Bas Smets è uno dei più importanti architetti del paesaggio contemporanei. I suoi progetti realizzati includono il Parc des Ateliers ad Arles, il parco di Thurn & Taxis a Bruxelles, lo spazio pubblico intorno alla Trinity Tower a Parigi La Défense, il Sunken Garden, il Mandrake Hotel a Londra e l’Himara Waterfront in Albania. Nel 2022 ha vinto il concorso internazionale per lo spazio pubblico attorno alla Cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Oltre che per i suoi progetti Bas Smets è conosciuto per il suo approccio, che integra un ascolto scientifico del contesto con l’immaginazione di trasformazioni sorprendenti. Il suo lavoro infatti rivela una concezione del rapporto tra individuo e paesaggio -ma anche tra progettista e realtà- che è uno dei veri punti di forza dei progetti del suo studio. In questa intervista ce ne parla, raccontando le sue esperienze e il suo punto di vista sul mestiere di modificare, temporaneamente, la realtà.

«Il paesaggio è un’invenzione. È un modo di vedere le cose.»

Come sei diventato un architetto del paesaggio?

Ripensandoci ora, sembra che sia stato un processo naturale e inevitabile, ma è stato in realtà piuttosto lungo. Ho iniziato con l’architettura, l’ingegneria architettonica, poi ho studiato architettura del paesaggio all’Università di Ginevra. Sono sempre stato interessato alla progettazione dello spazio pubblico, e mi sono sempre posto la stessa domanda: come vivere insieme? Come vivere su questo pianeta? Come occupiamo lo spazio come esseri umani? Come garantiamo spazio agli altri organismi viventi? Quindi l’organizzazione del pianeta come area vivibile per diversi organismi, credo sia qualcosa che mi è sempre stato vicino. L’architettura del paesaggio è forse la professione che corrisponde maggiormente a questa domanda. Potrei quindi dire che sono diventato un architetto del paesaggio a partire da questa domanda quasi filosofica.

 

Restiamo sul filosofico allora: pensi che la nozione di paesaggio nasca dall'architettura o da altre discipline?

Ho realizzato una mostra su questo tema, intitolata The invention of landscape, nel 2016 a Bruxelles. In quella mostra emergeva come la nozione di paesaggio sia stata inventata per parlare di un nuovo tipo di pittura. Sto parlando per l’Europa occidentale, non per l’intero pianeta. È stato inventato nelle pianure, nei Paesi Bassi, e fondamentalmente quando i pittori fiamminghi o olandesi sono andati in Italia, hanno imparato la prospettiva e l’hanno applicata a scene di esterni. Ritagliavano una finestra dal dipinto ed esploravano o inventavano paesaggi, anziché dipingere ciò che vedevano. Usavano la prospettiva come un nuovo modo di organizzare gli elementi del paesaggio. Il paesaggio comincia come invenzione e come organizzazione dello spazio. È un modo di vedere le cose. Alain Roger, un filosofo francese, ha scritto che il terreno [land] è il punto di partenza, è ciò che c’è, e il paesaggio [landscape] è un modo di vederla, un modo di percepirla. E dice che è necessario un processo culturale o un intervento artistico per trasformare la terra in paesaggio.
Per me il paesaggio non è legato direttamente all’architettura, anche se si chiama “architettura del paesaggio”, ma è più legato a questo processo culturale o a questo intervento artistico che trasforma l’esistente in qualcosa di nuovo. Si tratta sempre di trasformare l’esistente. E credo che questa sia la vera radice dell’architettura del paesaggio: trasformare ciò che c’è. Per farlo è necessario comprendere i processi di trasformazione che portano al futuro, che trasformano la terra in un paesaggio.

Infatti collaborate con artisti e ancor più con figure tecniche o scientifiche per i vostri progetti, come funziona questo processo?

In questa idea di capire cosa c’è e cosa è possibile, abbiamo bisogno di una conoscenza più ampia possibile. Siamo interessati quindi la scienza per poter capire meglio. Ad esempio una lettura microclimatica di un sito. Abbiamo bisogno di misure, di un approccio scientifico, ma anche di sapere come funzionano le piante. Lavoriamo con un tuo connazionale, Stefano Mancuso, da anni ormai, dal 2016. Abbiamo discusso delle sue ricerche, delle nostre idee e abbiamo cercato di combinare le ricerche e le scoperte che ha fatto nel nostro progetto. Ritengo sia una collaborazione molto stimolante. Allo stesso tempo, abbiamo bisogno di guardare alla realtà in modo diverso, quindi ci rivolgiamo agli artisti. Da anni lavoro con Philippe Parreno, ma collaboro anche con Carsten HollerRoni Horn e molti altri. L’arte è qualcosa che cambia la propria coscienza, che trasforma lo sguardo sulle cose; è un’idea a cui mi sento legato. Allo stesso tempo, per parlare di nuovo di un compatriota, da anni discuto con Emanuele Coccia perché quando scrive della vita delle piante, del vedere il mondo attraverso l’esperienza di una pianta, ritengo che quello sia uno sguardo molto utile per quello che facciamo. Cerchiamo di lavorare all’incrocio tra scienza e arte.

