Più che un’etichetta, una dimensione a parte. Che dialoga a suo modo con quella concepita come reale da noi comuni mortali, ma comunque altra. Artetetra sono Luigi Monteanni e Matteo Pennesi: entrambi marchigiani, oggi con “residenza fiscale” a Milano dopo un passaggio a Bologna dove hanno lasciato a loro modo il segno con la rassegna Giardino Magnetico. Con un nome che ormai circola da qualche tempo nel circuito “underground” (non soltanto italiano) e quasi trenta release pazze perlopiù su cassetta, Artetetra sta rivisitando le coordinate spazio-temporali della “musica dal mondo”, partendo da una certa passione per esotismi e tropicalismi, incrociandola con un presente iper-connesso, un’attitudine al diggin compulsivo e dosi massicce di auto ironia.
Linguaggio ed estetica super weird, spesso sopra le righe, eppure molto più aderenti alla fluidità del presente di quanto non siano altri discorsi “artistici” più tradizionali nei codici di riferimento usati. Un interesse sinceramente volto alla contaminazione e alla perlustrazione di nuovi percorsi musicali, che non solo gli è valso l’interesse dei vari Simon Reynolds e di Club To Club, ma che anche nelle parole che seguono conferma come la label sia una delle realtà più originali, consapevoli e per molti versi pioneristiche nate negli ultimi anni in Italia.
In occasione di due nuove uscite pubblicate a inizio febbraio, (Kuthi Jin e Rainbow Island) e di un’agenda live che inizia a farsi sempre più fitta grazie alla collaborazione con Standards, Artetetra si racconta attraverso un glossario, la (ri)definizione di Musica del Quinto Mondo, l’influenza del contesto di provincia da cui arrivano ma pure una valanga di altre etichette incredibili da varie parti del globo, il punto di vista sui supporti musicali passati e presenti e quello, lucidissimo, su Milano. E se vi dicono che sono solo «una banda di cowboy drogati dalle Marche» credetegli, ma solo fino a un certo punto.
Cosa fate nella vita vera - se ne avete una - e da quale tipo di background, musicale e culturale, provenite?
Ma dobbiamo proprio iniziare così l’intervista? Ok, allora, nelle quasi CINQUANTA ore settimanali che tra tutto ci strappano dal “Quinto Mondo” Matteo fa l’automation analyst (…) e Luigi fa il ricercatore qualitativo (…). Entrambi proveniamo dalla Marca cosiddetta “sporca”, precisamente da una piccola città di nome Potenza Picena sulla costa maceratese, vicino a quello che era il più grande centro di produzione di organi Farfisa del mondo e che pare detenga il primato – ma probabilmente è falso – di città con la più alta percentuale di disabili d’Italia, nonché il privilegio di un radar americano usato per sorvegliare l’ex Jugoslavia che porta il nome di “Bracco”, dedicato a Snoopy – questa è vera. Ci piace pensare che la vibe è un po’ a metà tra i film di Ciprì e Maresco e quella delle pellicole di Harmony Korine. Abbiamo sempre suonato insieme dall’era delle cover band: mentre Matteo studiava pianoforte al conservatorio, Luigi era occupato con un paio di band metal. Poi abbiamo iniziato a suonare in quello che si sarebbe rivelato, intorno al 2014, Babau.
