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Dentro e fuori la Biennale

Le calli impregnate d'arte: guida per destreggiarsi tra le migliori mostre a Venezia

Scritto da Rossella Farinotti il 19 aprile 2022

Pauline Curnier Jardin, Fat to Ashes, 2021. Installation view at the Hamburger Bahnhof, Berlin. Courtesy of the artist. © Mathias Völzke

Venezia è una meta che riserva sempre stupore e sorpresa. Anche per chi ci va da anni, per chi ci è cresciuto osservandola da ospite esterno o per chi la gusta a momenti alterni. E’ un luogo decadente e luminoso; vivissimo di giorno e quieto di sera. È la città di tanti immaginari culturali. Il luogo dove Visconti ha deciso di girare Senso nel 1954, e Morte a Venezia nel 1971: l’opera tratta dal romanzo di Thomas Mann ambientato in una Venezia misteriosa, sulle rive del Lido, in attesa che il colera dilaghi anche in quei luoghi. “Un’avventura dell’intelletto più che dei sensi, la realizzazione del bello assoluto, di un ideale irraggiungibile…” ci racconta il regista.

Proprio lì, in Laguna, pare infatti di cavalcare un’avventura, in balia di eventi nuovi e posti mitici come l’Hotel des Bains, o frivole mete di ritrovo di intellettuali e artisti come il Caffè Florian e l’Harry’s Bar. Ecco, la Biennale parte da questa impostazione di sensi: dal nuovo da scovare all’interno di un tessuto storico, che già si conosce, ma che vanta sempre qualche dettaglio inconsapevole. In questo aprile 2022 si apre la nuova edizione della Biennale di Venezia, la 59esima. È un momento estetico e politico necessario dopo due anni particolari, che hanno incapsulato idee ed energie che stanno straripando grazie agli artisti che tracciano la Laguna, dentro e fuori l’Arsenale e i Giardini.

The Milk of Dreams/Il Latte dei Sogni è il titolo di questa edizione curata da Cecilia Alemani che, già dal nome, tratto dal romanzo di Leonora Carrington, attiva una poetica d’altri tempi per scandagliare il presente, giocato sul passato e – vedremo – su qualche visione del futuro. Iniziamo proprio da qui, da un grandissimo luogo del passato che torna in vita nel presente dopo più di 500 anni nel fulcro di Venezia, a piazza San Marco: il palazzo delle Procuratie vecchie – quello che, per intenderci, accoglie sotto uno dei portici, il mitico negozio di Olivetti firmato da Carlo Scarpa, – e che ha appena inaugurato grazie a Assicurazioni Generali che ha intrapreso un grande il lavoro di restauro chiamando lo studio milanese di David Chipperfield Architects. Il luogo si annuncia come portatore di densità, basti pensare a tutte le mostre e gli eventi che accoglierà per questa rinascita: per prima Louise Nevelson con la retrospettiva dal titolo Persistence che ripercorre alcune tappe dell’opera della scultrice di origine ucraina – ma americana di fatto – in un luogo prezioso. Per vedere la mostra della Nevelson, curata dalla Galleria Giò Marconi – Fondazione Marconi, che detiene parte degli Archivi dell’artista, e Pace Gallery, si dovrà passare attraverso i corridoi dove è esposto un progetto umanitario globale di cui Generali è fondatore e ha scelto le Procuratie come sede principale, The Human Safety Net. All’ingresso – nella restaurata Corte Maruzzi – s’incontra l’opera installativa permanente firmata da Edoardo Tresoldi, che riprende l’estetica della colonna antica, e si prosegue all’interno di The Art Studio, con la mostra, curata da Gabi Scardi, dell’Atelier dell’Errore, dal titolo CHUTZPAH. Una tenda che non è una tenda, animali che non sono animali. Si tratta di un importante allestimento dal forte impatto sia concettuale che visivo, che mette in dialogo una selezione di opere realizzate Atelier dell’Errore (AdE), “fondato nel 2002 a Reggio Emilia da Luca Santiago Mora con l’intento di mettere la pratica artistica al servizio della neuropsichiatria infantile”.

