C’è una cosa che per prima andrebbe detta rispetto a NoLo. Passaparola. Per certi versi sintetizza un po’ tutto, malamente, ma lo fa. Sappiamo ormai che all’inizio il nome cominciò proprio così, similmente all’impresa adamica di nominazione. Ce l’ha raccontato Francesco che è stato proprio quest’Adamo, anche se un po’ involontariamente. Ma piuttosto che un giardino, lo spazio in cui comincia la storia è un bar di New York e i protagonisti sono tre buoni amici, che semplicemente cercavano di raccapezzarsi sul quartiere dov’erano andati ad abitare. Per scherzare, nasce NoLo. Nord Loreto. Una semplice indicazione. E che nessuno s’azzardi a usarlo in inglese a meno che non faccia esplicito riferimento al progetto di Bassi Maestro. Insomma, passano gli anni e la valanga del passaparola attecchisce. Non si dice più viale Monza, Pasteur, Ferrante Aporti, ma si dice NoLo, che trova un amalgama alla frammentarietà di quella zona che sembrava stare a corollario di viale Monza, tra Loreto e Sesto. Ma questo processo non si limita solo il nome. Possiamo dire che anche la strenua convinzione di vedere una balena tra i confini di questo quartiere è da ricondursi lì, al passaparola. Perché? Direte. Avete mai provato davvero a guardare da Google Maps NoLo? Davvero vi sembra una balena? Sapete che questa cosa nella psicologia della forma, figlia legittima della Gestalt, ha un nome preciso che è pareidolia? Che, per chi non lo sapesse, è quel meccanismo inconscio per cui riconduci forme abituali a cose che non ce l’hanno. Tipo quando vedete nitidamente il volto di Gramsci in una nuvola. C’è, ma lo vedete solo voi. Almeno all’inizio. Almeno finché un passaparola non convince tutti che quella nube di vapore è proprio il profilo del compagno Gramsci.
Diciamo allora che le peculiarità di NoLo sono almeno due. La prima è quella di essere riuscito nell’improbabile impresa di diventare un quartiere-suffisso. Non è per niente raro trovare attività che non sanno fare a meno di rimarcare l’appartenenza. Il buon Nolo.So di Gianni Macario e la bellissima Radionolo sono sicuramente i più noti, ma se chiedete scoprirete presto i tanti LaNolo (circolo di maglieria), GiraNolo (guida per il quartiere) e così via. La seconda, che poi è strettamente legata alla prima, è che NoLo esiste perché lo si è voluto. È un quartiere nato dal basso, con una vocazione di piazza che si è da subito riarrangiata sui social tenendo insieme la cittadinanza e valorizzando la cura del quartiere in un certo spirito di autonomia, di cui sia Radionolo che il NoLo Social District di Daniele Dodaro è esempio, un po’ come furono i comitati di via.
C’è la maestosità squisitamente moderna del Mercato Coperto, il primo di Milano, con una volta a botte alta come il cielo.
Ci sono poi delle bizzarrie architettoniche. C’è un castello in viale Monza. Con paracarri, archi a tutto sesto e draghetti, a due passi da Pasteur. Medievale, per l’esattezza neoromanico, che si chiama Ca’ de Sass. La casa dei sassi, sicuramente adeguato. Non lontano da lì, per gli intenditori, si nasconde in un piano nobile quello che fu il bordello privato Benito, proprio poco più in là di piazzale Loreto da dove lo vedeva al contrario. (Ah, e basta fare passeggiare per le strade per trovare le targhe dedicate ai partigiani.) Poi c’è la maestosità squisitamente moderna del Mercato Coperto, il primo di Milano, con una volta a botte alta come il cielo. Se qualcuno si chiedesse il perché un castello neoromanico conviva con l’architettura modernista degli anni Trenta, è perché fino ai primi Venti viale Monza era un borghetto rurale, quasi aperta campagna, con qualche abitazione, cascine, botteghe, i filari d’alberi e quelle meraviglie dell’Ippovia e dell’Omnibus, sogni di una modernità perduta e un po’ steampunk. Poi chiudiamo con la chiesa dei fratelli Castiglioni, una scappata ruvida nell’architettura del sacro e la finiamo qua.