Quando è nata Artetetra e perché? Non solo nelle scelte specifiche delle uscite ma proprio nella visione complessiva, c'è qualcosa di davvero innovativo e altrettanto contemporaneo nell’etichetta, nei linguaggi sonori e visivi che usate. C’è un po’ la tendenza di anticipare il futuro, di andare oltre alcune convenzioni…
Artetetra nasce pressappoco cinque anni fa. Stavamo lavorando a quello che sarebbe diventato il primo – e per ora unico, alas – Ep di Babau e nel frattempo frequentavamo i circuiti dell’underground maceratese: Onlyfuckingnoise e tutto il resto, che ci aveva portato anche a suonare con Tetuan e a voler fare le prime autoproduzioni, principalmente cassette. Non lo abbiamo mai visto come un progetto editoriale, più come un rigurgito creativo che ci permetteva di fare delle cose in maniera abbastanza distaccata dal quotidiano, che dalle nostre parti era piuttosto basic. Questo ci ha permesso di far crescere l’etichetta a seconda dei nostri interessi, perché procedeva di pari passo con le realtà con cui venivamo in contatto. Per quello che riguarda i linguaggi, siamo partiti ovviamente da tutto quello che classicamente è l’exotica cheesy in senso lato: raccolte di field recording, lounge jazz del dopoguerra e tutte le sperimentazioni in seno alla world music, salvo poi interessarci progressivamente a un immaginario più allargato e se vuoi anche meno serio e codificato. In generale ci piace molto tutto il vernacolo che la saturazione di alcuni media – ad esempio internet – ha generato, soprattutto venendo a contatto con le suggestioni pseudoculturali da cui proveniamo. Da questo punto di vista tutta questa evoluzione ci sembra ancora coerente. Dopotutto, nelle sopracitate 50 ore cerchiamo di stare ultra connessi, se non altro per noia, cosa che forse ha un impatto di un certo tipo anche nella frammentazione e astrazione dei linguaggi che usiamo. Alla fine, forse, il “sopra le righe” viene semplicemente dal nostro calcare la mano su estetiche che sono già incomprensibili ai più, con dei risultati che risultano spesso a cavallo tra l’assurdo, il surreale e il grottesco in senso comico. Per scemo che possa sembrare, questo tipo di riferimenti linguistici per noi ha un nome preciso: Future Pidgin.
Ci sono state delle realtà, italiane e straniere, che hanno avuto un impatto importante sulla vostra formazione e su quello che poi sarebbe stata Artetetra?
Per quanto riguarda l’estero, parlando di etichette, abbiamo iniziato ispirati dal lavoro di Sun Ark, Not Not Fun, Pacific City Sound Visions, Das Andere Selbst, Discrepant, Beer on the Rug, Orange Milk, Carpi Records e Kraak da un lato e dall’altro Ocora, Ideologic Organ, Awesome Tapes From Africa, Finders Keepers, Soul Jazz e Sublime Frequencies. Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo sempre buttato un occhio a quello che c’era quando abbiamo iniziato – Hundebiss su tutte, che poco tempo prima si era occupata di Dracula Lewis, Hype Williams, Fantasmatres e Lil Ugly Mane, tutte cose che abbiamo ascoltato parecchio; ma sicuramente anche Boring Machines, Old Bicycle Records, No=Fi e Gang of Ducks, sono etichette a cui ci sentiamo vicini nelle loro derive più immaginative ed esotiche, che hanno influito soprattutto sul primo Babau. Più di recente, seppure stiamo continuando a sentirci influenzati soprattutto da tutte le correnti digitali relative a queste realtà, ci siamo buttati su cose ancora meno ortodosse: Hoge Tapes, Jahtari, PRR! PRR!, Gorge.In, Duppy Gun prod., Ikuisuus, Hausu Mountain, Kit Records, Pointless Geometry, Bird Friend, Leaving Records, EM Records. Nel frattempo, sotterraneamente, c’è tutta la roba che anche se non è strettamente connessa con Artetetra abbiamo sempre ascoltato: footwork, hip-hop, grime, jazz, jungle e sicuramente il cosiddetto classic rock – Deep Purple e Van Halen su tutti – oltre che alcune derive più estreme del metal: le uniche che ci mettono più o meno d’accordo.
In senso positivo o negativo, il contesto è un’influenza cruciale in tutto quello che facciamo e produciamo, soprattutto in ambito culturale. Posto che l'impressione è che abbiate viaggiato un bel po'... In che maniera la provincia di Macerata e le Marche hanno segnato il vostro percorso? Impossibile non menzionare realtà marchigiane nate dal basso, come Onlyfuckinglabels e Fat Fat Fat, che pur provenendo dalla “provincia dell’Impero” si sono ritagliate uno spazio e un’identità importante per un certo tipo di suoni e contesti laterali in Italia.