I tuoi progetti di paesaggio vanno da un piccolo cortile a un piano strategico a livello regionale. Come scegli i progetti su cui ti interessa lavorare?

Non è definito dalla scala proprio perché ciò che mi interessa è il processo di trasformazione dell’esistente in paesaggio, del terreno in paesaggio. E questo è un tipo di desiderio che non ha scala, può essere un cortile, può essere un’autostrada.

Qual è il progetto che ti ha divertito di più fare fino a oggi?

Forse il più strano, in un certo senso. Ci ho ripensato di recente: è stato a Londra, quando ho realizzato il cortile di un hotel. Il proprietario dell’hotel mi chiamò e mi disse: «Voglio che tu faccia il giardino dell’Eden come se fosse visto sotto acido». Ho pensato che si trattasse di una sfida, perché il Giardino dell’Eden di per sé è una cosa piuttosto complessa. Ma poi il Giardino dell’Eden sotto l’effetto di droghe… cosa significa, un giardino sotto l’effetto di droghe? Ho pensato che fosse un bell’inizio. Mi è piaciuto il suo modo di definire il brief, e abbiamo elaborato un progetto molto sorprendente, piantando 500 piante rampicanti nelle travi, che sorreggono le terrazze intorno al cortile. È un paesaggio molto strano. Non so se si tratta di un giardino dell’Eden o di droga, ma il cliente è stato molto soddisfatto. E per questo progetto abbiamo vinto il premio per il miglior paesaggio di hotel, un paio di anni fa. Mi piace tutt’ora pensare a come quel suo desiderio iniziale, compresso in una frase completamente astratta, sia diventata un organismo vivente che continua a produrre la sua specifica realtà.

In alcuni progetti, come il Sunken Garden di Londra, combini elementi climatici e artistici, come la nebbia o gli specchi. Parti da una visione artistica del sito o da una visione climatica?

È stata davvero una sfida perché si trattava di un cortile infossato. Non c’era sole, non c’era vento. Ho pensato che per trasformarlo in un paesaggio dovevamo capire le qualità microclimatiche del sito. Ho avuto la sensazione che ci fosse un microclima diverso perché era così protetto e c’erano così tante finestre intorno, e ho pensato che ci potesse essere una dispersione di calore. Era un edificio del XVIII secolo, con vecchi infissi. Quando abbiamo analizzato la temperatura, abbiamo capito che c’era un microclima simile al sottobosco di una foresta tropicale. Abbiamo costruito il paesaggio che corrisponde a quel microclima. L’approccio scientifico ci ha insomma mostrato cosa potevamo fare. Abbiamo quindi piantato delle felci arboree che ora sono molto grandi – Dixonia, Antartide – e producono il loro specifico microclima. Questo è stato il nostro primo progetto climatico, ormai 13 anni fa (nel 2010).

Nel progetto del Pearling Pathway in Bahrein, hai utilizzato alcuni elementi della cultura del luogo, come le conchiglie di ostriche della pesca alle perle. In questo caso, avete invece voluto incorporare un elemento del paesaggio culturale, oppure avete trovato questo materiale in un altro modo?

Questo progetto è stato realizzato insieme a David Van Severen e Kersen Geers. Abbiamo deciso, visto che lavoravamo per la prima volta in Medio Oriente, di non importare un’idea europea in Medio Oriente e di non fare una sorta di design arabo. Volevamo che fosse specifico ma non improntato culturalmente. Il brief prevedeva la realizzazione di un percorso che collegasse 17 edifici legati al Pearling. Il Pearling è stata l’attività principale del Barhain fino al 1950: gli uomini si immergevano a prendere le ostriche e le donne le aprivano in cerca di perle. Quest’attività finì quando i giapponesi scoprirono come produrre perle sintetizzate. Quel che rimaneva nella città di Muhurraq erano la casa del capitano, la casa dove si pulivano le ostriche e la casa dove si riparavano le navi, e tutte queste case erano collegate dalla filiera di lavorazione delle perle. Abbiamo pensato: possiamo usare la madreperla nel cemento? E dato che non piove o piove poco, potremmo fare un calcestruzzo lucido che esponga la madreperla. Abbiamo realizzato un materiale specifico, molto preciso, per quel progetto, ed è questo che mi è piaciuto. I pavimenti, le sedute, gli elementi d’acqua, persino il palo della luce sono tutti realizzati con lo stesso cemento che abbiamo realizzato appositamente per quell’occasione.
E poi, naturalmente, abbiamo considerato l’approccio climatico. Possiamo portare degli alberi? Possono fare ombra? Possiamo creare un migliore comfort esterno, soprattutto in estate, rispetto a quello attuale? È in questo senso che non cerchiamo di importare o esportare un design ma di applicare piuttosto una metodologia.

