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Short Theatre atto primo: Andrea Dante Benazzo

Un'intervista per conoscere e approfondire il lavoro degli artisti debuttanti nell'edizione 2022 del festival.

Scritto da Nicola Gerundino il 6 settembre 2022
Aggiornato il 8 settembre 2022

Luogo di residenza

Roma

Attività

Regista

Il territorio di Roma è ormai una delle chiavi di volta di Short Theatre, non solo per il moltiplicarsi luoghi dove il festival viene ospitato e coltivato, ma anche per la sua capacità di intercettare e proporre contenuti che nascono e proliferano all’interno della città stessa. Per questo motivo abbiamo deciso di dare parola ad alcuni degli artisti che di volta in volta debutteranno all’interno di Short Theatre, legati a Roma e alla sua scena. Protagonisti delle due interviste per l’edizione 2022 saranno Andrea Dante Benazzo, che presenterà “Partschótt” l’11 settembre alla Pelanda alle 19:30, e Daria Greco, che presenterà “Crangon Crangon” il 7 settembre alla Pelanda alle 19:00 e alle 22:45.

Partiamo quindi da quella che potrebbe essere una presentazione e un'introduzione al tuo lavoro.

Ho recentemente ritrovato il mio primo biglietto per uno spettacolo teatrale. “Le avventure di Pinocchio”, datato 14 ottobre 2000, al teatro Colla di Milano. È stata mia madre a indirizzare per prima la mia curiosità. Non è passato un anno da allora senza che frequentassi un corso di recitazione. Quando ho deciso di fare del teatro il mio lavoro, dopo il diploma di maturità, si sono susseguiti diversi incontri importanti. Ne citerò due. Il primo è stato quello con Fabiana Iacozzilli – mia insegnante tra il 2015 e il 2016 prima alla Cometa e poi alla Scaletta – fondamentale per iniziare a formare uno sguardo cosciente. Il secondo è avvenuto nel 2017, quando sono stato ammesso al corso di recitazione dell’Accademia Silvio d’Amico. Qui l’incontro con Valentino Villa mi ha spinto a iniziare a indagare la regia come nuovo campo di possibilità creativa e autoriale. Le prime, vere esperienze rivoluzionarie come spettatore, invece, sono state “Giudizio Possibilità Essere” di Romeo Castellucci (visto al Festival dei Due Mondi di Spoleto) e poi “La Reprise” di Milo Rau (al Romaeuropa Festival). Questi due lavori hanno rappresentato la scoperta di nuovi, possibili modi di intendere l’atto teatrale. Mi hanno permesso di mettere in crisi tutti gli insegnamenti ricevuti fino a quel momento e di immaginare la possibilità di dimenticarmi del vocabolario che avevo a disposizione.

Questo sarà il tuo debutto a Short Theatre. Sensazioni ed emozioni alla vigilia?

Quella di Short Theatre sarà la prima occasione di presentare un mio lavoro concluso a Roma, la città in cui vivo. Sono molto grato per questo a Piersandra Di Matteo – direttrice artistica del festival – che ha creduto nel progetto. Sono felice, inoltre, che il primo ciclo di vita di “Partschótt” si chiuda al Mattatoio, dove due anni fa, grazie a Powered by REf, ebbi la possibilità di presentarne il secondo studio. Mi sento pronto per il mio primo, grande errore e mi emoziona molto l’idea che dopo quattro anni il lavoro possa finalmente superare la fase di prova e che possa così imparare a superare anche me.

Finora qual è stato il tuo rapporto con questo festival? Che cosa ha rappresentato per te e, dal tuo punto di vista, cosa rappresenta per la città?