Possiamo da subito sfatare il mito del viaggio reale, con tutto che tolte alcune esperienze che più o meno fanno tutti – Erasmus e scambi culturali del caso – ci siamo spostati seguendo un banale percorso di studi, migrando dalle Marche a Bologna e poi Milano. Come accennavamo prima, la provincia ci ha permesso volenti o nolenti di rimanere in qualche modo isolati e coltivare le nostre cose, suonare di più nel tempo libero ad esempio, permettendoci di restare fondamentalmente distaccati se non impermeabili ad alcune delle tendenze che in altri posti erano già sdoganate. In questo senso la “provincia dell’Impero” ti esclude a forza dal mondano – che non esiste o sta ad alcune centinaia di chilometri da te – e per moto contrario ti spinge a forza in tutto quello che sono i minimi cenni di vita della “scena”. Sapersi ritagliare uno spazio è fondamentale in questo senso. Inoltre abbiamo sempre apprezzato, da un lato, il fatto che non puoi rivenderti il solito “based in Berlin” e dall’altro che Potenza Picena finisce per suonare genuinamente esotico.
Oltre queste questioni, però, l’interesse verso quello che facevamo era ed è rimasto fondamentalmente basso, se non per – assai – poche persone che ci hanno supportato dal minuto uno e non solamente a parole. Abbiamo avuto sempre difficoltà a trovare da suonare da allora fino a oggi, per noi tanto quanto per i progetti che pubblichiamo. E purtroppo non solo per banali questioni monetarie e logistiche, ma anche per una preferenza culturale per la musica più muscolare e rock/metal/noise che in quelle zone è sempre andata per la maggiore. Per chi organizza, la voglia di portare le cose di cui ci occupiamo è poca e quella di educare un pubblico a queste possibilità è anche più bassa. Quindi finisce sempre che ci vengono promessi concerti che poi non arrivano mai, o che ogni volta che abbiamo bisogno di suonarci ci dobbiamo organizzare le cose da soli e alla fine magari ci andiamo pure sotto.
Ci sono stati invece dei viaggi che hanno avuto un impatto importante su di voi e sull’etichetta?
Nel 2016 Matteo s’è ritrovato a Bucarest a sentire Jerusalem In My Heart nel bar della sede della nazionale rumena di ping pong e ha conosciuto i ragazzi di The Attic / Outernational festival, che poi ci hanno invitati a suonare più volte e con i quali abbiamo collaborato in varie occasioni e che ci ha permesso poi di suonare al Fusion Festival di Lärz un paio di anni fa. D’altra parte ci sono i due famosi anni all’estero di Luigi: uno a Berlino e l’altro in Indonesia. Il primo, speso il più possibile lontano dal discorso clubbing, ci ha permesso di entrare in stretto contatto col giro della musica sperimentale e impro di influenza in parte nordica: Jealousy Party e Burp Enterprise, Das Andere Selbst e Multiversal. Con il secondo viaggio ancora Luigi infesta la rete a quasi due anni dal ritorno, quindi sorvoliamo. Diciamo comunque che dopo gli studi siamo diventati abbastanza sedentari per mancanza di tempo e denaro, quindi ancora facciamo principalmente le vacanze su internet.
Dal punto di vista strettamente sonoro, anche dell’evoluzione che poi finora in 25 uscite c’è stata, quale tipo di ricerca fa Artetetra? Quello che sembra fondamentale, prima di addentrarci in ulteriori elucubrazioni, è che Artetetra suona come una sorta di laboratorio di ricerca, non c’è un orizzonte specifico a cui guardate ma lo state ridefinendo voi stessi.
