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Consigli per gli ascolti #7

Scoperte, novità, dischi oscuri e colonne sonore del 'lockdown' scelti e commentati per noi da musicisti, direttori artistici, negozi di dischi, etichette e radio indipendenti

Geschrieben von Chiara Colli il 12 Mai 2020
Aggiornato il 13 Mai 2020

Henry Rollins in quarantena nel suo basement

Puntata #3

 

CIRCOLO MAGNOLIA


È il tempio per la musica internazionale, perlopiù indipendente, a Milano e in Italia. Una certezza, un riferimento sul territorio la cui crucialità è così costante, radicata nel tempo e integrata nella quotidianità da rendere la sua chiusura temporanea ogni giorno più assordante. Nel 2020 il Circolo Magnolia compie 15 anni e la stagione estiva era lì in attesa di essere goduta da maggio a settembre. Qualcosa salterà, qualcosa verrà posticipato, quello che è certo è che per la musica live è in assoluto una delle cose che più manca a Milano. Il team ci consiglia questo disco.


Rares – „Curriculum Vitae“ (Needn’t, 2020)
Non dev’essere facile essere un musicista di questi tempi. Per questo ci piace parlare di un disco – bellissimo – uscito recentemente, nel bel mezzo di questo periodaccio. Si tratta di “Curriculum Vitae”, l’esordio di Rares, giovane cantautore di stanza a Bologna. Se non sopportate la musica italiana, l’indie e i testi sulla tipa che ti ha lasciato non preoccupatevi: Rares non è nulla di tutto questo. Prodotto dal king del lo-fi milanese Marco Giudici (Any Other, Halfalib), “Curriculum Vitae” racchiude 11 brani pop, ma di quel pop scazzato à la Yellow Days, con accordi rubati al jazz e vocione baritonale in bilico tra soul ed emo. Il punto forte di Rares è proprio questo: fa indie-pop e canta in italiano, ma non cade mai nei cliché della scena.

DANIELE RUMORI


La prima cosa che viene in mente con nome Daniele Rumori è la mitica Homesleep che tra gli anni 90 e il 2000 pubblicò alcune delle band italiane che hanno segnato la storia dell’indie nazionale come Giardini Di Mirò, Yuppie Flu, Julie’s Haircut, Fuck, Cut e Midwest. Ma Daniele, originario di Ancona, oltre ad aver intrapreso da qualche anno la carriera di barman (potete passare a trovarlo da Guero), oggi è anche e soprattutto uno dei gestori del Covo, il club situato nel cosiddetto “Casalone” di viale Zagabria nato negli anni 80 tra creste e anfibi e oggi simbolo di un attitudine “indie” senza tempo.


Purple Mountains – „Purple Mountains“ (2019, Drag City)
Ho sempre pensato che c’è una canzone di David Berman buona per ogni momento della mia vita. Così, anche durante la clausura forzata, mi rifugio nella sua musica e, se devo scegliere un disco che meglio rappresenta lo stato d’animo di questi giorni, non posso che pensare a “Purple Mountains”. Non ho amato questo disco particolarmente quando è uscito. Lo aspettavo, come tanti, da più di 10 anni, ed il primo ascolto mi ha come minimo turbato: non è facile vedere uno dei tuoi idoli ridotto a uno stato super depressivo. Certo, mai avrei pensato che si trattasse di una lettera d’addio. Quando ho saputo del suo suicidio, ho praticamente smesso di ascoltarlo, buttandomi invece, in maniera anche un po’ ossessiva, sulla discografia dei Silver Jews. Oggi, invece, questo disco è costantemente uno di quelli che ascolto di più. Forse perché mi piace il contrasto forte che c’è tra la sua musica e le sue parole. Sembra quasi un disco allegro, se non si facesse caso ai suoi testi. Così come questa sembra quasi una vacanza, se non si pensasse a tutto quello che succede fuori dalle mura domestiche…

DIEGO MONTINARO


Appassionato di ciclismo e fan di Boris Becker, da anni Diego Montinaro è una figura chiave trasversale per la musica (e la notte) a Milano. Oggi è direttore artistico di quel fondamentale crocevia di suoni, persone, idee e progetti di nome Radio Raheem (per fortuna attivissima in questi tempi di isolamento e distanza sociale) e divulga suoni dal jazz alla techno fino al rap con lo pseudonimo Parker Madicine e il duo Microspami. In passato è stato anche direttore artistico di Santeria Toscana 31 e del Tunnel, dalla ripartenza dal 2009 sino al 2015.


