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Manuele Colonna

Nel 2001 l'apertura del Ma Che Siete Venuti a Fa', nel 2016 la nuova avventura di Be.Re. Nel mezzo, la rivoluzione del mondo birrario di un'intera città. Con Manuele Colonna abbiamo ripercorso gli ultimi 15 anni di malto e luppolo a Roma.

Scritto da Nicola Gerundino il 15 dicembre 2016
Aggiornato il 17 febbraio 2017

Negli ultimi 15 anni siamo passati dal bere una birra all’orientare le uscite serali in base a dove si possa bere birra buona e di un certo tipo. E se la birra artigianale – o “craft”, per dirla all’anglosassone – da perfetta sconosciuta è diventata a Roma un’assoluta protagonista che attorno a sé ha visto crescere un mercato in ascesa costante, lo si deve anche – anzi, soprattutto – a un locale nato nel 2001 tra i vicoli di Trastevere, «un cesso di posto!» (cit.) con uno dei nomi meno “market-friendly” della storia: Ma Che Siete Venuti a Fa’. Abbiamo ripercorso questi tre lustri con Manuele Colonna, che 15 anni or sono (non) sollevò la serranda del Ma Che per la prima volta, in una chiacchierata fiume che da racconto amarcord si è trasformata in un’analisi tout court del mondo della birra artigianale, con scenari futuri a tinte piuttosto fosche. Buona lettura e arrivate fino in fondo, che ne vale la pena.
makke

 

Per molti che abitano a Roma, ma non solo, il primo contatto con la birra artigianale è avvenuto al Ma Che Siete Venuti A Fa’. Il tuo quando e dove è avvenuto? C’è stato un mentore?
Guarda, è stato un discorso che è andato avanti per gradi. Giocoforza, 15 anni fa non c’era il palcoscenico che c’è adesso, dove si inizia a bere birra artigianale nei posti più sperduti: ora l’artigianale a Roma è diffusissima, non c’è solo più il Ma Che, ma 200 posti. In ogni caso, all’epoca il primo contatto, non tanto con la birra artigianale ma con un approccio diverso alla birra, c’è stato a Le Bon Bock. A me è sempre piaciuto bere qualcosa di diverso: 20 e passa anni fa avevo già fatto le prime esperienze con la Cuvée de l’Ermitage e a casa collezionavo bottiglie e robe varie. A Le Bon Bock Stefano Carlucci serviva la Andechs Heller Bock facendo una spillatura in tre tempi alla tedesca: al tavolo ti arrivava una birra che allora era favolosa! Poi Andechs ha ampliato un po’ il tutto e la sua birra ha perso di carattere, ma all’epoca era un qualcosa di straordinario, buona e bella. Lì è nato il vedere la birra in modo diverso, non solo dal punto di vista estetico – perchè quella birra si presentava in modo fantastico, con una schiuma bella, pannosa, solida – ma anche dal punto di vista del gusto, perchè in bocca aveva un sapore particolare, con poco gas, poca CO2. Era veramente buona. Quello è il primo ricordo che ho in cui l’aspetto commerciale si legò a quello gustativo.

Il monastero di Andechs dove è nata l'omonima birra.
Il monastero di Andechs dove è nata l’omonima birra.

È stato uno di quei passi da cui non si torna più indietro?
Sì, esatto. A quel punto dici: «Ok, la potenzialità di una birra è questa e ora?». Inizi a pensare che tutti bevono birra, ma nessuno la conosce: 15 anni fa è stato proprio questo il nostro motto. Poi, piano piano, facendo questo lavoro ti si aprono delle porte: conosci gente come Kuaska (Lorenzo Dabove, istituzione della prima ora del mondo birrario italiano, soprannominato Kuaska, nda), partecipi alle fiere, vai in Europa a cercare birre. C’è stato uno step by step.

C’era qualche altro locale che faceva un lavoro simile a quello de Le Bon Bock?
C’era il Mama Tequila, che faceva un servizio diverso sulle birre, e un altro paio di posti in cui andavamo a bere roba in bottiglia, come L’Oasi della Birra, ma niente di più. La fortuna nostra è stata quella di essere il luogo da cui è partito il passaparola.

Arriviamo allora ai giorni dell’apertura del Ma Che.
Nel 2001 eravamo alla ricerca di un locale e siamo andati in giro a vedere diversi posti. C’è stato d’aiuto un personaggio che all’epoca faceva il distributore – ci girò il contato Giorgione del Mastro Titta. Questa persona era una figura storica dei locali di Trastevere, quindi sapeva un po’ tutto. Ci diede due/tre dritte e poi arrivò il Ma Che. Mi ricordo come se fosse ieri quando me ne parlò: il locale era in svendita totale, una Smart al giorno d’oggi costa di più. Era un locale piccolino che nei tre anni precedenti di apertura aveva già cambiato quattro gestioni. L’ultima se ne voleva assolutamente andare e siccome era un’occasione unica dovevamo dare l’ok subito, oggi per domani praticamente. Così andai a vederlo. All’epoca la Birreria Trilussa, che era esattamente di fronte, aveva la fila per entrare, mentre nessuno andava in quel buco.

Dall'album dei ricordi del Ma Che.
Dall’album dei ricordi del Ma Che.

Era un pub di quelli standard?
Sì, diciamo che all’epoca era una succursale della Birreria Trilussa, ci andavano i dipendenti a fine lavoro, cose così. Girano leggende incredibili sui locali del Ma Che, soprattutto sui sotterrannei, addirittura si dice che una volta li abbia presi in gestione un amico di Shicchi, con zoccole e clienti che venivano allietati… Quando lo andai a vedere con Fabio (Fabio Zaniol, socio del Ma Che, nda) rimasi stupito dal fatto che il tipo non facesse sedere nella saletta dietro, perchè sosteneva che i clienti gli rovinassero i tavoli. Per cui il passaggio era bloccato ed era limitato all’ingresso e al bagno sotto. Mi ricordo che andammo giù con gli accendini per capire come fosse fatto il locale nelle altre parti. In ogni caso dissi di sì: l’offerta era allettante, anche se non avevamo molti più soldi rispetto a quelli chiesti dal locale. Ci siamo detti «Proviamoci». All’epoca il Ma Che lo avevamo immaginato come una palestra, un posto dove farsi le ossa per fare qualcosa di diverso e più grande quando il capitale sarebbe aumentato. Non abbiamo mai fatto l’inaugurazione, partimmo subito perchè il posto era praticamente pronto. Dovevamo soltanto comprare alcune cose.