Questa è una domanda abbastanza difficile e per questo è fondamentale l’ultima cosa che dici. Laboratorio di ricerca è un po’ forte ma potrebbe essere già abbastanza azzeccato. Ricerca su cosa? Sicuramente su tutto quello che sono le nostre suggestioni personali, dall’esotismo e i tropicalismi vari fino ai Baoqing e le nostre ricerche e interessi individuali. Se dovessimo addentrarci ulteriormente: personalmente non siamo convinti che l’HD abbia veramente qualcosa a che fare con noi, quanto più che alcuni dei progetti con cui ci stiamo relazionando hanno criteri di produzione delle proprie cose che aderiscono a quelle estetiche sonore. In generale crediamo che per ora, almeno approssimativamente, si applichi bene il concetto di “post-post-post-post multi-fi world music” coniato da Mark Gergis per definire i Siquicos Litoraleños: dove multi-fi indica la presenza contigua di più elementi prodotti in modi diversi – sia lo-fi che HD ad esempio – i quali riescono così a generare una certa multidimensionalità tra i diversi layer.
È vero che nella vostra musica c'è un respiro internazionale, ma non c’è una riconoscibilità delle provenienze: tanto gli artisti italiani che pubblicate non sono immediatamente riconoscibili come italiani, quanto gli artisti francesi, russi, sudamericani si confondono come in una globalizzazione democratica e fantasiosa dei suoni. E arriviamo quindi al concetto di Musica del Quinto Mondo. Cosa intendete con questa espressione, a livello più concettuale che ruolo avete dato al mondo totalmente digitalizzato in cui viviamo? Artetetra è anche una sorta di nuova non-mappatura geografica realizzata attraverso il filtro del web?
Siccome non abbiamo una filosofia programmatica e forte ma più che altro un insieme di interessi e influenze, forse la cosa più corretta sarebbe fornire un glossario di pseudo-concetti che utilizziamo spesso tra di noi per parlare di quello che facciamo.
Tabula plena: opposto di tabula rasa, una certa bulimia sonica che spinge a prendere da tutti quanti più stimoli possibili per un patchwork di contenuti difficilmente coerentizzabili – ok, coerentizzabili non è una parola.
Microcomposizioni: la capacità di lavorare su piccoli insiemi di campioni cercando di ottenere suoni meno massivi e corporei ma più cerebrali e dislocati.
Musica umoristica: come sopra, se non ti diverti e non ti fa sorridere quello che ascolti, lo riteniamo un po’ un fallimento.
Human made music (thru machines): di base ci piacerebbe tanto riuscire a produrre, sia noi come gruppo sia come etichetta, roba che suoni più sghemba e liquida possibile. La questione è un po’ quella di tutte le dinamiche e i tempi dilatati degli esseri umani vs quelli troppo dritti e precisi e noiosi delle macchine. Però ci rendiamo conto che ormai il 90% di questi artifici non sono generati dalle band ma dai producer nelle camerette coi sample, quindi va bene così.
Falsa appropriazione culturale / Trve Exoticism / civiltà immaginarie: ci piace chiaramente anche l’esotico in senso abbastanza radicale, utilizzare tradizioni reali – proprie o altrui – o al contrario puramente inventate per creare qualcosa con una sua identità, ma che viene letteralmente da un’altra dimensione, per una sorta di finta e continua appropriazione culturale immaginaria.
Nat-Geo/ Digi-Turismo / Kitsch Wunderkammerism: un impossibile voyeurismo tassonomico di chi ingenuamente guarda tutti questi stimoli diversissimi e vari. Possibilmente stiamo parlando di una wunderkammer piccolissima ma senza fondo, piena di cose bizzarre e inusuali. Nat-Geo è infatti un ironico errore/gioco di parole dal Neo-Geo di Sakamoto – errore perché Luigi credeva si chiamasse veramente Nat-Geo da National Geographic. Ci sembrava appropriato.