John Carpenter ‎– „Big Trouble In Little China“ (Original Motion Picture Soundtrack/Enigma Europe, 1986)
Come molti noi in questo strano periodo ho parecchio tempo per pensare e spesso anche di farmi avvolgere dai ricordi del passato, proprio l’altra sera in cerca di un film da vedere, anzi da „ri“ vedere, la mia scelta è caduta su una pellicola che ho sempre amato tantissimo, forse perché legata alla mia infanzia o forse perché semplicemente è un film che mi ha divertito sempre tantissimo: „Grosso Guaio a Chinatown“, del regista John Carpenter, del 1986. Rivedendolo mi sono subito reimmerso nella sua incredibile colonna sonora, che Carpenter curò personalmente (qui co-autore con Allan Howart), come anche per altri incredibili film/colonne sonore come „District 13“ o „Escape From New York“ (rispettivamente del 1976 e 1981). Per tutti gli amanti del „suono“ di serie tv come „Stranger Things“, tra suoni elettronici, sintetizzatori e drum machine anni 80, ecco una piacevole scoperta di un artista molto più di altri ha influenzato un certo tipo di suono nei decenni a venire.

GIUSEPPE GIANNETTI


Se a Roma c’è ancora spazio e pubblico per il rock’n’roll dal sottosuolo – italiano e internazionale – che fa rima con garage, punk e psichedelia, la responsabilità è in gran parte sua. Direttore artistico di quell’adorabile covo di chitarre ruvide e fumose che è il 30Formiche, uno dei baluardi per la resistenza delle sottoculture capitoline, Giuseppe Giannetti è anche direttore artistico, ormai da qualche anno, della rassegna estiva Villa Ada – Roma Incontra il Mondo – di cui aspettiamo con impazienza di scoprire gli esiti per questa stagione imminente.


Paul Jacobs ‎– „Pictures, Movies & Apartments“ (Stolen Body Records, 2017)
Eh si, in questo pazzo mondo digitale di synth, campionatori e virus, noi la chitarra non l’abbiamo ancora abbandonata. Ecco perché nello scegliere il disco da consigliare a un popolo che si prepara a fronteggiare una psicosi di massa armato solo di vecchie care paranoie individualiste, devo partire da questo parametro. I successivi principi di selezione sono la poca notorietà del disco e, per la prima volta nella storia delle classifiche della mia storia, non deve essere legato a un anno di uscita, quindi elimino senza colpo ferire tutti quelli tra i papabili usciti negli ultimi 3 anni. Dopo un’altra infinita serie di considerazioni e passeggiate in salotto, eccolo! Mi resta in mano un solo disco. I Paul Jacobs non so se sono ormai famosi, ma sicuramente meno di quello che meriterebbero e sicuramente non lo erano nel 2016, in compenso sono sempre stati canadesi. Tutto gira attorno alla figura del cantante e chitarrista che si fa chiamare casualmente Paul Jacobs, autore di tutti i pezzi e dell’immaginario grafico che ricorda un po’ le visioni di Daniel Johnston. Paul nasce in realtà con un altro nome ma soprattutto come batterista, e pubblica (diy) una sfilza di album da solista accomunati da un filo conduttore ingombrante: la follia. Avete presente quella chitarra che sembra dover coprire le voci immaginarie che turbano chi la suona? Ecco, questa sensazione è evidente anche in „Pictures, Movies & Apartaments“, che nonostante sia un disco più strutturato e suonato da una “vera” band non riesce a scalfire la matrice schizofrenica dell’inspirazione di Paul. Il disco è decisamente figo, che è poi il motivo principale di tutto sto sproloquio, il garage psicotico si alterna a un cantato lo-fi avant popster, si passa dal martoriare la batteria a melodie storte ma coinvolgenti, da cori scazzati a effetti imbarazzanti gestiti da un bambino di massimo 3 anni, ogni brano termina con uno schiaffo ma tutto resta fragorosamente avvolgente e intriso di quell’affascinante atmosfera tipica del più puro DIY. Ho avuto la fortuna di conoscerli in una nottata delirante, non ricordo niente di quelle ore… Tantomeno il vero nome di Paul, ma ho la sensazione che sia uno ok e totalmente fuori di testa. Ecco temo che la miglior terapia alla psicosi sia la follia: in questi giorni ho ripreso a far girare spesso questo disco… E domani videochiamo Paul.