Fabio in zona spillatura.
Fabio in zona spillatura.

L’impianto con le spine?
No, le spine no perchè la gestione precedente ce le aveva bloccate per contratto, quindi le doveva tenere fino a fine anno. Ma, visto che eravamo tra fine ottobre e inizio novembre, non ci furono problemi. Ci chiese il favore di tenerle, scontandocele, e lo accontentammo. Abbiamo deciso così, dal nulla, di aprire e tirare su la serranda, anzi, in realtà non aprimmo neanche la serranda: era semichiusa e ci bussarono da sotto due ragazze, due americane, che sono state le due prime clienti del Ma Che. Non mi ricordo cosa persero: dentro c’eravamo io, Fabio e la mia ragazza dell’epoca che aveva lavorato un cocktail bar di Londra e quindi era brava anche su questo tipo di bevute. Mi ricordo ancora il nostro primo incasso: 65.000 lire. Il discorso delle birre l’abbiamo iniziato con una selezione di bottiglie, non con le spine, che all’epoca erano ferme per contratto. Tra fine febbraio e inizio marzo dell’anno successivo entrarono le nostre prime birre alla spina.

Di che tipo è stata la prima clientela, avventori casuali o c’era già uno zoccolo duro di appassionati?
Il bello della clientela del Ma Che è che ancora oggi è composta da alcune persone che sono passante nei primi due mesi dell’apertura. Gente che ora magari ha 40-45 anni e all’epoca ne aveva poco più di 20: è stato bello crescere con loro. Diciamo che la clientela principalmente è stata “extra birra”, composta da persone che poi sono diventate anche nostri amici. Siamo stati bravi a creare una casa, non c’è stato mai un grosso filtro tra noi dietro il bancone e la clientela, era come se fosse una public house vera: raccontavi i tuoi problemi, le tue cose, si andava a giocare a calcetto assieme, cose così. La parte “birra” non faticò molto a nascere, mi ricordo di un Leonardo Di Vincenzo home brewer (Leonardo fonderà poi Birra del Borgo, nda) bersi qui le prime bottiglie di Cantillon con dei suoi amici.

Leonardo Di Vincenzo in zona bancone.
Leonardo Di Vincenzo in zona bancone.
Mi ricordo Giaguarino (Luca Sabatella, nda), personaggio nato in quello che all’epoca era stato un primo abbozzo della situazione romana, il sito antidoto.org, che fu forse il primo a fare un discorso sui pub romani legati alla qualità. Mi ricordo di Frank, uno di loro, che adesso è un brewer famoso, esperto e stimato (Francesco Antonelli, fondatore di Brewing Bad, nda), bere solo Guiness e andare contro questo discorso del craft che stava nascendo. Spuntavano i primi forum in cui anche io dicevo la mia. L’approccio stretto con gli appassionati della birra ce lo siamo costruiti e coltivati con il Bierkeller nel 2003-2004, un circolo culturale sulla birra a Testaccio in cui abbiamo iniziato a fare degustazione e presentazioni: Teo Musso ci presentò il prototipo della Xyauyu, c’era Leonardo di Vincenzo che stava per aprire il birrificio, ci furono le prime degustazioni con Troll e Bi-Du, c’era Kuaska. Quello è stato il “salotto buono” del Ma Che, che nel frattempo cominciava a essere affollatissimo, quasi caotico. Quando la polizia ci chiuse il Bierkeller ritornammo tutti qui a Trastevere e studiammo altre soluzioni per affinare il locale e la comodità per chi semplicemente voleva bersi una buona birra.

Che io mi ricordi, però, il locale non è cambiato più di tanto dagli esordi.
No, non è cambiato più di tanto. Ma, ad esempio, abbiamo lavorato sugli orari: il Ma Che prima apriva alle nove di sera. Poi alle cinque, poi alle tre. Abbiamo anche sperimentato un apertura delle nove del mattino, ma è stata abbastanza deleteria… Alla fine l’abbiamo stabilizzata alle undici del mattino.

Il Ma Che oggi.
Il Ma Che oggi.

Quanto e in cosa è cambiato il mondo della birra artigianale rispetto a quegli anni?
All’epoca c’erano pochi birrifici, si sapeva quando apriva un birrificio nuovo, si andava in giro a cercare birra in maniera abbastanza mirata. Ti parlo del periodo prima della nascita di Mikkeller, nel 2006, quindi i primi 4-5 anni del Ma Che. C’era più genuinità per chi entrava e si rapportava a questo mondo perchè era per tutti un vero e proprio salto nel buio, per cui dovevi veramente credere in quello che facevi. Adesso è tutto già preparato, in tutti settori, è tutto già pronto per chi brassa, per chi vende, per il cliente. In questo momento c’è molta confusione, è difficile per un publican andare a trovarsi cose nuove e usare personalità, che è una cosa per me fondamentale. Si cerca di seguire le orme, se non addirittura copiare quello che hanno fatto gli altri. A Roma di publican bravi ce ne sono due o tre, che usano molta personalità nel cercare le loro birre, nell’andare a contatto con i birrai, nel capire quello che fanno e trasmetterlo ai clienti. Una volta i nostri incontri erano quasi riunioni tra carbonari, parlavamo di bottiglie che adesso sono quasi ridicole da nominare, anche se erano – e sono, in alcuni casi – prodotti splendidi. Poi il mercato ha fatto il suo corso: si è mangiato un po’ di gente, alcuni hanno saputo cavalcarlo, altri sono rimasti nella nicchia. Il nostro vantaggio è di aver vissuto un periodo pionieristico per cui sappiamo riconoscere subito alcuni prodotti da altri. Il rovescio della medaglia è che La nostra filosofia di lavoro non può essere accettata da tutti: proprio perchè abbiamo vissuto un discorso diverso, abbiamo una visione del prodotto che non viene accettata dalle nuove generazioni, per il semplice fatto perchè non la comprendono. Adesso lavorare o non lavorare con alcune beer firm è un discorso più filosofico che altro, non di gusto. Quando qualcuno dice «Va be’ ma ‘sta roba è buona perchè non me la devo bere?» io rispondo «Nessuno ti vieta di farlo, io però non la servo per dei motivi legati alla nostra crescita, al rispetto, al vedere il mercato in un altra maniera».

