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Il basket nel campetto al cortile Sammartini

Al fianco del massicciato ferroviario, sotto le cucine e i salotti di teneri e rigidi condomini, c’è un campetto dove tutti conoscono nessuno, eppure si gioca 

quartiere Centrale

Scritto da Néstor Shami il 13 febbraio 2022
Aggiornato il 25 febbraio 2022

Foto di Niccolò Rastrelli

Hai appena sceso i ripidi scalini del pianerottolo e ti accorgi di aver lasciato accesa la luce in camera. Torni indietro, solleticando quella tua vocazione ambientalista che va a intermittenza sulle piccole cose, la spegni e poi riesci in cortile. C’è un pallone un po’ sgonfio, lo è sempre stato in verità, ma oggi lo sembra più del solito. Sarà il caldo. O il tempo. Apri Spotify metti in riproduzione una delle sei canzoni ricorrenti che stai ascoltando da ormai un mese, è Tom Misch in featuring con Freddie Gibbs. Quello è il mood giusto, perché il campo da basket in Sammartini è innanzitutto un’oasi per introversi, ed è lì che stai andando.

Passando per Stazione Centrale, la si vede innalzarsi come una sfinge metallica, come un colosso abbandonato di un sonetto di Percy Shelley. Prima di svoltare a destra noti che la gelateria Sartori ha meno fila del normale. Potresti prendere una granita al mango. Ma anche un frappé. Anche un gelato servito a spatola, come le vecchie leve. Ma non conviene riempirsi lo stomaco prima di qualche canestro. 

Il campo da basket in Sammartini è innanzitutto un’oasi per introversi.

Sotto un cielo azzurro liquido, costeggi le mura austere della stazione passando davanti alle tetre vetrate del Memoriale della Shoah, presidiato da un gruppetto di militari che sta parlando di qualche calciatore costato un sacco di soldi ma che non sta facendo chissà ché.  È il momento del cavalcavia in Lunigiana, che come al solito rimbomba con le vibrazioni di un traffico rumoroso e disordinato. Dai binari sovrastanti ogni tanto si sentono i cigolii del metallo in frizione. Il sottopasso è sorretto da una dozzina di colonne lunghe e snelle, impreziosite da capitelli ionici. Questo dettaglio ti riempie di un’eccitazione infantile, ogni volta. Te ne sei accorto in quarantena, durante una di quelle passeggiate che si facevano per rimanere sani. Ti eri soffermato e avevi fatto una story su Instagram in cui le linee aggraziate del capitello coesistevano con grossi tubi industriali. Ti eri sentito molto concettuale.

Sai anche che il campo da basket di Sammartini, di per sé, non ha niente di particolare. È un campetto da basket come tanti altri. Incastonato tra i palazzi rigidi degli anni della produzione industriale, ai piedi dei balconi, o in questo caso prostrato al massicciato ferroviario, a stridere assieme. Superato il sottopasso e lo smog che ti ha già abbassato l’aspettativa di vita, sbuchi in via Giovanni Battista Sammartini. Di fronte a te c’è un benzinaio, lo vedi subito: è colorato e anacronistico, con loghi di compagnie petrolifere che sanno di anni Ottanta. In una delle vie che si diramano alla tua destra c’è via Gluck, celebre soltanto perché Celentano ci ha cantato sopra una canzone. Ma non è che lo hai mai ascoltato veramente. Alla tua sinistra cominci a intravedere il campetto e, in una prospettiva perfetta, il profilo del Pirellone che si staglia imponente e longilineo.

Il campo è abbracciato da un lato da blocchi condominiali teneri e allo stesso tempo iugoslavi, con finestre tutte uguali che si alternano simmetriche e monotone, da cui ogni tanto si affaccia un cane iperattivo. Dal lato opposto il fianco murario del serpente ferroviario, il collo della testa di Centrale solcato di tanto in tanto dagli addetti ai binari o dai funzionari Trenitalia, tutti a passo veloce e ingobbiti. Pensi sempre che le divise dei macchinisti di Italo sono le migliori. Forse sono soltanto più modaiole e meno vecchie, quelle giacche rosso rubino accompagnate dalle cravatte regimental.

Un’altra frase appropriata: al campo da basket in Sammartini, se fai bene attenzione, non riconosci mai nessuno.

Con il piede dai una leggera spinta al cancello in ferro e ti incammini verso una delle panchine. Un bambino sta giocando nella metà campo opposta, lo riconosci ma non ti ricordi mai il nome, viene spesso con la sua famigliola asiatica che probabilmente abita in uno di questi palazzi. Ecco che infatti sua madre ti saluta prima di richiamare il marmocchio all’ordine, tutto senza particolare impegno. Alzi la mano e ricambi. Sono le uniche persone che sei quasi sempre sicuro di trovare.

Un’altra frase appropriata: al campo da basket in Sammartini, se fai bene attenzione, non riconosci mai nessuno. C’è così un parallelo calzante con la stazione a pochi passi, ovvero che quando frequenti questi luoghi non sai mai chi ti capita. Puoi essere da solo e farti due tiri, mentre il panorama suburbano e il cielo liquidato ti ricordano il tempo speso alla ricerca di qualcosa. Oppure puoi fare un uno vs uno con un ragazzo coreano che è qui in Erasmus. Non lo rivedrai mai più. Puoi organizzare una partitella con tre arabi in jeans che passano di lì, forse li rincrocerai in Duca d’Aosta e se sei fortunato abbastanza da ricordarli, li saluterai con un cenno della testa. Tutto senza troppo impegno. Puoi ritrovare un ragazzo alto e riccioluto con cui avevi giocato tempo addietro, ricordando una partita molto intensa con una rappresentanza filippina decisamente tecnica. Dice di essere stato sotto esami e che non è più riuscito a venire, ma ora che ha finito ritornerà con la frequenza di prima. Lo rivedrai tra un mese.

Ultimamente ci sono diversi brand di moda emergente, urban, dicono, che si ritrovano con la stessa frequenza di tutti a scattare foto al Sammartini. Modelli e modelle che fanno finta di giocare, che si siedono su un canestro, sotto gli sguardi allibiti e teneramente impietiti dei quattro giocatori che aspettano il giocoDicevamo: il campo da basket di Sammartini, nonostante sia letteralmente il cortile di tante case, il playground sotto ai salotti e alle cucine, è un luogo di passaggio in cui tutti conoscono nessuno.

È il tuo momento. Posi il telefono e ti togli le cuffie. Tiri fuori il pallone e lo fai rimbalzare un paio di volte. L’altra sera mentre perdevi tempo su YouTube hai visto una compilation di tiri da tre da metà campo di Lillard. Improvvisi una fase di stretching per addurre quel tiro a una finta freddezza muscolare. Hai i piedi già sulla linea, fletti le ginocchia e carichi un tiro pieno di megalomania. Non prendi nemmeno il canestro. La palla rimbalza oltre la recinzione con un tonfo imbarazzante. Un classico. Un macchinista di Trenitalia che sta camminando lungo i binari ha visto tutto, lo sai. Forse è ingobbito per quello.