In ultimo, senza fissarci, cerchiamo di far entrare tutto in questa cornice della musica del Quinto Mondo, che è un po’ il “mondo movie del futuro” – sempre relativamente al trip tassonomico / collezionistico / voyeuristico – ma anche un po’ l’idea della Fourth World Music con “realtà aumentata”. Dopo il Quarto Mondo ce n’è un Quinto completamente globalizzato, in cui l’esotismo è dappertutto e da nessuna parte ed è quindi difficile ma stimolante creare qualcosa di veramente fuori dal gimmick che mantenga un’aura esotica non banale e in qualche modo già assorbita dalla normalizzazione culturale. In tutto questo, Internet gioca sicuramente un ruolo molto importante, ma col tempo lo abbiamo progressivamente associato a uno degli aspetti più sintomatici di un fenomeno più ampio, più che identificarlo col nucleo del discorso. Come tutti i mondi, infatti, anche questo è assolutamente reale e ha i suoi problemi. Grazie a Davide e Alberto de Merchants abbiamo infatti scoperto questo: abbiamo capito che “Quinto Mondo” era il termine giusto quando abbiamo realizzato che non siamo stati noi a inventarlo. Esisteva già.
Entrando un po' più nello specifico, all’interno delle uscite pubblicate finora, è possibile individuare dei “filoni”, delle “serie”, diciamo dei discorsi / percorsi sonori e concettuali che aderiscono tutti a una visione comune ma poi la sviluppano, esplicano, in modalità diverse?
Sicuramente per ora si possono trovare delle cose più vicine al filone di “appropriazione/invenzione culturale” e “Digi-Turismo” di cui sopra, alcune relative a quello di microcomposizioni, in cui volendo ci possiamo anche mettere alcune delle nostre cose più ambient dell’inizio, e infine i nostri amati Functional Tool: muzak funzionale per compiere le noiose faccende quotidiane. Per adesso sono solo due e servono a lavare i piatti ma, se dio vuole, con pazienza, ce ne saranno presto altri due legati al fare la spesa. Stiamo a vedere.
Ci sono vari artisti, tanto in oriente quanto in occidente - uno su tutti i Visible Cloaks - che condividono questa sorta di musica in alta risoluzione, estremamente digitalizzata ma che ha anche molti connotati naturalistici – ma che alla fine risulta molto fredda come risultato finale. Artetetra è un’etichetta “ottimista”? Spesso l’accentuazione della digitalizzazione dei suoni e degli orizzonti ha un effetto distopico e quindi tendenzialmente pessimista, voi da questo punto di vista come vi collocate?
Non abbiamo alcun tipo di fascinazione speciale per la tecnologia e le macchine, specialmente se parliamo di musica e, anzi, in generale ci annoiano molto, così come i generi in cui tipicamente vengono impiegate in modo ultra-tecnico. In effetti questo tipo di sonorità ci piacciono molto quando diventano quasi delle parodie di strumenti veri e i suoni sono talmente piatti e bidimensionali da suonare innocui. Da questo punto di vista, nello stretto raggio d’azione di Artetetra, non ci facciamo tanti di questi problemi, principalmente perché da un lato non siamo mai stati grandi fan della “Conceptronica” e ciò che ci interessa veramente è la musica; dall’altro, le teorie vanno bene solo se migliorano il modo di ascoltare la musica. Tutto il resto per noi rimane secondario. Detto ciò, fuori dalla diade natura/tecnologia, Artetetra è un’etichetta assolutamente ottimista contro tutte le “edgy bad vibe” del contemporaneo.
Come fate ricerca? Come scoprite nuova musica e musica da pubblicare? Nel 2017 licenziavate “Exotic ésotérique Vol.2”, che si apriva con la Mauskovic Dance Band, quando praticamente erano sconosciuti e avevano pubblicato mezzo singolo, e anche Los Siquicos Litoraleños, che poi lo scorso anno erano a Le Guess Who?... Li avete anticipati di oltre due anni. La sensazione è che riusciate a precorrere i tempi senza però prendervi troppo sul serio: quali sono le vostre fonti, ma anche cosa è che vi colpisce, cosa cercate nell’attitudine di un gruppo?