INFERNO STORE


Inferno Store sono Claudia Acciarino e Martina Ronca, eredi indefesse dello storico Hellnation, crocevia assoluto a Roma e in Italia per le sottoculture punk, hardcore e skin. Lo spazio in via Nomentana è ancora oggi un riferimento per quel genere di suoni e punto d’incontro per persone, progetti ed espressioni varie ed eventuali „dal basso“ della cultura DIY. Pur con il negozio chiuso come tutte le altre attività in questo periodo, Inferno continua a fare divulgazione con podcast e dirette, continuando a lavorare su idee per nuove autoproduzioni e per future iniziative.


Quakers and Mormons – „Funeralistic“ (Anemic Dracula Records/Sons Of Vesta, 2012)
Duo electro-hip hop sorprendentemente italiano, sottovalutato come tanti altri, nonostante l’altissima qualità e cura non solo della produzione e negli arrangiamenti, ma anche nella capacità di scrittura di brani altamente catchy, nel senso più buono del termine. Ad ogni modo aleggia in questo disco, prodotto da una delle etichette tra le più importanti e coraggiose dell’underground italiano (Sons Of Vesta), un piglio scuro, ossessivo e in qualche modo rituale, mischiato a ritmiche dubstep e drum‘n’bass, dal un sapore swing e soul. Atmosfere rétro, malinconiche e un sentimento di oppressione che possiamo riscontrare e apprezzare in questo momento di isolamento collettivo. Un invito a ricordarsi anche di come eravamo, come siamo stati musicisti (chi più, chi meno), di come siamo sicuramente fruitori di musica strana, di come pensiamo la cultura e l’intrattenimento in modo non convenzionale. L’Italia è stata sempre avamposto di avanguardia, con un suo modo di creare e fare proprie le mode e le inclinazioni estere. Non dimentichiamo chi eravamo, magari riscopriamolo, per ripensare noi stessi e la nostra comunità nel poi.
Nobody knows the real identity of Quakers and Mormons. Only their Verb is known. Is the End the real end? the answer is in Faith

PAOLO SPACCAMONTI


Le sonorizzazioni con Stefano Pilia e Julia Kent, i reading con Emidio Clementi, i dischi (e i live) con Paul Beauchamp, Ramon Moro e Jochen Arbeit, le collaborazioni con Ben Chasny, Damo Suzuki e Jim White, la musica per il cinema e la tv. Paolo Spaccamonti non si ferma un attimo nell’esplorare le potenzialità della sua sei corde, che in realtà abbiamo innanzitutto imparato ad apprezzare come „colonna sonora“ degli angoli più solitari, oscuri ed essenziali dell’io. L’ultimo e ancora una volta notevole album da solista del compositore torinese è uscito lo scorso settembre e si intitola „Volume Quattro“.


Last Ex – „Last Ex“ (Constellation, 2014)
La genesi di questo disco è interessante perché appartiene alla categoria “musiche da film scartate” di cui fanno parte compositori illustri, non ultimo il compianto Jóhann Jóhannsson che nel 2017 venne clamorosamente sostituito in corsa da Hans Zimmer per il nuovo „Blade Runner“. Ai canadesi Timber Timbre succede una cosa simile con il film „The Last Exorcism“. Durante la lavorazione della soundtrack, infatti, qualcosa va storto e la band viene licenziata. Passa un po‘ di tempo e due di loro (Simon Trottier e Olivier Fairfield) decidono di rimettere mano a quel materiale: nasce così il duo LAST EX e il relativo disco omonimo. Un lavoro scuro, elegante, magnetico e completamente strumentale, che in alcuni passaggi supera addirittura la band madre. Nonostante il marchio Constellation a garantirne qualità e spessore però, Last Ex viene ignorato da critica e pubblico. A chi non lo conosce consiglio quindi di dargli una chance.



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