Questa XXII edizione della Triennale curata da Paola Antonelli, – curatrice per l’Architettura e il Design e direttore Ricerca e Sviluppo del Museum of Modern Art di New York – insieme al team composto da Ala Tannir, Laura Maeran ed Erica Petrillo, e allestita da Studio Folder e Matilde Cassani, è una mostra con uno statement di grande potenza: l’era dell’antropocene sta per avviarsi alla conclusione. La violenza esercitata sulla natura dalla specie umana ha alterato l’ecosistema terrestre fino a un punto di non ritorno, ha innescato dei processi irreversibili che porteranno alla Sesta Estinzione, quella dell’uomo.
Ma che ruolo ha il design in tutto questo? Può salvare l’uomo dall’estinzione? No. Il design è convocato in questa mostra per altri scopi: la sua prima funzione è di natura speculativa, deve aiutare l’uomo a comprendere la natura inevitabile del suo destino e ad accettarla. La seconda funzione è quella di progettare questo avvicinamento alla fine, alla sparizione, nella maniera più elegante, filosoficamente preparata, e razionalmente pragmatica possibile.
Il contrario, per intendersi, dei miliardari della Silicon Valley che a quanto pare stanno acquistando e recintando atolli neozelandesi ricchi di risorse, e li riforniscono di armi micidiali per respingere le masse che tenteranno di contendergli le scorte di sopravvivenza.
È fondamentale progettare scenari alternativi alle distopie messe in scena da opere come I figli degli uomini di Cuaron, con masse di profughi in fuga da catastrofi naturali e politiche sottoposti a violenze inenarrabili, in lotta per le ultime scarsissime risorse sulla terra, e una popolazione umana integralmente sterile.
Non siamo abituati a un atteggiamento intellettuale di questo genere: è come se dalle nostre parti la precondizione per progettare fosse obbligatoriamente legata a una forma di ottimismo fideistico. Un ottimismo che ormai ha del sinistro, un ottimismo stolido costituito da una componente cosiddetta realistica, che assume che l’unico sistema possibile per stare al mondo sia questa forma di sviluppo estrattivo oggi dominante, e dal corollario – che ormai fa letteralmente acqua da tutte le parti – che il modello non sia autodistruttivo. Quello che Mark Fisher nei suoi saggi chiama Realismo Capitalista, appunto: There is No Alternative (TINA), ma ci salveremo lo stesso.
È evidente che se l’energia e le forze per progettare continueranno a scaturire da questa unica piattaforma ideologica stantia, i progetti saranno sempre più irrilevanti e noiosi – lazy design, direbbe Paola Antonelli. Il buon design, quello selezionato per la mostra, nasce da una posizione scettica, dal pessimismo che induce a cambiare le cose e i comportamenti. Come i tre grandi lavori di Neri Oxman, Formafantasma e Sigil Collective, che « che mirano a correggere il corso autodistruttivo dell’umanità ma anche a ripensare la nostra relazione con l’ambiente e con tutte le specie presenti sul pianeta, inclusi gli esseri umani». Il progetto della Oxman utilizza la melanina come materiale da costruzione per dimostrare la fallacia dei pregiudizi, Formafantasma interviene sul ciclo dei rifiuti elettronici, Sigil Collective sulle migrazioni di uomini e uccelli, analizzando le trasformazioni del paesaggio arabo. Ma accanto a queste ricerche commissionate dalla Triennale, Broken Nature espone più di 120 progetti prodotti negli ultimi 30 anni, in alcuni casi addirittura pietre miliari del design ricostituente, tra cui Hippo Roller di Pettie Petzer e Johan Jonker, il progetto residenziale Quinta Monroy di Elemental, la visualizzazione interattiva Wind Map di Fernanda Viegas e Martin Wattenberg e il sistema open source e low cost di eye-tracking/oculometria EyeWriter di Zach Lieberman.
A questa moltitudine vanno aggiunte le mostre dei quasi 30 paesi stranieri partecipanti, che culminano nel padiglione della potentissima Nazione delle piante, a cura di Stefano Mancuso. L’assunto di base di questa ultima esposizione immersiva è un drastico ribaltamento del senso comune: non ha senso guardare al mondo vegetale come vittima dell’uomo, ma come modello di forza. «Le Piante esistono sulla Terra da molto più tempo di noi, si sono meglio adattate e probabilmente ci sopravvivranno: nella loro evoluzione hanno trovato soluzioni tanto efficienti, quanto non predatorie nei confronti dell’ecosistema in cui noi, assieme a loro, viviamo». La liberazione dal copione vittimario permette di osservarle con occhi nuovi, di imparare – secondo una formula postmoderna molto fortunata – da loro.
Scritto da Lucia Tozzi