Stene Isacsson.
Stene Isacsson.
E quando parli con gente come Stene Isacsson dell’Akkurat (un pub di Stoccolma che è un istituzione internazionale, nda) e ascolti un discorso uguale al tuo, senti di quanto lui sia stanco di lavorare nel craft – lui che è il padre, il numero al Mondo – ti vengono le lacrime agli occhi. Stene è un ricercatore pazzesco, uno che a metà Novanta andava da Cantillon a prendersi le sue birre, che con Cantillon ha poi fatto delle birre. È una persona che trasuda passione per cui vedere anche lui spegnersi, arrabbiarsi, dà un bel po’ di fastidio, anche se è bello sapere che la gente della tua generazione birraria la pensa allo stesso modo. Generazione fa sorridere, ma un anno nella birra equivale a dieci normali. Guarda Berlino, io a Berlino non vado da fine agosto e da quel momento hanno aperto almeno tre o quattro posti degni di nota. La scena da quando abbiamo deciso di aprire Birra a Berlino è cambiata in maniera mostruosa.
Stene e Manuele in conversazione.
Stene e Manuele in conversazione.

Birra è stato un qualcosa di pionieristico per Berlino?
Sì, assolutamente. Berlino è differente da Roma. Quando abbiamo aperto a Roma, Roma era un deserto nel deserto. Quando abbiamo aperto a Berlino, abbiamo aperto in un posto che era un deserto all’interno del luna park del craft beer mondiale. Una delle città più in vista, più in voga che esistono in Europa, ma più difficile da aprire nella mentalità per quel che riguarda il craft. Abbiamo deciso di aprire con Lambrate proprio perchè ci sembrava giusto portare due realtà italiane forti in quel mercato e cercare di essere pionieristici (Birra – Italian Craft Beer si trova a Prenzlauer Allee, 198 ed ha aperto a fine aprile 2016, nda). E lo siamo stati. E la cosa bella è che dietro abbiamo il Monterey di Adrian Sampson, che per molti aspetti è il pub numero 1 di Berlino. Quando siamo a Berlino Adrian esce con noi, viaggia con noi, siamo andati a diversi festival di birra assieme: un personaggio di un’umiltà pazzesca. E scherzando mi dice che a lui fa piacere avere dei “mostri sacri” come vicini, mi dice «Per fortuna che ho aperto prima di voi se no sembrava che vi avevo copiato!». Siamo riusciti ad avere delle collaborazioni interessanti a Berlino. Siamo stati accolti con rispetto e abbiamo un fine comune con tutti: quello di crescere. Magari per fare in futuro un festival come Eurhop. È una città che ha bisogno di mille attenzioni sulla birra, attenzioni che ancora non gli stanno dando.

Il team di Birra in posa davanti al locale a Berlino.
Il team di Birra in posa davanti al locale a Berlino.

Com’è giudicata all’estero la birra prodotta in Italia?
Molte bene. Molto, molto bene. Noi siamo stati deficitari nel marketing. Mi ricordo, ad esempio, quando andai nel 2007 allo Stockolm Beer Festival: ero lì con Leonardo di Vincenzo e Giovanni Campari (del Birrificio del Ducato, nda), Mikkeller metteva le sue basi, c’erano quintali di porter e ipa, alcune fatte davvero male, e ci chiedevamo «Ma perché non ci siamo?». In realtà loro due c’erano, con le loro birre e il loro importatore svedese. Leonardo non ha fatto quello che ha fatto casualmente, è sempre stato bravo a proporsi, ad avere un suo marketing. E Giovanni altrettanto. Sono stati i primi ad essere lungimiranti, poi sono stati seguiti da Bruno Carilli di Toccalmatto, da Brewfist. Sono stati i primi a capire che il mercato estero andava battuto a tappeto, cosa che Lambrate sta facendo adesso partecipando a ogni festival possibile e facendo sempre la differenza. Pensa a un festival come quello di Varsavia: Eurhop fa 20.000 presenze complessive, lì 60.000. La Polonia ha un mercato mostruoso per il craft. Lì la gente viene, assaggia, ci sono i geek che scrivono, comunicano, i distributori e pub si interessano: è una catena. Noi questo discorso non l’abbiamo mai fatto, andando per i festival 10 anni fa mi chiedevo sempre «Perché noi non ci siamo?» E quello che assaggiavo qua in Italia non è che fosse inferiore, anzi.

Il bancone di BIrra a Berlino.
Il bancone di BIrra a Berlino.

