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40 anni del Leoncavallo

17/18 - 10 - 2015 Leoncavallo, Via Watteau 7, Milano

di The Fall of Because

Era il 1988, avevo 10 anni ed ero di fronte alla mia “Prova di iniziazione”. Quella che mi avrebbe fatto fare il salto e diventare un uomo (vabbè, facciamo un ometto), quella che avrebbe dimostrato che avevo coraggio da vendere. Dovevo solo fare due passi e avrei fatto il mio primo gesto da adulto e per di più ribelle: entrare al Leoncavallo. Non feci quei due passi, anzi scappai via e la diedi vinta ai miei genitori che quel luogo lo definivano “pericoloso” – con lo stesso sguardo di Bilbo che ti parla di Mordor. Per chi veniva come me da Lambrate, quartiere che all’epoca era più famoso per gli eroinomani che per la stazione ferroviaria, e che per vedere le luci del centro doveva trovare il modo di scostarsi da davanti piazzale Loreto, il Leoncavallo faceva da luogo di mistero, di lotta, di incontro e di divertimento. Escluse poche eccezioni, il Leo era l’unico luogo in cui il quartiere poteva trovare qualcosa di diverso dalle siringhe e dalla catena di montaggio. L’anno dopo ci fu il primo sgombero. Pillitteri decise di usare la mano pesante, ancora ricordo le foto del 16 agosto dei ragazzi con il passamontagna che cercavano di tenere lontana la polizia da più di 10 anni di lavoro collettivo e di lotta. Ai miei occhi erano come i rapinatori dei poliziotteschi, che finalmente davano una lezione allo sbirro dalla riga scolpita, Franco Nero. Quello sgombero aprì il Leo a tutta Milano, da realtà di quartiere diventò il baricentro della Milano in rivolta. Da lì venivano i vagiti delle Posse tramite Radio Onda Diretta, la radio libera del Leoncavallo, che ascoltavo in maniera carbonara nel salotto di casa mentre mia madre guardava interessata Maurizio Costanzo e “Fantastico” in tv (quanto piacere provavo ad ascoltare l’Internazionale alla fine delle trasmissioni). Lì dovevi andare se volevi vedere un concerto senza dover rinunciare alla merenda per mesi. Lì andavi per scoprire cosa volessero dire parole, alle mie orecchie roboanti, come “occupazione” e “autogestione”. Lì sarei dovuto andare – se avessi avuto l’età per comprendere – per sentire il polso del Movimento milanese. Poi venne il 1994. A gennaio le ruspe tirarono giù tutto: mura, idee, computer, radio, graffiti e concerti. Il Leoncavallo perdeva la sua casa storica. Lo shock fu grosso e nella nuova sede di via Salomone, sarà stato per il poco tempo prima dello sgombero o per la lontananza da Lambrate, non misi mai piede. Ricordo però il settembre del ‘94, quando venne occupata via Watteau 7 e la manifestazione di due giorni dopo in cui la polizia trasformò il centro di Milano in “un giorno di ordinaria follia” e a suon di manganelli e lacrimogeni disperse 4mila persone.
Da quel ’94 il Leoncavallo non si è più mosso. Via Watteau è diventata la casa della maturità e dei primi 40 anni. In 21 anni tra quelle mura è passata tutta Milano, chi per il concerto, chi per una birra a ora tarda, chi, si spera molti, per esprimere dissenso e provare a trovare modi diversi di pensare e di vivere rispetto al modello che offriva una città che per anni è stata ai minimi storici di vitalità, creatività e cultura (la Milano da bere negli anni 80, la Milano in mutande di Albertini, per concludere con la morte cerebrale del periodo Moratti). Di ricordi ne ho tanti, dalla coda chilometrica (in senso letterario) del concerto di Carmen Consoli negli anni 90, alla sera in cui accompagnai don Gallo fino alla macchina; dall’estasi di fronte ai quadri monumentali di Baj, alle sbronze prese a “La Terra Trema”, facendo finta di essere sommelier per un giorno; dalle serate di devasto hardcore in Dauntaun alle chiacchierate con le “Mamme del Leoncavallo” sulla Milano degli anni 70. Il 18 ottobre ci sarò a spegnere le 40 candeline sopra a una (spero) gigantesca “space” cake e a godermi un po’ di retrospettiva di quello che è stato un pezzo della Milano che ho sempre sentito a me più vicina. E sarò anche pronto al futuro (Lightning Bolt e ventennale della Planet Mu tanto per citare due ciliegine imminenti) di quello che il compagno Sgarbi ha definito «un museo a cielo aperto».

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