Carichi di queste diverse energie che Procuratie può aver restituito, un passaggio al già citato Negozio Olivetti è d’obbligo per sbirciare la mostra che pone in dialogo Lucio Fontana e Antony Gormley, realizzata dall’Archivio Fontana con Galleria Continua e l’appoggio del FAI. Gormley sarà poi in mostra nella sede principale della Continua a San Gimignano, con opere tutte inedite, proprio dal 23 di aprile. Un’altra galleria privata di stanza a Venezia, A plus A,  ha da poco inaugurato la personale di Ruth Beraha che, citando il titolo, “chiameremo tempesta”We will name her tempest è coordinata anche dalla galleria milanese Ncontemporary. Anche la galleria Alberta Pane inaugura in questi giorni I Owe You, bipersonale di Claude Cahun e Marcel Moore, con lavori selezionati da Silvia Mazzucchelli e una performance di Marcos Lutyens il 21 e 22 alle 19.00. Mentre non mancherà la mostra della School for Curatorial Studies dal titolo Non Playable Character che, in collaborazione con The Fairest (iniziativa berlinese), portano i lavori di 30 artist* sulle declinazioni del significato dell’esistenza umana.

Ironico e sperimentale è il padiglione situazionista creato da Salotto Studio: la prima sagra del Memeriello sarà attivata da giovedì 21 a sabato 23 – dalle 23.30 alle 2.00 e sabato dalle 18.00 alle 21.00 – per assaggiare pizze speciali come la “crudo e rimpianti” o la “glitch e friarelli”, insieme alle “specialissime” create da Eva Fabbris e Valerio Nicolai, o da Milovan Farronato e Lukas Heerich, tra gli ospiti pizzaioli invitati. Tutti a mangiare pizza a Campo Santa Margherita presso i locali di Pizza al Volo.
Una certa attitudine situazionista è anche quella de Il Gazzettino The Kiosk in via Garibaldi dove, per il solo pomeriggio del 21 aprile, lo Studio Lukas Feireiss & Friends trasformerà la storica edicola in una piattaforma per magazine indipendenti e libri d’artista. Tra gli invitati al progetto anche i Parasite 2.0., che ritornano a Venezia dopo l’invito alla Biennale di Architettura del 2012. 

La Biennale dunque non solo come luogo di visione o di attivazione di pensieri e sensi, ma anche come incubatore creativo e laboratorio del fare. Quel micromondo sperimentale che Venezia ha sempre rappresentato, come hanno dimostrato negli anni artiste e artisti dagli approcci più disparati e dalle storiche azioni ormai notorie, ma ai tempi naturalmente spiazzanti. Si pensi alla storica, toccante performance di Regina José Galindo nel 2002, o a quando, nel 1966 Yayoi Kusama installò 1500 sfere specchianti –  ognuna in vendita per due dollari – davanti al Padiglione Italia: un’azione performativa cinicamente intitolata Your Narcisism for Sale. Un atto cattelaniano ante litteram, dato che Maurizio nel 1993, invitato per la prima volta alla Biennale da Francesco Bonami, crea un’azione di fuga personale attraverso l’installazione dal titolo Lavorare è un brutto mestiere, affittando lo spazio espositivo a una ditta di profumi. Un’azione critica o un escamotage? Entrambi i casi hanno attivato un’ironica consapevolezza dell’arte come prodotto.