Infatti mi ricordo che la linea del Ma Che nei primi anni era equilibrata tra birre estere e italiane, mentre ora sono quasi tutte italiane.
Le birre da noi variamo molto, anche se al giorno d’oggi è difficile trovare una birra che ti entusiasmi, soprattutto tra le novità. Tra queste c’è Brewski di Marcus Hjalmarsson, un personaggio assurdo, di cuore, fantastico. Noi abbiamo la fortuna di lavorare con gente bellissima. Mi ricordo che Marcus mi mandò una mail poco dopo aver aperto il birrificio in cui diceva: «Guarda, sto venendo in Italia con dei fusti e voglio metterli da te, me lo fai fare?», «Marcus, ma veramente porteresti quei fusti in macchina da Helsingborg?», «Sì, sì, tanto vado sul Lago di Garda in vacanza, mi allungo…» capirai, Helsingborg-Roma-Lago di Garda è ‘n attimo… Io sincerante non me la sento mai di mettere fusti di gente che non conosco, poi mi sembrava strana ‘sta cosa. Ne parlai al pub, ci furono due ragazzi romani, due beer geek, che mi dissero «No guarda lui è uno figo, è forte» e allora gli di dissi di sì. Mi si presenta ‘sto ragazzo timido, ma con delle birre strepitose! E così abbiamo fatto una serata in sordina con le birre di Brewski, che nessuno conosceva all’epoca: buone, particolari. Quando senti del mango o della papaya di solito stranisci, invece lui ne fa un uso fantastico! Ora abbiamo la sua Conan e la Pangofeber attaccate fisse. Marcus è un’altra di quelle persone che quando lo vai a trovare ti fa sentire a casa, gli brillano sempre gli occhi: vedi un ragazzo che ha una passione, una felicità nel vedere che apprezzi il suo lavoro. Fa di tutto per metterti a tuo agio, per farti vedere il lavoro che fa, per darti un prodotto fresco. È una di quelle persone che ti fa piacere vedere.

Marcus Hjalmarsson.
Marcus Hjalmarsson.
Ti posso raccontare un aneddoto anche su Søren di Dry & Bitter: lui venne alla prima crociera che organizzammo (Un Mare di Birra, nda) che era un ragazzino, era il birraio di Crooked Moon. Lo vedevo che si aggirava quasi spaesato in crociera e poi ne persi i contatti. L’ho ritrovato a capo del progetto Dry & Bitter e come gestore del progetto Fermentoren di Copenaghen. Quando ci ha (ri)presentati una nostra amica comune mi ha detto subito con entusiasmo: «Io mi ricordo della Crociera! Ero ragazzino, spaesato, vedevo tutti questi mostri della birra assieme! Avevo 22 anni ed ero lì, da solo!», «Søren io pensavo che ti stava pure sulle palle quella situazione, ti vedevo sempre da una parte…», «No! È che ero timidissimo, tu per me sei una leggenda!». Poi Søren è diventato uno dei miei migliori amici, proprio a livello umano. È bello avere un rapporto con questi birrari e oggi è difficile riconoscere in un birraio questa passione. Marcus e Søren sono due che ce l’hanno. Ed è un piacere quando nel tuo locale hai un prodotto che non è soltanto buono da bere, ma dietro ha una storia, un personaggio, un’idea. Questo è quello che vogliamo sempre comunicare, trascinare con noi: dietro ogni birra che bevi c’è un idea. Come Schigi (per l’anagrafe Luigi D’Amelio) di Extraomnes: conoscendolo da una dozzina di anni so benissimo che è un personaggio che non può essere che quello, non può che fare quello che fa, ama un certo tipo di Belgio ed è bello riconoscere la sua passione, la sua filosofia, il suo modus operandi nelle parole delle tante degustazioni che ha fatto o anche delle polemiche lanciate su Facebook. Io non sopporto un birraio che, ad esempio, mi tira fuori una ipa che è un tipo di birra che lui non berrebbe mai, ma la fa perchè il mercato lo richiede. Io ho visto gente blasonata darmi una sour come prima birra da provare in qualche festival, quando so benissimo che quando viene al pub schifa anche una gueuze, nemmeno una Cantillon. Mi ricordo quando vennero Mikkel di Milkkeller, suo fratello Jeppe – quando ancora doveva fare Evil Twin – Struise, con questo personaggio che li schifava perchè loro bevevano gose di Lipsia. E io pensavo: «Meno male che l’altra volta mi hai rifilato una delle tue aceticissime birre sour! E su Ratebeer, a parte alcune ottime imperial stout, le tue migliori birre recensite sono sour. Sei un fenomeno su Ratebeer facendo una cosa che tu schifi!».
Søren (a sinistra) di Dry & Bitter.
Søren (a sinistra) di Dry & Bitter.

Cosa è successo quando su Ratebeer siete stati eletti come pub numero 1 al Mondo?
Dopo quel riconoscimento le cose furono differenti. Considera che in all’epoca (2009-2010) la birra italiana non era ancora vista in un certo modo. All’epoca c’era un sano-malsano dualismo con Alex del 4:20: anche lui aiutò molto ad alzare l’asticella delle situazioni a Roma. La gente fraintese quando iniziò una sorta di guerriglia sullo scriversi le recensioni. Noi Rateber lo usavamo un po’ come cartina tornasole di quello che era il nostro lavoro. Volevamo far sentire a casa non solo con le birre, ma anche raccontandole e servendole in un certo modo. Ed era un piacere avere a che fare con persone del giro di Ratebeer, alle volte si facevano delle cantine vintage serie e capitava che gliele andavamo quasi a regalare, trattandosi di roba che negli anni avevamo rimediato anche a pochi euro. Ce le andavamo a dividere: era un occasione per bere qualcosa di figo assieme, visto che erano venuti a Roma a trovarci. Lo usammo per vedere il livello di lavoro a cui eravamo arrivati e per riproporre quello che vedevamo quando andavamo a bere in posti veramente fighi, facevamo anche noi delle critiche, ma sempre in positivo. C’è sempre stato un ragionamento. Quella è stata la base del processo che ci fece arrivare primi su Ratebeer. Avevamo una squadra ben oleata (alcuni lavorano ancora al Ma Che), andavamo in giro in Europa per capire come potevamo regalare un’esperienza alla gente. Un’esperienza in un cesso di posto! La gente però iniziò a prendere questa storia di Ratebeer in maniera diversa e a Roma iniziò una guerra stupida di rating, anche se Ratebeer non è Tripadvisor: non ti svolta il fatturato. La differenza è che se i nerd della birra arrivavano ogni due settimane, adesso arrivano tutti i giorni.