Terminato il liceo, sono immediatamente diventato un grande consumatore di spettacoli. Le mie vacanze erano ritagliate sui festival estivi e non poteva passare autunno senza un abbonamento al REf e uno a Short. Lo sguardo internazionale di questi ultimi due festival mi ha dato la possibilità di incontrare gli autori e le autrici che più hanno plasmato il mio gusto. Arkadi Zaides, Azkona & Toloza, Milo Rau, Alexander Zeldin, Romeo Castellucci. Sono convinto che andare a teatro sia la componente più importante del percorso di studi di un attore o un regista. È fondamentale che il nostro punto di vista venga spostato attraverso quello di qualcun altro, che il nostro linguaggio sia messo in discussione. Per questo mi sento debitore nei confronti di questi festival, che permettono alla nostra città di entrare in contatto con il teatro internazionale. Short Theatre rappresenta inoltre l’occasione di avere accesso a questo genere di programmazione a prezzi ridotti e accessibili.

Puoi raccontarci "Partschótt"? Come e perché nasce questo lavoro e cosa vuole trasmettere?

Il lavoro nasce esattamente la mattina del 30 ottobre 2018, quando, accendendo il mio telefono, ho trovato un messaggio di mio padre: una ripresa da un elicottero del bosco dietro al passo di Costalunga, piegato dalla tempesta Vaia che si era appena abbattuta sul Trentino. Mi sono immediatamente sorpreso a cercare e accumulare quante più immagini possibili sul disastro climatico. Col tempo, ho iniziato a recuperare anche foto e filmati di repertorio che ritraessero i miei parenti nel luogo. A partire dal 1965, infatti, la zona di Carezza ha ospitato tre generazioni di vacanze della mia famiglia. Stavo creando un archivio. Lo spettacolo è il fragile tentativo di intrecciare, attraverso una sessione di indagine dell’archivio stesso, tre linee narrative apparentemente non interconnesse: quella della tempesta, quella del fallimento dell’azienda della mia famiglia causato da mio padre, e quella della leggenda ladina di Partschótt. Il tema del fallimento, in tutte le sue declinazioni, connette queste tre linee. Il fallimento è inoltre una delle proprietà insite dell’archivio e del linguaggio in generale. L’archivio indirizza e plasma la memoria nel momento stesso in cui dichiara di volerla conservare. In un certo senso, potremmo affermare che ne determini la morte. Per questo mi interessa il confronto con questo particolare medium.

Come è nata e come è andata la collaborazione con Laura Accardo per "Partschótt"?

Ho incontrato Laura al festival Contaminazioni, organizzato e gestito ogni anno dagli allievi della Silvio d’Amico. Per quella edizione avevamo deciso di coinvolgere gli studenti dell’Accademia di Belle Arti e Laura si era proposta per fare documentazione video. Quella del festival si è rivelata un’occasione virtuosa per far incontrare sguardi distanti, con formazioni diverse. Ci siamo conosciuti al Teatro India esattamente un mese prima della tempesta Vaia. Le chiesi di salire al passo di Costalunga con me per documentarne gli effetti e lei accettò. Nel corso degli anni, la sua conoscenza si è rivelata fondamentale non solo per la cura nei confronti del montaggio video, ma anche per l’apporto a livello teorico e per il suo interesse nei confronti degli home movie e del materiale di repertorio. È proprio questo interesse comune che ci ha avvicinati e ci ha permesso di sviluppare la nostra collaborazione, che successivamente ha prodotto anche “end-to-end”, spettacolo che ha debuttato presso il festival Teatro in Quota questa estate.

Quanto è stato difficile portare al pubblico una vicenda così personale?

Il tema dell’autobiografismo è stato problematizzato sin dal primo giorno di lavoro. Si tratta di un nostro grande punto di interesse. La prima occasione di incontrare il pubblico è arrivata nell’estate del 2019, al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Qui si è subito delineata la difficoltà maggiore che avremmo incontrato anche nelle tappe successive: distanziarsi dal semplice raccontare vicende autobiografiche e porle sotto una lente critica. Rendere il loro utilizzo strutturale, tematico. Uno degli obiettivi che si prefigge il lavoro è spodestare l’immagine di repertorio dalla sua sacralità familiare, per erigerla a simulacro. Ricercarne le crepe, indagare l’inefficacia – e quindi forse l’inesistenza – della memoria. Il materiale di repertorio, infatti, solitamente ci appare come il custode di una storia, che in realtà non esiste. Ne “L’invenzione della solitudine”, Paul Auster scrive: “Le cose assumono un senso solo mettendosi in relazione reciproca”. Le cose, pertanto, assumono senso solo nei luoghi in cui queste relazioni sono possibili. Io sono il luogo in cui le tre linee narrative di “Partschótt” si intrecciano e assumono un senso. Ma nel momento in cui due immagini vengono messe in relazione da un me agente, queste ne creano una terza in chi sta osservando. Non è stato tanto difficile l’avere a che fare con del materiale così intimo e con la sua esposizione pubblica, quanto far fare al materiale stesso lo scarto da una dimensione individuale a una collettiva.

