo. Tornare alla terra, pensare al futuro in senso anche ecologico, al netto dei Fridays For Future, è una semplice marcia indietro, un’azione difensiva contro l’iniezione di “modernità” delle catene industriali e dell’iper alimentazione dagli anni 70 in poi. Mangiare sostenibile vuol dire tante cose, in primis capire i perché dietro ad alcune scelte alimentari sia dal lato dell’offerta che dalla domanda. L’ananas dalle miracolose proprietà dimagranti ha veramente senso acquistarla? Da dove viene? Ed è vero che gli zuccheri raffinati, vengono iniettati nei manzi da macello? Il Kobe, al contrario e quasi al paradosso, ascolta la musica e viene massaggiato con la birra?
Mangiare sostenibile vuol dire, udite udite, tornare al cibo. Sai che novità, e invece se prima – ristoratori, chef, gastronomi, consumatori – erano tutti intenti a togliersi di dosso quell’aria bonaria dovuta al mangiare tradizionale e regionale verso un cibo più moderno, veloce, spettacolare e quindi meccanizzato, ora si assiste al contrario. Per fortuna, in alcuni casi. Dal mangiare strano al mangiare sano.
Mangiare è un atto agricolo che deve il più possibile mantenere cosciente e intatto il ciclo biologico tra il cibo, gli elementi naturali e l’uomo.
Perciò la gastronomia cambia gusto e sostanza, non per forza volto: l’hamburger rimane l’hamburger ma si rimpie di fassona al pascolo, non di carne allevata intesivamente, la verdura viene scelta con il sistema dela filiera corta, non in serra impoverendo il sottosuolo, la spesa si predilige con i nuovi sistemi di contatto tra consumatori e piccoli produttori, nei mercati agricoli e grazie alle consegne online che abbattono le distanze. Se prima il freezer regolava la vita di ogni giorno ora si predilige stagionalità, freschezza e gusto. Costoso? Sì, ma questo è un altro discorso.
Il demone del marketing alimentare però è sempre attento, si fa furbo e se prima ci ingozzava di coloranti e sciroppo di mais, ora continua a farlo ma ripulendo la propria immagine per farci sembrare tutto più etico e salutare possibile. Un classico esempio di green-washing. Molte volte su queste pagine ci avete sentito tuonare contro le mode salutistiche del momento: il poke ad alto contenuto proteico con le bacche di goji miracolose, l’avocado che – a detta di un amico perspicace – ha sostituito il fallo maschile nei sogni proibiti di donne e uomini, le acque vitaminiche e gli smoothies proteici. Tutti sembrano cercare bibite naturali, prodotti vegetali, superfood del momento, sotto l’egida del fantomatico biologico, sostenibile, green. Aspetti che non sempre vanno a braccetto.
L’hamburger rimane l’hamburger ma si rimpie di fassona al pascolo, la verdura viene scelta con il sistema dela filiera corta, la spesa si predilige con i nuovi sistemi di contatto.
Togliendo quindi da questa discussione la fuffa del gigantismo industriale e della globalizzazione livellatrice, rimangono quelli che nel vasto panorama lavorano – per scelta, vocazione e impegno – in maniera sobria, decisa e molto sostenibile. Giovani chef, ristoranti, bartender, panificatori, professionisti del gusto, che abbracciano la filosofia del sostenibile nella propria attività. Non per moda ma per convinzione. Biodiversità, produzione su piccola scala, molte volte autoproduzione che sembra essere la chiave di sostentamento nel mondo come noi lo stiamo conoscendo. Distanziato e precario. Fate un giro nell’orto di Erba Brusca, la chef Alice Delcourt insieme ai suoi ragazzi sono pronti ad affermare: “L’orto ci permette di rimanere legati a una dimensione del cibo più immediata, connessa alla stagionalità e alla cura della materia prima.” Inoltre qui – tutto legato a tecniche di agricoltura naturale – viene autoprodotto anche il vino: c’è un vignaiolo che cura la vigna e non ci si limita ad apporre una semplice etichetta del locale sulla bottiglia. Un mondo, quello di Erba Brusca, per riconciliarsi con l’universo della produzione. Altra bella storia da raccontare è quella di Rob de matt, locale nato con finalità sociali nel quartiere di Dergano, con il suo orto sinergico: un’occasione importante per coinvolgere gli abitanti di zona e chiunque in un percorso che porta il cibo sano dalla terra direttamente alla cucina.
“L’orto ci permette di rimanere legati a una dimensione del cibo più immediata, connessa alla stagionalità e alla cura della materia prima.”
Un altro rifiuto dei prodotti processati arriva dai ragazzi di Crosta, mastri panificatori con lievito madre, che scelgono solo grani antichi e macinati a pietra, abbandonando la raffinazione della farina, per il loro pane e la famosa pizza a pala; oppure la quota rosa di Aurora Zancarano con il suo micro panicifio Le Polveri: prodotti da forno che glorificano la tradizione e il mestiere del fornaio, sottolineando l’importanza e la dovuta rinascita dei piccoli produttori.
Infatti per fare una spesa oculata e consapevole bisogna tornare al mercato. Lo sa bene Giuseppe Zen, ideatore di Mangiari di Strada e Macelleria Popolare in Darsena. Una bottega 2.0 che straborda di costate, arrosticini, filetti, una macelleria dove trovare solo carni biologiche grass-feed e allevate al pascolo. C’è di più: troverete anche la sua rivendita di formaggi, Resistenza Casearia e il panificio, a completare.
Senza dimenticare il movimento dei vini naturali che riducono l’intervento dell’uomo in vigna e in cantina e il conseguente utilizzo di pesticidici e prodotti chimici. Tra le enoteche che ci piacciono di più: Champagne Socialist, Flor., Enoteca Naturale.
Un discorso a parte merita la crescente sensibilizzazione all’utilizzo di materiali eco-friendly. Con l’impennata dei delivery molti si sono trovati ad utilizzare materiali riciclabili, abbandonando la vecchia vaschetta d’alluminio, anche se i dati ci dicono che siamo molto indietro rispetto ai diversi paesi d’Europa. Attenzione allo spreco diventa il mantra anche di un’altra azienda, Too Good To Go, applicazione gratuita per acquistare a pochi euro il cibo rimasto invenduto in locali, bar, ristoranti e supermercati.
I locali e le persone che cercano di vivere e svolgere il proprio lavoro in maniera sostenibile non si esauriscono di certo qui. Questa lista è solo un punto di partenza per guardare avanti.