Titti Santini Ph. Ray Tarantino

Silvio Santini (classe 1956), conosciuto come Titti, ha trasformato una giovane passione per la musica nella professione di impresario discografico. Attivo nel milanese dagli anni Settanta, oggi è noto alla città per aver contribuito all’avviamento di festival come Piano City e JazzMi, che trovano in Volvo Studio Milano una delle loro tante case.

Il jazz per me è un modo di vivere, non è un dogma, non riesco ad essere ortodosso. Mi piacciono le aperture, e credo che siano l’essenza del jazz.

Ciao Titti, come ti sei rivolto alla musica? Suoni anche tu?

Sono arrivato alla musica partendo dalla passione, cresciuta grazie alla radio, alla fine degli anni Sessanta. Ho memoria di lunghissimi ascolti di ciò che passavano le radio notturne, i programmi Supersonic o PopOff, ma in generale c’erano numerosi conduttori bravissimi – Paolo GIaccio, Raffaele Cascone, Carlo Massarini e Massimo Villa, per esempio. Invece non ho mai suonato, però ho sempre pensato che avrei lavorato con la musica, con la passione di un ragazzo cresciuto ascoltandola.

Hai fatto degli studi specifici?

No, ho iniziato direttamente ascoltando musica e poi condividendola con gli amici, in uno spazio che spontaneamente è diventato un locale.

Ti riferisci a Ponderosa Ranch?

Sì, lo gestivo con mio fratello, di un anno più grande di me, ed era un punto di incontro per giovani come noi che volevano ascoltare musica. Erano gli anni Settanta ed eravamo fuori Milano, vicini a Castelseprio. Non era un luogo così industrializzato, c’era solo questo spazio in mezzo ai boschi che aveva aperto in origine mio padre. Quando lui è mancato noi abbiamo continuato a tenerlo aperto, portando sul bancone un giradischi per mettere musica, molto liberamente, eravamo in mezzo al nulla, senza regole. Era molto bello aggregare i giovani con la musica. Senza che ce ne rendessimo conto allora, era un centro sociale spontaneo. In un secondo momento abbiamo iniziato a fare musica dal vivo, verso la fine degli anni Settanta. Ma io stavo già affinando le mie preferenze per la musica jazz, iniziavo a frequentare la scena newyorkese.

Come sei arrivato a New York?

Volevo fare il salto, dai boschi del varesotto alla città.

E hai scelto la più città delle città.

Esatto. Il locale era un lavoro semi stagionale, con una lunga chiusura nei mesi invernali. Così ho iniziato a passare gli inverni a New York frequentando l’ambiente jazzistico, stringendo amicizie importanti con musicisti che poi invitavo in Italia a suonare. Piano piano questo aspetto della mia vita è prevalso sul tenere aperti dei locali – perché nel frattempo avevo aperto un secondo club, dedicato al jazz, all’Isola d’Elba. Tra il 1993 e 1994 ho lasciato i locali e la produzione musicale è diventata preponderante.

Quando hai fondato Ponderosa Music&Art?

Diciamo da subito, tra 1986 e 1987, quando invitavo al locale musicisti che in Italia non si vedevano da nessuna parte come Wayne Shorter, The Crusaders, Mike Stern a Michael Brecker, iniziavo a farli girare. Si apriva in quel periodo anche la possibilità di lavorare con i comuni: l’assessore alla cultura del Comune di Varese fu il primo che mi propose di fare concerti nei Giardini Estensi, e così iniziammo a uscire dal locale.

Cosa intende “Art” nel vostro nome?

A me piacciono tutte le forme d’arte, ma soprattutto la loro mescolanza, e ci sono moltissimi musicisti che si dilettano, nel bene e nel male, con altri linguaggi artistici. Così abbiamo iniziato a fare delle mostre ibride. Sono sempre stato vicino ai fumettisti, per esempio alla morte di Andrea Pazienza abbiamo organizzato all’Ansaldo [attuale BASE, Spazio Ex Ansaldo, ndr] una mostra con le sue tavole ma anche molti spazi per la musica. Poi per anni ci siamo occupati delle mostre di Milo Manara. Altri esempi sono le mostre di quadri di Miles Davis e di John Lurie di The Lounge Lizards. A Lurie dobbiamo la copertina della prima edizione di JazzMi, rassegna che ho sempre cercato di ibridare con mostre e proiezioni.

Oltre a Ponderosa, che è una struttura permanente, sei coinvolto in numerosi festival, come JazzMi che citavi, e che continuano a sommarsi e crescere in dimensioni corali.

Un’altra cosa che ci piace sono i luoghi, e negli anni abbiamo sviluppato un buon talento nel legare la musica a luoghi specifici. Non siamo mai stati spinti a fare gli stadi, ed è stata una scelta di impatto, abbiamo sempre lavorato su spazi connotati, per esempio Villa Arconati, con cui collaboriamo ad un festival fin dagli anni Ottanta. Abbiamo sempre pensato che la musica potesse valorizzare luoghi altrimenti vuoti. Come sembrano scontati oggi questi discorsi!

Hai un festival preferito?

Forse la rassegna La Musica dei Cieli, che nasceva per far incontrare molto semplicemente persone e musicisti provenienti da tutto il mondo, attraverso la spiritualità, raccontata da sonorità diverse. Ha sempre avuto un messaggio forte, e volevamo fosse un veicolo di conoscenza, un contributo alla vita socio-culturale della regione. Si tratta di un programma di musiche, suoni e canti religiosi da tutto il mondo, che vengono performati in edifici sacri nei dintorni di Milano. Anche in questo caso i luoghi sono molto importanti, si tratta spesso di chiese dove non si sentono più cori né musica, e tra l’altro in queste occasioni le illuminiamo al contrario, all’antica, con le candele che dal basso mandano la luce verso l’alto. Poi la politica è entrata a gamba tesa e ora è una rassegna meno varia, ma pensa che il primo a sostenerla fu Philippe Daverio, quando era assessore per la Lega a Milano.

