Più che “istituzione”, la parola giusta per descrivere tutto quello che rappresenta ed è successo attorno al The Jerry Thomas Project è “catalizzatore”. In vicolo Cellini – sede dell’omonimo Speakeasy – è avvenuta una reazione chimica che ha messo in moto persone, luoghi, forze, storie e ha dato forma e anima alla miscelazione capitolina, che da nebulosa si è trasformata in un corpo solido e ha messo Roma nella mappa globale dei banconi che contano – nonché nella classifica dei World’s 50 Best Bars. I nomi dei quattro alchimisti ormai sono noti – Alessandro Procoli, Antonio Parlapiano, Leonardo Leuci e Roberto Artusio – e in quest’intervista non andremo solo a raccontare i loro primi passi, ma anche i percorsi futuri: un nuovo progetto, Latta, dove collaboreranno con in team assieme a Leonardo Di Vincenzo e Paolo Bertani e il cui tema portante sarà la fermentazione. Un nuovo passo in avanti per il food & beverage romano, destinato certamente a fare scuola. Apertura prevista per fine 2019.
Iniziamo l'intervista partendo da quello che sarà il futuro prossimo: Latta. Come e quando è nato questo progetto?
Latta prende il via da un’amicizia: quella tra noi del Jerry, Leonardo Di Vincenzo e Paolo Bertani, nata ancora prima della collaborazione per l’Osteria di Birra del Borgo. Parliamo dell’epoca del No.Au, locale per cui realizzano un americano in fusto. Poi gli scambi professionali e l’amicizia sono andati in parallelo fino a realizzare una cocktail list ad hoc per l’Osteria. Abbiamo visto che la cosa funzionava e ci siamo promessi di dar vita a qualcosa di più strutturato non appena ce ne fosse stata l’occasione. Quando abbiamo saputo che i ragazzi di Stavio volevano staccarsi dal loro locale ci siamo attivati per definire bene il progetto in tutti i suoi dettagli, visto che quello che abbiamo ereditato è uno spazio importante: per location, dimensioni e tanti altri aspetti.
Andiamo ai dettagli del progetto allora.
Mentre ragionavamo sull’acquisizione abbiamo anche iniziato a confrontarci sui contenuti, cercando di capire quali potessero essere i contributi di entrambe. Venendo dal mondo della birra, Leonardo poteva mettere un bagaglio importantissimo di conoscenze sulla fermentazione ed è proprio su questo concetto che andremo maggiormente a lavorare: una cosa abbastanza d’avanguardia, in Europa e anche nel mondo. Di bar che ti offrono il proprio fermentato fatto in maniera artigianale – ad esempio kombucha o tepache – ce ne sono diversi, la nostra idea, invece, è quella di creare un vero e proprio laboratorio, che sarà sistemato in un delle quattro arcate del locale e dove ci saranno i fermentatori. Anche se la presenza di Leonardo potrebbe fare supporre il contrario, da Latta non si parlerà di birra, ma di fermentati, ci teniamo a sottolinearlo.
Come funziona la fermentazione su cui andrete a lavorare?
Il procedimento è molto simile a quello della produzione della birra. Basti pensare che i fermentati sono le prime bevande alcoliche prodotte dall’uomo. In giro per il mondo ce ne sono tantissimi e si tratta spesso di ricette e procedimenti molto antichi. Il risultato è quello di una bevanda con un grado alcolico medio basso che può ricordare quello di una birra, leggermente gassata, con un bel bilanciamento di dolcezza e acidità e con vari sapori a caratterizzare i diversi prodotti. Come Jerry stiamo cercando innanzitutto di delineare i cocktail che saranno serviti all’interno di Latta, che saranno tutto fuorché canonici. Non faremo miscelazione classica, piuttosto stiamo lavorando su due linee: da una parte stiamo cercando di ricreare i sapori di alcuni cocktail tramite la fermentazione – ad esempio, stiamo cercando di ricreare un Americano, un Negroni o un Manhattan, in modo da poterlo servire sodato, con un “flavour” che ricordi il cocktail originale – d’altra stiamo lavorando sul concetto di high ball: quindi ghiaccio, distillato o cocktail pre miscelato, top di fermentato. Riassumendo, una parte dei fermentati verrà conservata in fusto e servita alla spina, un’altra verrà servita in latta e un’altra ancora in high ball.
A proposito di latta, come entra in gioco questo materiale?
Il locale si chiama così perché metteremo al suo interno un macchinario per l’inlattinamento: tutto quello che produrremo in loco verrà messo in lattina – parliamo di una produzione medio piccola quindi. Vogliamo unire un prodotto di alta qualità come il fermentato a un contenitore povero come la lattina, che rappresenta da sempre il concetto di grande distribuzione e grandi numeri. Quindi si potrà portare a casa il six pack e bere in lattina sia il fermentato che il cocktail realizzato con quel fermentato. Un discorso simile lo faremo per la cucina: non lavoreremo con piatti tradizionali, quindi non ci saranno tovaglie, stoviglie e posate, bensì materiali in compost, quindi a impatto zero, che potranno essere un incartamento come un box o addirittura una tovaglia in carta riciclata su cui verrà servito direttamente il cibo: si mangerà spesso e volentieri con le mani. Oltre alla plastica vorremmo anche limitare al massimo l’uso di saponi e di grandi quantitativi di acqua per le stoviglie. Seppur nel nostro piccolo, cercheremo di dare una mano all’ambiente. Il locale sarà diviso in quattro arcate, nella prima ci sarà la cucina, nella seconda il bar, che sarà collegato al laboratorio nella terza arcata. L’ultima arcata sarà una sorta di saletta lounge, con divanetti e cose così. Sarà tutto quanto a ferro e vetri a vista e si potrà mangiare sia nel lato bar che nelle altre zone del locale.