Nel frattempo è pure uscita una ristampa in vinile di Gaunin, Mårble sono usciti su Not Not Fun e adesso il nuovo lavoro di Ak’chamel viene licenziato da Akuphone. A volte più che anticipare il futuro e scomodare l’iperstizione, ci capita di pensare che la gente ci guarda i feed su Facebook. A parte gli scherzi, semplicemente cerchiamo di restare più connessi e aggiornati possibile su questo panorama di sonorità peculiari. Questo significa fondamentalmente stare incollati a Soundcloud, Bandcamp, YouTube e affini, scambiandoci di continuo ciò che troviamo. Il tutto parte da una certa bulimia che è sempre presente nel metodo. Il digging virtuale non finisce mai. Con delle basi di “ricerca” del genere è impossibile prendersi sul serio, credo. Per ciò che riguarda l’attitudine dei progetti, cerchiamo semplicemente musicisti affini ai nostri criteri estetici che siano pienamente collaborativi e coinvolti nell’uscita quanto noi. Ci piacciono le persone che riescono ad avere un immaginario forte e, come dici tu, un po’ sopra le righe.
Per quanto riguarda la parte visiva - gli artwork e in generale l’orizzonte che veicolate attraverso le grafiche e le immagini - sentite di avere, o comunque state cercando di costruire, anche un’identità visiva, un’estetica peculiare e caratterizzante?
La scelta di pubblicare tutto in cassetta - e ovviamente in digitale - immagino sia una questione di estetica ma anche di necessità. Cosa vi piace di questo formato e in che modo è coerente con l’attitudine di Artetetra?
Partiamo dal presupposto che la scelta di un formato è guidata da scelte di vario tipo, tutte più o meno pratiche e tutte da tenere in considerazione: ci sono tipi di musica più vicini a determinati formati sia per ragioni estetiche che di affinità culturale – la dungeon synth è storicamente indissolubilmente legata al formato cassetta, ad esempio: sia perché spesso veniva composta e registrata direttamente su nastro magnetico, sia perché i suoni “mediosi” e lo-fi si adattano a quel tipo di sonorità. In questo senso la cassetta da un lato ci ha sempre affascinato per questa aura che dona il nastro scaldando la musica, dall’altra c’è sempre stata la possibilità – non avendo tracce come per i CD e i vinili – di includere delle ghost track che rimangono nascoste fino a che non ascolti tutto il lato. Quando ci doppiavamo le cassette da soli, inserivamo sempre tracce inedite, jam e quant’altro. Chissà se qualcuno le ha mai trovate? C’è poi sempre il rapporto costo-guadagno. Questo soprattutto per tutto ciò che comporta la scelta di un formato per un’uscita: diversamente dal vinile e dal CD, infatti, le cassette costano poco, possono essere prodotte anche in tirature limitatissime e generano un guadagno minimo, comportando anche una distribuzione che per forza di cose diventa più personale; da questo punto di vista qualsiasi uscita in cassetta vive un processo di produzione senza ansie, dove non devi convincere distributori – a cui delle cassette non frega nulla – e record collector che la release è “the next big thing”. Da bravi USB heroes il nostro formato preferito è il CD/digitale, ma i primi non se li fila nessuno – tanto che adesso anche l’industria automobilistica gli ha progressivamente dichiarato guerra – e il secondo, almeno nel nostro campo, non genera né guadagni né interesse da parte dei musicisti a cui chiederemmo di collaborare. Infine, il vinile è un formato che proprio non ci piace: costa troppo, impone una precisa tiratura minima dai costi di produzione molto alti, è delicato, occupa un sacco di spazio in casa, è incompatibile con i nostri stili di vita che ci impongono di traslocare quasi ogni anno e infine necessita di ulteriori, costose tecnologie per poter essere fruito con correttezza. Inoltre vive di logiche di mercato con cui farcisce il processo di uscita con una serie di “intermediari” insopportabili. Questo meccanismo taglia veramente in due il mercato, escludendo quasi a forza alcune delle produzioni che non godono dell’”importanza” donata dal formato vinile. Abbiamo pensato di farne in futuro, purtroppo anche solo per garantire maggiore rilevanza e diffusione alla musica che riteniamo meriti più attenzione. Ma, se mai ne faremo, abbiamo deciso di intitolare la collana “V4D: Vinyl For Dummies“. Infine ci possiamo dire nemici del “merchcore”, dove qualsiasi uscita diventa l’occasione per un’inutile proliferazione di oggetti che con la musica hanno poco a che fare.
