C’eravamo tanto cascati. Un bel giorno, a metà degli anni Novanta, un’improvvisa martellata arrivò prima nelle orecchie e poi nella testa di milioni di individui. Volenti e nolenti, grandi e piccini, inglesi e non, studentelli e operai, puristi di un certo tipo di musica e avventurieri ai primi ascolti non solo alternativi ma anche assoluti: tutti prigionieri, prima o dopo, di un colpo di martello. Colpiti e affondati dal conseguente rapporto di amore o di odio, ma mai di indifferenza, con quella martellata chiamata Oasis, partita dalle case popolari di Manchester e riuscita nel giro di tre anni a giungere all’apoteosi di due storici concerti sold out a Knebworth davanti a 250 mila fortunati presenti (e non dei quasi 4 milioni di sfortunati cacciatori di un biglietto rimasti a secco). Del tragitto dalle stalle degli anni precedenti al 1993 alle stelle del 1996 della band dei fratelli Noel e Liam Gallagher, disseminato da dischi in cima alle classifiche mondiali, tour trionfali, scazzottate, risse, titoloni sulle prime pagine dei tabloid, consumo di droghe, interviste senza filtro, sbronze, risate e parolacce, se ne occupa il film documentario Oasis: Supersonic, diretto da Mat Whitecross, in programmazione il 7, l’8 e il 9 novembre nelle sale cinematografiche italiane (la distribuzione è di Lucky Red). Un affresco che, privilegiando la pura e semplice sostanza a qualsiasi pleonastico esercizio sulla forma, arriva dritto agli occhi, alla pancia, al cuore e al cervello soprattutto di chi, poco importa se dal loggione o dalla prima fila, ha visto e vissuto sulla sua pelle il triennio dell’incredibile scalata degli Oasis.
«Era un periodo fantastico in cui vivere», esce dalla bocca del Gallagher maggiore a un certo punto del film. E lo è stato, grazie all’incontro ravvicinato con gli Oasis nel loro viaggio fino a toccare vette inimmaginabili, anche da queste parti. Così mentre Noel, Liam, Bonehead, Guigsy, Tony McCarroll prima e il londinese Alan White poi scalavano il mondo, dividendolo in chi li amava e in chi li odiava, qualcosa di neanche tanto piccolo si muoveva pure in città come Milano e Roma. C’era un universo parallelo fatto di locali con una programmazione alternativa, serate indie affollate da un pubblico competente e numeroso, file davanti ai negozi di dischi specializzati per l’uscita di un singolo, assalti alle poche edicole che vendevano le riviste musicali straniere, passaparola e trasferte con ogni mezzo per concerti più o meno lontani. Una dimensione dove, per colpa o per merito dell’incrocio con il tornado gallagheriano di quei tempi, erano racchiuse piccole grandi storie di vita realmente vissuta meritevoli di essere condivise o tramandate. Aneddoti, fatti, memorie, ricordi, luoghi, personaggi ed eventi, sia strettamente personali che totalmente collettivi, capaci di segnare o spostare per sempre il confine professionale – e in alcuni casi anche esistenziale – tra il prima e il dopo l’incontro, fortuito o voluto, con la band di Manchester: sette addetti ai lavori – Lele Sacchi, Francesco Mandelli, Andrea Dulio, Romina Amidei, Andrea Esu, Fabio Luzietti e Pietro Di Dionisio – raccontano attraverso un flusso di coscienza in prima persona dell’impatto degli Oasis di quegli anni anche sulla cultura pop di città come Milano e Roma. «La gente non dimenticherà mai come l’abbiamo fatta sentire in quel periodo – proclama più o meno Noel, poco prima dei titoli di coda del documentario, sulle note di The Masterplan – e adesso non sarebbe più possibile. Questo erano gli Oasis». Parole utili per comprendere perché, anche a queste latitudini, ci sono – e ci siamo – cascati in tanti. E nessuno, neanche vent’anni dopo, se n’è mai pentito.