La maglia celebrativa per il raggiungimento della vetta della classifica di Ratebeer.
La maglia celebrativa per il raggiungimento della vetta della classifica di Ratebeer.
Ratebeer ci ha aiutato a spargere il nome e a farlo diventare più vetrina per i birrai, ci ha facilitato nei rapporti e ci ha fatto conoscere alla gente che fa turismo birrario, ma se devi contare su questo tipo di clienti per un discorso economico stai fuori. Purtroppo in molti non lo hanno visto così e sono iniziate cose assurde per cui Roma è entrata nell’occhio del ciclone. Poi la cosa si è spostata altrove, a Bruxelles, in Spagna. Per me conta la strada, il passaparola, come fai stare la gente. Io non ho mai fatto nessuna pubblicità da nessuna parte se non per i ragazzi di Publigiovane – che sono quelli con cui collaboriamo da 15 anni, per le crociere come ora per Eurhop. Siamo finiti una volta sul giornale di Ryanair, ma non ricordo altro. È sempre stato un discorso di passaparola. Alle chart, al rating o a Tripadvisor non gli do proprio retta e in molti sono d’accordo con il mio pensiero. Quello che facciamo non è soltanto una ricerca di birre: se io vado all’Akkurat devo capire perché è il numero uno. E nel corso degli anni l’ho capito e ne ho un rispetto mostruoso! Devi cercare di capire e misurare il tuo lavoro, di vedere come lavora la gente. In italia abbaiamo tantissimi maestri come Antonio Maiorano, Michele Galati e tanti altri: ognuno lavora con la sua personalità ed è bello che cerchi di carpire il mestiere l’uno dell’altro, per poi cercare di portare tutto in quello che è il tuo posto. Non è solo un lavoro di birre è un lavoro sull’essere pub.
Antonio Maiorano.
Antonio Maiorano.

Che rapporto hai e quanto sono importanti i distributori nel tuo lavoro?
Ho dei distributori che stimo molto, come Regalli. Mi aiutano ad essere in contatto diretto col birraio. Poi c’è Birraviva con cui abbiamo la nostra parntership per le birre della Fraconia. Dino Perin di Birraviva, più che un amico è un nostro Babbo Natale. Senza Dino le mie follie della Franconia non sarebbero mai potute esistere. Noi prima lavoravamo con Andreas Gaenstaller, che mi faceva da punto di raccolta per qualche birrificio. Là ci sono realtà molto piccole, sempre a rischio, che infustano in una maniera che manco te lo sto a di’. I loro sono fusti che hanno bisogno di essere fatti fuori in pochi giorni. Di solito andiamo su con Dino ci facciamo questo excursus di 4 giorni e 40 birrifici, andando anche in posti che conosciamo già.

La Brauerei Will in Franconia.
La Brauerei Will in Franconia.

Nascono ancora dei nuovi birrifici in Franconia?
Sì, ne nascono, ma sono di più quelli che muoiono. Il problema è che lì la produzione è altalenante, per cui devi andare a provare le cose anche quando pensi di essere sicuro e comunque devi finire i fusti in due settimane. Ormai conosciamo i birrifici da consumare prima, quelli che ci possono dare problemi, le stagioni dove andare in alcuni piuttosto che in altri. Ci sono mille fattori che cambiano, l’unica costante è che si tratta di un prodotto che non puoi distribuire, non puoi far viaggiare troppo. Da lì a Roma deve essere trasportato in cella frigo e consumato entro due settimane, altrimenti perdi la fragranza, la freschezza del prodotto, che è l’unica cosa che conta in quelle birre lì. Ci sono delle birre che possono garantire una distribuzione capillare, altre no. Mi fa ridere quando mi danno del “mafioso” perché non gli do le birre della Franconia! Prima di tutto vorrei dire che quest’anno ho speso 7.000 euro di viaggi per l’Europa, gravati tutti sul bilancio del pub. Spendili pure te e poi ne parliamo! È un investimento, devi saper spalmare i flussi sul fusto. Sono prodotti che bisogna saper trattare, noi sono 15 anni che trattiamo i prodotti della Franconia, io ci vado 6-7 volte l’anno e ogni volta imparo qualcosa di nuovo. È qualcosa di affascinate, di storico: capisci le variabili di tante situazioni.