E arriviamo alle ultime uscite. A inizio febbraio, più precisamente nel chiacchieratissimo giorno palindromo 02/02/2020, avete pubblicato il nuovo album dei Rainbow Island, “ILLMATRIX”, e “Bee Extinction” di Kuthi Jin. Ce ne parlate? Come si inseriscono nel percorso dell’etichetta?
Giusto per fare qualcosa di disorientantemente in contraddizione con tutto quello che abbiamo detto fino adesso, “Bee Extinction” è un lavoro che continua la nostra tradizione di uscite in cassetta a cura di Kuthi Jin (per i più Kuthi Jinani). Un disco scuro ed estremo se messo a confronto con la classica linea colori&effetti speciali di Artetetra: è un concept album di extreme acousmatic dal tono e sound design decisamente cinematico e chirurgico diviso in tre “movimenti”. Il nastro esplora un universo alternativo / futuro guidato da una Corp produttrice di api artificiali. Nella criptica ma suggestiva mitologia di Kuthi si può definire come “SOUNDS FROM THE THIRD COMING, END OF HUMAN EPOCH”. È un lavoro complesso e decisamente non ortodosso. Ascoltandolo crediamo ci si trovi una cura e un taglio che pochi musicisti possono vantare. Giancarlo è a parer nostro una persona veramente molto dotata e completamente dedita alla propria linea.
Passando invece a “ILLMATRIX”, è il primo album della diaspora fisica e simbolica dei Rainbow Island, gruppo di digital-riddim romano nato intorno al 2013 ispirato dalla psichedelia tropicale e dai videogame – una passione che condividiamo. L’album, più scuro anch’esso rispetto agli ultimi lavori della band, si fonda su una narrativa complessissima e molto personale che ormai ha un po’ definito l’estetica del gruppo. Ognuno dei pezzi segna una tappa nel viaggio dei Rainbow Island all’interno dell’ILLMATRIX, in una sorta di odissea tropical-futurista di dub gorgogliante e riddim aleatori. Rimandiamo direttamente alle note dell’album per ogni approfondimento. Casualmente, entrambe le uscite parlano di multidimensionalità / dimensioni alternative, distopie tecnologiche e malvage Corp. Quale giorno migliore dello 02022020 per far uscire tutto, quindi? Poi, BONUS: a metà marzo aggiungeremo un altro numero al nostro catalogo. La nuova uscita, sempre in cassetta, è un lavoro del duo americano German Army, uscito in collaborazione con Crash Symbols, etichetta americana con cui abbiamo molta affinità. Per questo lavoro, il duo – che ha all’attivo ormai una settantina di album su diverse etichette – ha lavorato su loop presi da LP di world music, ricreando delle tracce elaborate su quella base. Il tutto suona come una raccolta di skit e hit da stazioni radio malfunzionanti e dalla collocazione incerta.
Arrivati dalla provincia maceratese via Bologna, da qualche tempo la vostra “residenza fiscale” come Artetetra è Milano. Siccome ci piacete anche perché non siete allineati: ci sono degli spazi e delle realtà con cui siete riusciti a fare rete, con cui trovate affinità? E invece altri aspetti della città che ritenete distanti dal vostro modo di concepire la musica e la cultura dal basso in generale?