Allo stesso modo, qual è stata la complessità e la soddisfazione maggiore nel realizzare un lavoro così articolato e con così tanti media coinvolti, dove si intrecciano dinamiche personali, sociali e ambientali?

L’archivio di “Partschótt” pesa 1,28 terabyte e copre un arco temporale che va dalla fine del 1800 a oggi. Il lavoro di selezione non è stato affatto semplice. Nella prima fase di prova è stato necessario prendere le distanze dalla materia trattata, per riuscire a guardarla con maggiore oggettività. Successivamente ci siamo ritrovati di fronte a un’enorme quantità di stimoli e possibilità. Il lavoro è sempre proceduto per sessioni di improvvisazione, alternate a giornate di puro montaggio. Vagare all’interno del materiale di repertorio mi ha permesso di avere un nuovo sguardo su di esso e sbloccarne potenzialità drammaturgiche fino a quel momento nascoste (il supporto di Mattia Colucci è stato fondamentale per questo). È stato interessante anche scontrarsi con le problematiche a livello mediale. “Partschótt” è un progetto pensato per il teatro, ma che utilizza diversi vocabolari. Ne risulta un linguaggio in bilico, sospeso, oscillante, e che invita la scena a ragionare per inconsistenza e sottrazione. Queste sono caratteristiche tipiche del fenomeno chimico dell’enrosadira: il rosseggiare delle Alpi all’alba e al tramonto cui cerca di dare spiegazione la leggenda del Re Laurino, una delle nostre linee narrative.

Tornando a parlare di città, cosa ne pensi del panorama romano, sempre rispetto al teatro, alla danza e alla performance? Ci sono altri artisti di cui apprezzi particolarmente il lavoro?

Nonostante la paradossale situazione in cui versa il lato più istituzionale del teatro romano, la città conta molti luoghi preziosi per la crescita di artisti emergenti. Penso, per esempio, a Carrozzerie n.o.t, che ormai da due anni segue il mio lavoro e che per primo mi ha concesso il tempo e le risorse necessarie per metterlo in prova. Carrozzerie entra costantemente in contatto con nuovi giovani registi e attori, favorendone la sperimentazione e permettendo loro di abitare un luogo protetto. Oltre a chi ho citato precedentemente e a chi sarà sicuramente già noto ai più, ammiro le persone insieme a cui sto crescendo e con cui ho avuto l’occasione di lavorare in questi due anni successivi al diploma. Ragazze e ragazzi non per forza provenienti dal mondo teatrale. Penso a Lorenzo Quagliozzi, Alessandro Businaro, Carlotta Gamba, Dario Felli, Evelina Rosselli, solo per fare alcuni nomi. Citare tutti i giovani talentuosi che ho incontrato e continuo a incontrare sarebbe impossibile.

Dopo Short Theatre a cosa lavorerai?

Il giorno dopo il nostro debutto partirò per Beirut, per frequentare il DLM, un laboratorio per giovani registi provenienti da varie città del Mediterraneo. Tornato in Italia, lavorerò come assistente alla regia per “Au bord”, spettacolo diretto da Valentino Villa che debutterà al Romaeuropa Festival il prossimo ottobre. Nel frattempo, continuerò il mio percorso universitario. Sto ancora imparando a trovare l’equilibrio tra la mia carriera d’attore e quella da regista. Non ho intenzione di abbandonare una delle due strade.