Le birre della Franconia in trasferta al Ma Che.
Le birre della Franconia in trasferta al Ma Che.
È un lavoro non indifferente, che si riallaccia con quello che stiamo vedendo nell’evoluzione del mercato. La gente va su prodotti facili da bere, buoni e con personalità. Ecco allora le birre della Franconia, le session di Vento Forte, una bitter ale fatta bene. Parliamo delle session di Vento Forte: mettila 4 anni fa una birra di 3,5 gradi in spina al pub! Le prime session ipa che vendevamo venivano viste male «Va be’ ma che me bevo la birra da 3,5 gradi?». Ora i clienti, sopratutto i clienti fissi, le apprezzano e quando una pale ale raggiunge i 5,5 gradi già storcono il naso. Pensa alla gente che sta qua fuori dal pomeriggio: è gente che beve roba leggera, così può tirarne giù 3 o 4 senza problemi. Il prodotto può essere anche leggero, ma deve avere personalità e le birre della Franconia hanno fragranza e personalità. Il consumatore è diretto in quella direzione lì, la maggior parte delle persone viene al Ma Che perché sa che trova un prodotto buono: c’è una cura maniacale dell’impianto, c’è la freschezza, la ricerca, perché noi siamo i primi bevitori. Io bevo qua e in altri 4/5 posti a Roma, punto. Che sanno quali sono e dietro i quali c’è una bella storia dietro. L’unico che voglio nominare è Emanuele Repetto dell’Artisan di San Lorenzo perché da lui ho trovato sempre delle birre differenti, come le trovo anche da Valentino Roccia al Pork’n’Roll, ma lui è un’istituzione ormai. Da Emanuele trovo una linea pulita, un ragazzo con entusiasmo che va in giro in Europa, che coglie le cose nuove, che ha un punto di vista diverso da tanti altri che ancora non hanno avuto questo scatto d’identità. Lui è un “beerhunter” di quelli fighi, tante volte sono io a chiedergli dove ha preso certe birre. IL mercato ormai è cambiato, se c’è il 20% complessivo del mercato della birra in mano al craft è perché c’è gente che sa che c’è una birra buona in un determinato locale, che sa dove si beve bene, ma non si preoccupa dei luppoli o dei malti. Molte volte i clienti si scordano il nome della roba che stanno bevendo, ma sanno che quella roba ha un buon gusto. Se il mercato del craft è cambiato ed è al 20%, il geek, il nerd è sempre al 2%. Io ho gente che non capisce niente di birra, ma mi sa riconoscere la differenza tra un fusto e l’altro, gente che mi fa: «Ma questa non è quella di ieri…», vai a guardare e l’infustamento effettivamente è diverso. Il rovescio della medaglia è che la noncuranza di molti pub e di molti birrai porta un altro tipo ancora di clientela, che viene da me e mi chiede una birra non artigianale… Io me la cavo sempre dandogli una TipoPils, ma che ti dice questo? Che l’artigianale viene percepita come una birra forte e difficile da bere. La gente è ancora convinta che bisogna shockare il palato. Se non pulisci l’impianto la birra in bocca ti diventa in papocchio, se la birra non la conservi bene ti diventa una merda! Lo spettro degustativo di una birra artigianale è enorme. È grosso quanto sto’ tavolino! Più aumenta il numero di pub e dei birrifici, più, giocoforza, i numeri andranno contro te, perché la parte grossolana si allarga sempre più. La gente casca in posti dove magari assaggia la prima artigianale è ha una cattiva esperienza. Io ho visto posti blasonati, che hanno un food legato a persone straordinarie, con delle birre artigianali che era meglio bere in una fogna di Calcutta. Lì inizia la rovina di questo mercato. Con l’alta ristorazione arriva un certo tipo di target che non ha mai avuto a che fare con la birra artigianale e se tu non sai trattare il prodotto prima o poi quella gente ti dirà: «No, io questa roba non la bevo, l’ho provata di qua e di là e non mi piace» e questa gente me la ritroverò più da Be.Re. che al Ma Che. La birra artigianale sta prendendo una piega un po’ nerdy, un po’ hipster, di gente “fanatica” che sta lì e magari si beve una cosa che fa anche cagare. E non vorrei che fosse quella l’evoluzione del mercato futuro.

A proposito di evoluzione del mercato, non ti chiedo il tuo giudizio sull’acquisizione di Birra del Borgo da parte di del colosso AB InBev perché a tempo debito lo hai scritto a chiare lettere in un post sul tuo profilo Facebook. Ti chiedo, però, se in futuro vedremo sempre più spesso operazioni di questo tipo.
Assolutamente sì. Io ho già il mio nichelino puntato sui prossimi birrifici. Conosco tantissimi che si sdraierebbero a pelle di orso morto pur di farsi comprare, visto che il momento è quello che è. Sarà sicuramente una cosa che avverrà nel futuro: è facile da prevedere. A parte che, se sei dell’ambiente, lo sai quali saranno le mosse future dei grossi marchi. Adesso non puoi muoverti più di tanto, la strategia che loro stanno facendo è giusta ed è quella di far placare le acque per poi affondare il colpo. Se AB InBev schiaccia l’acceleratore ci fa fuori tutti.

Quanto parte di mercato hanno perso i grandi marchi?
Tanta, ma è nulla in confronto a quella che potrebbero guadagnare tra un po’. È gente che può offriti 30, 40, 50, 60mila euro pur di mettere la Birra del Borgo di turno. Se ti dicessi quello che mi hanno fatto i distributori adesso con Be.Re. ti metteresti a ridere, se gli avessi detto di sì in tre anni avrei avuto un attico a Piazza di Spagna. Ti levano molti problemi. Alcuni distributori fanno investimenti tali per cui, veramente, se la birra ti costa 1, te la vendono a 10. Come fa un fusto di Tennent’s Super a costare 140 euro? Perché c’è gente che lo paga 20, perché a loro gliene costa 10. Loro usano dei prodotti per entrare, per fare vetrina e conquistare fette di mercato. Se vogliono, il mercato craft può finire facilmente nelle loro mani. A differenza dell’America, dove adesso devi cacciare molti soldi, qui in Europa bastano “due spicci” per conquistarti un prodotto, farlo crescere e farne diecimila ettolitri: «Quali sono i loro prodotti di base? Cortigiana, Duchessa, Re Ale? Perfetto, iniziamo a produrle nei nostri stabilimenti in giro per l’Europa, iniziamo a fare rete capillare. I prodotti speciali li produciamo solo nel posto originario». Poi succede che bevi birre fatte in Italia ma con un marchio olandese, come capita per la grande distribuzione. La verità è che nel mondo della birra artigianale non si guadagna, non girano soldi, non si diventa ricchi. Come puoi invece diventare ricco avendo il tipico pub anni 90 che vende Carlsberg. Io ne conosco tantissimi di questi, che magari hanno saputo rinnovarsi mettendo prodotti di nicchia in altri settori, ma magari la birra non la toccano, c’hanno la Carlsberg venduta a 7 euro pagata…. boh… 1 euro al litro?! Per noi non esiste trovare una birra che ci costa meno di tre euro al litro, mandi fallito il birrificio altrimenti. Vuoi aprire un locale in centro? L’affitto a Roma lo paghi un ecatombe. Vuoi un prodotto di nicchia? La birra la paghi un ecatombe e il mercato, così come la giustezza delle cose, non ti consente di aumentare il margine. Ci vuoi mettere il cibo di qualità? Vai, comprarlo! Vai a prendere una brigata di cucina! Vai a fare i conti a fine mese, a pagare la birra, con tutto lo spreco che c’è per trattare bene l’artigianale, quindi pulizia dell’impianto, spillatura con perdita di birra. Stai al top, ma è come avere uno stipendio. Va benissimo, poi però vedi il proprietario di un altro tipo di locale che può comprarsi 5 case e andare in giro con 18 tipi di macchine. Io capisco che da fuori il percorso che abbiamo avuto può sembrare lastricato d’oro, ma non lo è. Se fai un’analisi matematica, oggettiva, senza emozioni dici: «Cazzo, ma tutto quello che hai fatto? Hai cambiato il mondo birrario di una città e hai solo questo in mano? E quell’altro c’ha quello? E come è possibile?». Adesso la AB InBev consentirà di poter essere come il venditore di Carlsberg. E di fronte a una persona che ti dà la possibilità di comprarti due case che fai? Gli dico di no perché devo fa’ il coglione e devo vendere la mia birrina del piccolo birraio dalle mani sporche e dal cuore grande? Io sono abbastanza vecchio e stabilizzato per poterlo fare, ma in futuro? La situazione è grigia, il confine è sottile, le acque torbide. Ne stiamo parlando con Stene di Akkurat, Jean di Moeder Lambic, con i ragazzi della Capsule, vogliamo cercare di tirare fuori un filo comune, di promuovere una filosofia lavorativa. La gente che dice: «Non me ne frega niente» fa il gioco loro, il gioco di chi entrerà nel mercato a gamba tesa e ti ucciderà. Il futuro sarà l’ingresso di ingenti capitali in alcuni birrifici che dovranno crescere con loro. È come l’acquisizione dei birrifici tedeschi di Carlsberg o della Bavaria. In Germania c’è la birreria locale, del villaggio, quella regionale e poi quelle più grandi. Lo step di mezzo è quello che sta scomparendo: la birreria regionale, che sono comprate da chi gestisce le birrerie nazionali per entrare in certi locali e poi, a un certo punto, eliminare quel marchio ed entrare con il proprio. È sempre stato così e sempre sarà. C’è gente che ha iniziato a vedere che col craft girano moltissimi soldi, che c’è un mercato grande e adesso entra.