Milano, come molte altre metropoli europee, è una città fondata sul product placement e su un’insopportabile retorica che rende smart e artsy tutto ciò che tocca. Molte volte è estenuante trovare luoghi e eventi che non invadano il tuo campo visivo con cartelloni e slogan che nulla c’entrano con quello che stai per ascoltare. Vedere che la possibilità di suonare e fare cose è soggetta alla quantità di sponsor e bandi è sicuramente avvilente. In tutto questo, ognuno ha la sua propria agenda, e l’interesse reale per le cose che gli altri fanno non è tanto sviluppato, almeno non quanto l’interesse per le proprie. Anche qui abbiamo spesso provato a organizzare cose per noi, ma alla fine ci resta quasi sempre difficile. Detto ciò, ci sono sicuramente circuiti con cui collaboriamo ciclicamente e in cui abbiamo trovato persone genuinamente interessate. Standards e Macao su tutti, se parliamo di luoghi fisici; se parliamo di realtà a noi vicine possiamo citare Heel.Zone, Clam, Hundebiss e Invernomuto, Ansia, Heimat Der Katastrophe, Quanto, Pampsychia, Haunter, Communion, Rainbow Cage, Melma e Zuma.
NOTA: questa è di solito la parte in cui dimentichiamo qualcuno. Non odiateci in silenzio sulle chat e scriveteci.
Da qualche tempo state anche curando degli appuntamenti live, una cosa che facevate già quando eravate a Bologna e che a Milano ha trovato la propria casa a Standards. Non è scontato per un’etichetta abbracciare anche la dimensione dal vivo, cosa significa per voi? Come è nato il rapporto con lo spazio di via Maffucci e che tipo di collaborazioni future possiamo aspettarci?
L’esperienza di Giardino Magnetico con Gallleriapiù, Communion e Islands è stata veramente memorabile per noi. Siamo entrati in contatto con un sacco di musicisti e persone fantastiche e ci siamo divertiti un molto. Per noi organizzare cose è un’attività assolutamente connaturata a tutto quello che facciamo. Significa coltivare il nostro network di interessi e contribuire alla costruzione di una comunità, oltre che essere un’occasione per aiutare degli amici. Per ora la collaborazione con Standards ci ha permesso di portare Star Searchers e adesso Yader in un programma che già è strapieno di cose interessanti e che seguiamo tutte le volte che possiamo. Il tutto è nato dalla nostra conoscenza pregressa con i ragazzi e dal fatto che quasi un anno fa abbiamo preso uno studio lì. Ormai è il nostro HQ. Un’altra collaborazione nata negli ultimi anni è quella col sound system maceratese Bass Unity e Casa Galeone proprio a Potenza Picena. In questo modo abbiamo una scusa migliore per scendere nelle Marche quando ce lo chiedono.
C'è stato qualche episodio fuori dal comune che vi è accaduto - o almeno che credete vi sia accaduto - che ha avuto conseguenze udibili o tangibili su Artetetra?
Udibili o tangibili non sappiamo. Abbiamo avuto modo di organizzare la presentazione di “Polvere di stelle” con Simon Reynolds a Bologna circa due anni fa. Inizialmente dovevamo farla in Gallleriapiù ma, visto il numero elevato di partecipanti, siamo stati costretti a trasferirci in un circolo anziani lì davanti. La serata inizia con un intervento di presentazione / marketta di dj Balli che comincia a presentarci come la next big thing, ma fino a lì tutto ok. A un certo punto scopriamo che la sala era stata prenotata contemporaneamente per una presentazione di un libro sulla Madonna di Medjugorje, quindi ci siamo ritrovati con un gruppo di anziani che hanno cominciato a urlare per mandarci via. Fortunatamente Reynolds è stato comprensivo e ha spostato la sessione di domande e firma copie nel giardino.