In fondo il nome di NoLo si è diffuso come si addice a una realtà di piazza, dove tutti salutano e tutti dicono che i volti sono sempre gli stessi e ti fanno un sorriso che gli abbraccia la faccia per intero. E questa la dice lunga. Se mai qualcuno vi avrà invitato qua, sarà di certo stato un «Troviamoci in piazza Morbegno» «all’Arcobalena» «al Mercato Coperto». Ognuno di questi luoghi è permeato da quell’aria di paese. Cosa che a leggersi da un’altra parte sembrerebbe la solita storiella. Ma basta starci, o leggerci per capire che è vera. Se passate al Ghe Pensi Mi, dalle ragazze di Caffineria, da Nolo.So che inaugura la futura gay street oppure al Mercato, vedrete quei volti che passano in continuazione e in breve anche voi sarete tra quelli, parte di quel mosaico di belle facce in cui un’altra volta si disegna il quartiere. Idem al pingpong, dove i colori abbacinanti e il sole che v’aggredisce dall’orizzonte metallico della ferrovia non vi fermeranno dal perdere qualche match contro gli indiscussi campioni della piazza. Insomma qui non si ha bisogno di cellulari né di telefoni, si sa dove trovarsi. Che sia piazza Morbegno, tagliata dall’UNO, il parco Trotter, l’Arcobalena. A NoLo non si mangia il poke ma le orecchiette al sugo di castrato o il kebab, si fa l’aperitivo in strada con la birra ma non si disprezza un buon Negroni, si balla latino-americano ma anche la techno, la trap e la Carrà.
Che poi NoLo “quartiere dei creativi” nasce prima di NoLo. Quando Milano ancora non lo conosceva e gli affitti erano bassi, quando artisti, designer, architetti trovarono rifugio tra queste vie che ancora vestivano il termine inappropriato di “periferia”. Idem con patate NoLo “multietnica”, sedimentatasi in decenni di comunità coese, ma pure NoLo “Arcobaleno”, con le drag e la comunità LGBTQIAPK che da quasi vent’anni si scatena al Q in via Padova e da poco più di cinque si diverte da mamma La Boum all’Arizona, dove nella balera s’incontra un’italianità tutta imparruccata.
Le reti di cittadini s’accorpano come per palingenesi mettendo mano alla trasformazione del quartiere, cercando soluzioni alternative, senza assecondare i ghiotti appetiti della gentrificazione.
Diciamo che è per tutte queste storie tenaci che la gentrificazione a NoLo ha dei caratteri un po’ diversi. Certo, esiste l’espulsione, esiste la botta degli affitti, alcune realtà chiudono e si alza il costo della vita. È innegabile a meno che non siate stronzi, così come il fatto che quel nome nato un po’ scherzo ci ha involontariamente messo la sua. Ma tutto questo comincia immancabilmente dal basso. Le reti di cittadini s’accorpano come per palingenesi mettendo mano alla trasformazione del quartiere, cercando soluzioni alternative, senza assecondare i ghiotti appetiti della gentrificazione. Instancabile in questo senso è la zona tra Via Padova e il Trotter, come ci hanno raccontato gli amici di CURE e Tunnel Boulevard, una storia di pedagogia libertaria, la Casa Del Sole, che passa dal dirigibile Forlanini e Buffalo Bill fino al futuro hub sociale del convitto. Politiche dell’abitare e solidarietà di vicinato convivono tra i campetti di pallavolo nei locali e nelle strade, e fanno del parco Trotter un centro energico del quartiere.
Insomma, NoLo ha tutte le carte in regola per ripensare la città come un luogo che rifugge il centro preferendo i tanti all’uno. Si possono intravedere i presupposti di un quartiere che è una sorta di villaggio urbano, costruito su prossimità e vicinanze. D’altronde quella strenua conservazione di una rete solidale di cittadinanza attiva non molla, e s’infila in queste dinamiche virandole quando può. E questo ci potrebbe far pensare di dover introdurre un terzo escluso in questa dialettica città-periferia che appartiene alla gentrificazione, ovvero cercando di non schierarsi esclusivamente da una parte o dall’altra. Christian, che sa bene della scena di street art in zona, conosce il quartiere come le sue tasche, e con i tipi di Tunnel Boulevard intende produrre spazio pubblico, mi ha detto: «Non ci avrete mai». E io ci credo, perché qui il tessuto sociale non tentenna mai.
E se comunque da qualche parte rimangono sacche di antagonismi legittimi, che non hanno per niente tutti i torti ma vedono solo i problemi più citati, e idem quei trionfalismi che al contrario vedono poco, abbagliati da quel luccichio che troppo spesso si riduce – come sempre – a un’immagine da movida, sappiamo che la vocazione di un quartiere come questo, stretto in un buon vicinato, in perenne prossimità potremmo dire, non si gongola ma nemmeno esagera. Piuttosto s’immagina, in un gioco che a me fa pensare di coinvolgere da una parte Benedict Anderson con le sue “comunità immaginate” e dall’altra il grande Yona Friedman, che sapeva vedere le città immaginate solo passeggiando. E torniamo alla pareidolia.