Parliamo del nuovo progetto in cui sei coinvolto: Be.Re.
Be.Re. l’ho fatto con Luigi Parise e Lorenzo D’Annibale. Luigi lo conosco da anni è un personaggio storico di tantissimi locali romani. Lui forse è il lato buono di quello che ti dicevo. Lui ha sempre gestito locali di successo, ha iniziato 25 anni fa ed è sempre stata una persona con una professionalità che nel mondo craft manca: nessuno a Roma nel craft si può chiamare imprenditore, nemmeno io. Non avrei mai voluto fare un nuovo locale a Roma, se non per allacciarmi a un nuovo tipo di figure e per vedere come funziona la gestione di un locale di un certo modo, vorrei dirti “serio”, ma non è il termine giusto. Non l’avrei mai fatto se non fosse stato per la location, splendida, per la possibilità di avere una clientela differente, legata al quartiere Prati, a cui sono molto legato anche io perché da sedicenne ero fisso là in comitiva. Luigi, oltretutto, è nato in questo quartiere quindi è fonte di garanzia perchè sa come funzionano le cose. Abbiamo San Pietro vicino, i Musei Vaticani: il sogno è di vedere anche tanta gente straniera entusiasta, più di quella che viene la mattina al Ma Che.

Il caveau dei trapizzini all interno di Be.Re.
Il caveau dei trapizzini all interno di Be.Re.
Il connubio con Trapizzino è stato naturale: con Paul Pansera – che gestisce Il Sorpasso proprio vicino Be.Re. e lavora con Trapizzino (Paul è nel progetto Trapizzino dalla primissima ora, nda) – c’è stima reciproca. Ho avuto modo di conoscerlo ed è un personaggio splendido, uno di quelli che hanno la mente che va a tremila. Con lui ho avuto la stessa sensazione che ebbi quando parlai la prima volta con Farinetti per il progetto Open Baladin: una capoccia che in ogni caso va a quattromila. Puoi dire tutto di queste persone, ma non che non abbiano una testa che viaggia, sono attente a ogni dettaglio in ogni situazione. Farinetti arrivava là dove Teo e Leonardo non riuscivano ad arrivare. Quella volta io stavo lì, zitto in un angolo al mio tavolo, a osservare la scena, a osservare questa “macchina da guerra” e pensavo: «Grazie al cavolo che hai tutto quello che hai! Guarda chi sei!», tralasciando tutti i lati negativi o altre interpretazione personali che si possono avere. Paul fa parte di quella categoria, è uno che appartiene a quel mondo lavorativo, a quel tipo di professionalità che a me piace tanto e che ha successo in quello che fa. Avere delle idee sempre geniali e saperle fare fruttare: a me è sempre mancata la seconda parte, far fruttare nella maniera giusta le idee che ho avuto. Però chi se ne frega, ho una figlia, una casa a Trastevere… 15 anni fa era un morto de fame, se ti dico con quanti soldi abbiamo aperto il pub… Manco una macchina usata ci prendevo! C’è un grosso orgoglio anche in questo. In ogni caso, Be.Re. è un progetto enorme, al quale non avrei mai pensato di potermi approcciare nella vita.
Be.Re. a Prati.
Be.Re. a Prati.