In effetti, avete lavorato in diversi continenti, in contesti completamente diversi, e ogni luogo, ogni cultura, ha un rapporto diverso con il proprio paesaggio: un uso diverso dello spazio pubblico, un'estetica diversa. Come cambiate il vostro approccio quando affrontate questi progetti?

Non cambiamo l’approccio. L’approccio è la metodologia. E la metodologia consiste nel comprendere il sito, le condizioni microclimatiche del luogo, la cultura e la storia del sito, per poi trovare il modo giusto di trasformarlo. L’approccio non è il progetto. Il progetto è il risultato dell’approccio. È più che altro la metodologia che è sempre la stessa e con cui ci sentiamo a nostro agio. Perché per me è un approccio senza tempo, nel senso che stiamo facendo solo la prossima trasformazione. Non pretendiamo di realizzare un progetto definitivo. Stiamo solo cercando di apportare un nuovo cambiamento. E tra 100 anni qualcun altro prenderà quello che abbiamo fatto, lo interpreterà come un punto di partenza e lo cambierà. E a noi va benissimo così. Pensiamo di essere, in questo senso, in una posizione umile in cui cerchiamo di migliorare le cose senza pretendere di renderle definitive.

Hai parlato di condizioni microclimatiche, che tipo di analisi esegue quando inizia un nuovo progetto?

Si inizia facilmente, si parte dal vento e dal sole, che si possono trovare facilmente, ma poi si guarda anche all’umidità, alla temperatura superficiale, alla riflessione. Cerchiamo di ottenere una comprensione sempre più precisa dei diversi microclimi. Ad esempio, quando abbiamo lavorato ad Arles, lo schema di piantumazione si è basato sull’orientamento: quali piante sono rivolte al sole e quanto quelle stesse piante ne necessitano, quanto vento proviene e da quale direzione. Abbiamo insomma cercato di capire cosa avrebbe fatto la natura nei 200-300 anni successivi e abbiamo cercato di accelerare i processi naturali.

Credi che l'immagine di un paesaggio, magari mediata dalla fotografia, dal cinema, dalle cartoline o altro, influenzi il modo in cui un territorio si sviluppa poi, nel mondo reale?

Certo, proprio attraverso questo processo di trasformazione del territorio in paesaggio. Il modo in cui si guarda il paesaggio è il modo in cui lo si usa, il modo in cui si vuole che diventi, e il modo in cui lo si valuta; ci sono persino studi scientifici che dimostrano che il modo in cui si guardano le cose cambia il modo in cui le cose stesse sono. Assolutamente. Penso che ciò che vediamo e pensiamo del paesaggio, e quel che diventa siano processi molto correlati. È una profezia che si autoavvera.

Forse questo si ricollega a uno dei tuoi progetti recenti di cui vorrei parlarti, perché state realizzando gli spazi pubblici della Cattedrale di Notre Dame, uno spazio che ha un'enorme importanza mediatica e simbolica. Qual è il tuo approccio a questo progetto?

Io sono il team leader, il mandataire, come lo chiamano loro, di un team più grande con ingegneri climatici, architetti, ingegneri civili, light designer. È importante sapere che è un’intelligenza collettiva quella che abbiamo messo insieme per pensare questo progetto e quello che volevamo fare. La nostra ambizione era quella di ripensare lo spazio pubblico intorno a Notre-Dame da un doppio punto di vista, climatico e collettivo, per far sì che i visitatori abbiano esperienze diverse: non solo andare nella piazza principale e fotografare la facciata occidentale, ma girare davvero intorno alla cattedrale e scoprire questo monumento in tutto il suo splendore, sia per i visitatori che per gli abitanti di Parigi. Riscoprire, trovare nuovi usi, nuovi modi, nuovi motivi per venire sul posto. E in secondo luogo, da un punto di vista climatico, pensare a come utilizzare il vento che arriva con la Senna, che è rinfrescante. Come bloccare il vento dietro la cattedrale, dove la gente fa la fila per visitare le torri, come usare gli alberi per creare evapotraspirazione e abbassare la temperatura percepita. Ripensare lo spazio pubblico è un modo per creare e migliorare il nostro clima. E queste due missioni hanno sempre in mente l’idea di valorizzare Notre-Dame, di trovare nuovi modi per scoprirla e di collegarla meglio alla sua posizione su un’isola della Senna. Si tratta di un monumento che si trova nel punto più basso della città, nel vero epicentro in cui i Romani avevano costruito il primo incrocio che è ancora oggi importante. L’idea è quella di capire che facciamo parte di una storia di 2000 anni e cerchiamo di modificarla, trasformarla e renderla pronta per alcuni degli anni a venire.