E come sei arrivato a JazzMi?

Eccoci, sì, ero molto affezionato al Festival Jazz che organizzava Leo Wächter al Ciak [cinema-teatro da lui aperto in via Sangallo nel 1977, ndr] con il quale lavorai alla fine degli anni Ottanta. Quando è morto Wächter ho lasciato stare. Però quando sono arrivato a sessant’anni, ancora senza un festival jazz a Milano, ho pensato di proporlo di nuovo. Il jazz per me è un modo di vivere, non è un dogma, non riesco ad essere ortodosso. Mi piacciono le aperture, e credo che siano l’essenza del jazz.

Alcuni anni fa hai parlato del fatto di essere un impresario, e della vivacità del mercato discografico italiano. Oggi com’è la situazione?

Dipende dal punto di vista. Per le imprese discografiche credo sia difficile lavorare in questo momento, ma anche questo è relativo: le major, quelle con volumi di catalogo enormi non sono mai andate così bene. Per le piccole etichette le revenue che vengono dagli streaming sono così ridicole, talmente misere che qualsiasi investimento è davvero difficile da recuperare. Si assiste pertanto ad una nuova forma di schiavismo, i giovani musicisti devono concedere all’etichetta, anche alle major, una percentuale altissima di diritti

D’altra parte la scena è vivace, anche troppo, perché ogni singolo individuo con due click può caricare online la sua musica e diffonderla. Auto-pubblicarsi è facile, però non è così scontato procedere, lavorare bene da soli. In questo non aiuta la deregulation, che toglie supporto a quelle imprese più piccole e indipendenti che potrebbero dialogare e raccogliere meglio la complessità del panorama amatoriale.



In questi giorni c’è la finale di Jam The Future, e poi inaugurate l’ottava edizione di JazzMi. Quando è iniziata la collaborazione con Volvo Studio, e qual’è stata la scintilla?

Noi cerchiamo spesso partner che sostengano le nostre iniziative. Volvo per me è come sfondare una porta aperta, ne sono un ammiratore da tantissimi anni, proprio per i valori che infondono in ogni progetto. La sicurezza, l’affidabilità, la solidità. Così quando ho intuito la possibilità di lavorare con loro ci siamo buttati, e abbiamo ottenuto ottime risposte, che ci hanno permesso di lavorare insieme per JazzMi, ma anche per Piano City. C’è una profonda condivisione alla base, sia tra le imprese, sia tra di noi, tra le persone. Trovo tutti loro molto coraggiosi, si impegnano con passione in progetti che vanno ben oltre il marketing.

Rispetto a Jam The Future, concorso che porterà a JazzMi un gruppo emergente: come ti relazioni con la musica nuova, e i musicisti più giovani?

Cerco di ascoltare  sempre, ma ho sempre meno tempo e quindi ora un po’ meno del passato. Se non ascolto io c’è qualcuno del grande team di Ponderosa. Io a volte mi soffermo sui progetti già avviati, e lascio che la ricerca sia corale.

 

E fisicamente dove vai ad ascoltare musica a Milano?

Mi piacciono i club e mi piacerebbe ci fosse più musica dappertutto, una scena più articolata. Mi piace la musica afro e quindi vado al Biko, oppure in Santeria, all’Alcatraz, al BluNotes o in altri luoghi dove ci sono concerti che mi interessano, ma servirebbero più locali con musica dal vivo  anche per i musicisti appassionati alla ricerca di un pubblico con cui condividere le proprie emozioni. A Milano ho visto aprire posti che volevano fare musica come un business, senza una passione personale e non sono durati. Invece quelli che hanno la buona volontà di voler promuovere la musica live si scontrano con il caro affitti, che non permette la sostenibilità dei luoghi dove si fa cultura, oltre a norme contro il rumore e permessi vari che rendono tutto complicato. Frequentare i locali aiuta a mantenere un contatto con la musica, la vita e i giovani, osservandone i gusti e le potenzialità.

Altro aspetto che entra in questo discorso è l’educazione alla musica, che un po’ mi sembra mancare. Nei paesi dove l’educazione musicale nelle scuole e’ più valorizzata vedo un maggior interesse a seguire la musica dal vivo, una maggior curiosità per diversi generi. Un dato positivo è che i ragazzi e le ragazze suonano! Sembra che le vendite di strumenti siano sempre in aumento.

Ultima domanda, so che sei cresciuto nel varesotto, ma che rapporto personale hai con Milano?

È sempre stata all’orizzonte, a quaranta minuti di treno con la nord. Oggi ho l’impressione che sia una città troppo centrica, io l’ho sempre pensata includendo le periferie, e non intendo Quarto Oggiaro o Baggio, ma proprio Saronno, Monza… Dovremmo sentirci a Milano anche lì, aprire per sprovincializzare. Dovrebbe essere più agile muoversiServono più infrastrutture pubbliche o una migliore attivazione di quelle che abbiamo  (impensabile che dopo le 21  sia così difficile il rientro con i mezzi nei centri in un raggio di 20-30 km!). Amo molto Milano e un certo tipo di milanesità che non si lamenta, intraprende, attenta al sociale e che ha energia per fare cose belle. Tuttavia vedo dei limiti, soprattutto urbanistici. La vedo stretta, a volte con il fiato corto, spero nei nuovi polmoni verdi negli scali ferroviari, ma soprattutto nell’apertura dei confini comunali e di nuovi parchi di cui sentiamo tutti fortemente il bisogno.