Cos’è che lo rende enorme?
L’investimento che c’è stato, la struttura, ma anche il banco stesso delle birre. È stata la prima volta che mi sono trovato a parlare con un tecnico per fare un banco come lo volevo, senza limiti di nulla. È un progetto a cui ho aderito perché lo vedo bene, stiamo preparando lo staff, portando anche una parte di persone dal Ma Che per dare continuità. Da Be.Re. ci sarà un discorso ancora più italiano e ci saranno anche 7/8 spine dedicate solo a prodotti locali. Lo straniero che arriva vuole bere birra locale, a maggior ragione se è fatta localmente. Adesso nel Lazio abbiamo delle bellissime realtà: Vento Forte, Eastside, i ragazzi di Rebel’s , Ritual LAB, Hilltop, stiamo cercando di lavorare con questi ragazzi qua, giovani, che

Il birrificio di Eastside.
Il birrificio di Eastside.
hanno entusiasmo e che hanno saputo cogliere quello che la generazione birraria passata ha dato. Finalmente Lazio e Roma hanno qualcosa da poter dire e da poter proporre. Ci piace vederli crescere e gli daremo una bella vetrina. Sul menu avremo una parte dedicata alle birre locali, laziali e romane, con un’icona o un qualcosa che stiamo studiando. Avremo 23 vie più una botte, ci sarà una situazione per le birre della Franconia, con delle botti fatte a mano. Abbiamo un impianto particolare per cui riusciamo non solo a spillare le birre in maniera tradizionale, ma anche a ottenere dai fusti un basso livello di CO2 senza bisogno di una spillatura in tre tempi e già nella prima birra che ti arriva. L’abbinamento col Trapizzino, poi, è stato molto naturale: offriamo due cose semplici, ma ad alto livello. In questi primi tre giorni di apertura ho mangiato 27 trapizzini! Sto morendo!

Tornando al Ma Che, che rapporto avete con il quartiere, Trastevere?
Il rapporto è buono: ci stimano. Sì, siamo il locale che assieme a un altro paio fa più casino, però rispettiamo gli orari: cerchiamo di rispettare tutto cercando allo stesso tempo di preservare quelle che sono le nostre ragioni. Nel corso del tempo siamo riusciti ad ottenere un buon rapporto con tutti, il vicinato è il tuo primo “nemico”, ma se te lo fai amico hai svoltato. Ci stimano perché abbiamo comunque portato un po di qualità nel quartiere e in questo ci hanno seguito un po’ di posti. Ci fa piacere perché a Trastevere è facile lavorare: arriva l’americano, gli dai lo shot a un euro di benzina, lui è contento e poi si butta al Tevere… La gente invece ha imparato a frequentarci, anche chi abita qua viene a bere da noi, con gusto. Poi abbiamo cercato noi per primi di porre un freno, di fare una selezione e la fai facilmente: col prezzo, col modo di comportarti, come fai sentire a casa alcune persone, così puoi far sentire indesiderate altre. Se ne perdi qualcuno ne guadagni altri, il discorso è questo. Comunque è bello, qui è un piccolo villaggio, conosci tutti, ti vai a fare due chiacchiere al bar e incontri gente. Ormai sono 15 anni che sto qua, ci venivo anche prima in comitiva, mia figlia è nata qua: posso vantarmi di avere una figlia trasteverina!

Via Benedetta, di fronte l'ingresso del Ma Che.
Via Benedetta, di fronte l’ingresso del Ma Che.
È ancora in vigore la cosiddetta ordinanza anti alcol?
Ma, in realtà non è mai esistita. Finché non diventa regolamento comunale non ha nessun valore, è sono solo un’ordinanza del sindaco. La legge famosa del 2008 è caduta anni fa. Noi abbiamo fatto anche ricorso al TAR e lo stesso Comune di Roma ci ha chiesto di non proseguire. Noi nel nostro cerchiamo di mantenere l’equilibro nel quartiere, ma per noi è impensabile passare un estate senza mescita all’esterno: moriremmo in poco tempo.

In questi 15 anni vi siete fatti un idea su come si possa raggiungere un equilibrio tra attività commerciali e quartiere?
È fondamentale raggiungere un equilibrio. Non bisogna mai essere egoisti, ma pensare al rispetto delle persone che abitano intorno e dei tuoi clienti. Bisogna sempre cercare di trovare una soluzione di quieto vivere. Noi abbiamo ormai una clientela che è andata molto avanti nell’età perché ci ha seguito nel tempo – e comunque ora la birra ha preso anche altri canali. Mai mi sarei aspettato di vedere il Ma Che pieno di professionisti di 40-50 anni o di orde di ragazze bellissime che bevono la nostra birra. Il Ma Che è sempre stato un covo di ultras! Adesso la situazione è cambiata molto e il quartiere, vedendo che la clientela cambia, che cambia il gusto, si è calmato. Da noi non ci viene quello che si deve ubriacare: la birra costa 6 euro, è un prodotto di estrema qualità, non vieni qua se ti vuoi spaccare in due.

A proposito di ultras, qual è stato il rapporto del Ma Che con il calcio? Mi ha sempre fatto sorridere che il sito del locale fosse football-pub.com.
E lo è ancora! Anche se ogni tanto me ne dimentico dell’esistenza. Ma guarda, semplicemente siamo sempre stati appassionati di calcio. L’idea che avevamo inizialmente era quella di un posto che rispecchiasse la nostra passione principale che era quella per il pallone. Poi la Roma aveva appena vinto lo scudetto, la Lazio due anni prima, c’erano le prime tv satellitari con il calcio in diretta, Stream, Telepiù: c’era fomento! Questo aspetto, però, negli ultimi tempi lo abbiamo abbandonato. Il clima che si creava non era più adatto a quello che servivamo, a quello che volevamo fare, anche alla nostra età. Ho aperto il pub che avevo 29 anni, adesso ne ho 45. Insomma, le cose cambiano.

Ricordo che alle pareti avevate tantissime sciarpe di varie squadre. Ve le portavano i clienti?
Sì, spesso e volentieri ce le portavano loro. Adesso ci portano birra, ma qualcuno che ancora le porta c’è. Spesso erano gli olandesi che ci davano questi regali. Una volta qualcuno ci portò anche un maglietta dello Sheffield completamente firmata. Poi i greci… Mamma mia!

Venivano da voi durante le trasferte?
Sì, ma spesso si trattava di gente normale che, come noi, aveva queste due passioni, per cui, quando passava da Roma, veniva qui a bere e ci portava un omaggio. Eravamo il “football pub” d’altra parte…

Omaggio ai Gunners nel Ma Che di qualche anno fa.
Omaggio ai Gunners nel Ma Che di qualche anno fa.