Chissà quali azioni irriverenti saranno messe in atto quest’anno. Sicuramente qualche bella sorpresa la riserveranno artiste e artisti giovani – si vocifera di un’importante installazione di Giulia Cenci all’Arsenale – e mostre collettive che tracciano il terreno fuori dall’ambito Biennale. Come il progetto di OGR al Complesso dell’Ospedaletto, dal profetico titolo ALLUVIUM con Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh e Hesam Rahmanian a cura di Samuele Piazza, o la prima mostra realizzata da in Between Art, Penumbra, che ha scelto come sede l’Ospedaletto e la Chiesa di Santa Maria dei Derelitti; o ancora la collettiva sull’artigianato e sul fatto a mano da pochissimo inaugurata a Fondazione Cini sull’Isola di San Giorgio – ricordiamo la straordinaria mostra di Burri realizzata durante la scorsa edizione della biennale e che in qualche modo ritorna in Fondazione con On Fire – e in altre sedi, Homo Faber: Crafting a more human future. Per giungere qui c’è un chiaro segnale di accoglienza: una scultura realizzata da Ugo la Pietra con la Scuola Mosaicisti del Friuli (Spilimbergo, Pordenone) e il supporto di Fondazione Pietro Pittini. Dunque il percorso è bilanciato tra passato e presente? Sembrerebbe di si. Anche grazie alla rosa femminile di nomi che spaziano dalla speciale Joséphine Baker, cantante storica e musa di tanti intellettuali e artisti dei primi del novecento, (Usa 1906 – Parigi 1975), fino a  Miriam Kahn (Basilea, 1949), parallelamente in mostra anche presso Fondazione ICA a Milano, a cura di Alberto Salvadori e Luigi Fassi, passando per il duo Goldschmied & Chiari (Sara Goldschmied, 1975 – Eleonora Chiari, 1971) in mostra al Padiglione Venezia e giungendo a Simone Leigh (Chicago, 1967) a cui è dedicato l’intero Padiglione degli Stati Uniti, dal titolo Sovereignty a cura di Eva Respini dell’Institute of Contemporary Art di Boston. Non solo donne sono invitate alla biennale naturalmente, come dimostrano il Padiglione Italia che ospita il progetto di Gian Maria Tosatti (Roma, 1980) a cura di Eugenio Viola, o, sempre per rimanere in un ambito italiano, l’opera video di Diego Marcon presente nel Padiglione Centrale, The Parents’ Room, una virtuosa rappresentazione della realtà dichiarata attraverso il linguaggio cinematografico dell’artista. Il film fa parte di un progetto speciale nato nel 2020 e ha visto l’inclusione di diverse realtà, dal Madre di Napoli di cui è diventato parte della collezione, fino alla partecipazione di altri artisti, come Federico Chiari che ha realizzato le musiche.

Sempre sul filo del presente le tante nuove Repubbliche che hanno per la prima volta un loro padiglione tra cui, degna di nota, quello dell’Uzbekistan, che ha puntato tutto sulla qualità e freschezza sofisticata di curatori e artisti invitati. Si tratta di un pensiero collettivo che sfocerà anche in una serie workshop organizzati con il Centro per l’arte contemporanea di Tashkent. Il padiglione dell’Uzbekistan è curato da Studio Space Caviar – di cui fanno parte Joseph Grima, Camilo Oliveira, Sofia Pia Belenky e Francesco Lupia – insieme a Sheida Ghomashchi. Gli incontri laboratoriali saranno attivati insieme al lavoro collettivo di Zufarov e Charli Tapp dal chiaro e suggestivo titolo Dixit Algorizmi – Il Giardino della Conoscenza

Fuori dall’ambiente dei Giardini e dell’Arsenale, si aprono le porte anche luoghi veneziani privati e domestici. Questa è un’azione che poteva realizzare solo una realtà come quella di Case Chiuse by Paola Clerico che ci farà scoprire, in zona Castello, il cortile di Casa Venezia, residenza dei collezionisti Massimo Adario e Dimitri Borri che ospiteranno la mostra Something Out of It di Tomaso De Luca (Verona, 1988) vincitore del Premio MAXXI Bulgari 2021. La mostra si svolge parallelamente in un’altra peculiare sede: il parlatorio di una prigione femminile, con un lavoro di Pauline Curnier Jardin, e tutto il progetto è curato dal duo Francesco Urbano Ragazzi. In Piazzetta San Marco riapre l’accesso al Museo Archeologico Nazionale di Venezia che affaccia sul cortile cinquecentesco, opera di Vincenzo Scamozzi, e che accoglie la mostra di Marc Quinn HISTORYNOW a cura di Aindrea Emelife e Francesca Pini. E per chi arriva e chi parte in aereo, una grande sorpresa all’aeroporto privato Giovanni Nicelli con due mostre di Nilufar Gallery.

Anche il Cinema Multisala Rossini, un altro luogo poco noto ai non veneziani, si apre a un progetto inedito, grazie a Palazzo Grassi, Punta della Dogana e Pinault Collection, firmato da Wim Wenders (Dusseldorf, 1945). Si tratta di una nuova installazione dal titolo “PRÉSENCE” che esplora l’universo espressivo dell’artista  Claudine Drai (1951, Parigi). Al cinema sarà possibile vedere il film di 38 minuti, presso ACP – Palazzo Franchetti, invece, è in scena la mostra in dialogo al progetto.

Da Visconti a Wenders. Dall’estetica poetica e drammatica del Lido, al pensiero attuale politico in perpetua ricerca di romanticismo che si evince dal titolo del Padiglione Italiano, Storia della notte e destino delle comete, che, magari, ci accompagnerà in questo percorso veneziano.