Praticamente, quasi per ironia della sorte, passerete da una dimensione speakeasy a una delivery.
Sì, praticamente sì! Chiacchierando tra di noi spesso ci dicevamo che ci mancava il pub e la dimensione da pub, che ci piace da sempre a tutti. Latta ovviamente non è un pub tradizionale, ma lo vogliamo pensare come se fosse una sua evoluzione, un “modern pub”. Oltretutto abbiamo un dehor con un centinaio di posti. Vogliamo fare un qualcosa che sia veramente aperto a un pubblico ampio: anche se descrivendolo può sembrare complesso, in realtà il progetto sarà molto semplice e aperto a tutti.
Questa nuova dimensione vi porterà anche a confrontarvi con limitazioni e ordinanze. Vi spaventa un po' come prospettiva?
Mah, in realtà non tanto, perché, per l’appunto, abbiamo uno spazio esterno molto ampio e il vetro lo limiteremo molto, facendo il grosso in lattina. Oltretutto la zona di Roma in cui siamo non è di quelle dove prendi da bere per poi passeggiare in giro. Sugli orari, diciamo che dopo anni di nottate fonde, chiudere alle 02:00 ci pare un sogno! Apriremo sempre dalle 18:00 alle 02:00, ma il sabato e la domenica apriremo alle 11:00 di mattina per il brunch e poi faremo una tirata fino a chiusura.
In un'altra intervista avete definito Latta un locale pop, aggettivo che mi ha incuriosito molto.
Pop per noi vuol dire popolare. Non si abbandona assolutamente la ricerca, ma cerchiamo di avvicinarla a più persone, così come è successo per la birra artigianale, i vini o i cocktail.
Visto che abbiamo tirato in mezzo il concetto di "popolare", ne approfitto per chiedervi a che punto è la miscelazione a Roma.
È cresciuta molto, parecchie realtà hanno seguito il sentiero aperto dal Jerry ormai una decina di anni fa. Ci sono state tante nuove aperture e molti che hanno dato continuità al movimento. Il pubblico si è abituato e, soprattutto, ha imparato a bere meglio, a saper chiedere, a riconoscer le cose fatte bene da quelle fatte male. Di contro c’è che la miscelazione diventata un fenomeno di moda, quindi ci sono molti bar e bartender improvvisati, che cercano di scopiazzare un po’ qua e là, con tutte le conseguenze negative del caso. Sono un problema anche i parecchi paletti che Roma mette a questo lavoro: ci dovrebbe essere un po’ più di sostegno, e in questo ci metto anche la ristorazione, l’hôtellerie etc.
Un aspetto particolarmente positivo di questa crescita e quella che invece è stata un'occasione mancata?
L’aspetto positivo è certamente l’educazione al bere, il lavoro sui prodotti, l’aver reimparato e ristudiato ricette e ingredienti. L’occasione mancata riguarda la disinformazione e l’approssimazione che ancora persistono. Ci sono tante persone che aprono un pub o un cocktail bar pensando che basta mettere dentro due o tre prodotti e la cosa funziona. Che poi in alcuni casi gli va bene sul serio, perché sei comunque in una città con delle location pazzesche che ti fanno fare grandi numeri, però sono veramente tanti quelli che chiudono. In occasione di un recente incontro con Confesercenti, discutevamo proprio del numero impressionante di attività che aprono e chiudono nello stesso anno. Questo non è lavoro per cui apro e faccio la carbonara con la tovaglia a quadretti, o apro e faccio Cuba Libre e mojito. Il pubblico non è più quello: basta pensare solo a quanto il mondo del food e beverage è presente in televisione, cosa che ha i suoi risvolti negativi – ovvero devi fare Cracco anche a casa altrimenti non si mangia – ma anche quelli positivi, tra cui una maggiore conoscenza, un’attenzione alla qualità e ai dettagli quando si esce fuori. Lo stesso discorso vale per i bar: quelli improvvisati rischiano. Anche le caffetterie si stanno svegliando, perché il prossimo passo riguarderà proprio questo mondo, dal momento che sempre più persone stanno capendo che il caffè o si beve bene oppure no.
Anche qui ci sarà un ritorno alle origini e alle torrefazioni?
Esattamente, perché il problema è nato proprio quando le torrefazioni si sono appiattite totalmente sul mercato. C’è un documentario sugli specialty coffe che spiega come il caffè abbia la stessa importanza del petrolio come movimenti di borsa: immaginate quindi quanto caffè si beve al mondo e quanto bassa sia la qualità media per fare questi numeri, senza contare l’approssimazione con cui si prepara – i caffè sono quasi sempre bruciati, le macchine sporche etc. Si muoveranno molte cose in questa direzione, arriveremo anche lì agli estremi e ai talebani del caffè, ma sarà un qualcosa che almeno smuoverà e farà bene alle anime
Tornando al Jerry e facendo qualche passo indietro, avreste mai immaginato che sarebbe arrivato a essere riconosciuto come un'istituzione?
Io (Alessandro) sono arrivato al Jerry il primo anno, Leonardo, Antonio e Roberto avevano aperto a marzo. Leonardo lo conoscevo da tanti anni perché avevo già lavorato insieme in un mio secondo locale sulla stessa via del Jerry, che era un club come il Jerry, ma negli anni 90, quindi tutto dedicato al mondo surf e skate. Stesso concetto davvero: spioncino, porta chiusa etc. – se ci pensi è assurda come cosa. Quando ci siamo incontrati qualche tempo più in là, Leonardo mi invitò a passare in questo nuovo locale che aveva appena aperto e sono entrato in società dopo neanche la fine della prima stagione. A quell’epoca il Jerry era un club esclusivamente per addetti ai lavori perché Leonardo, Antonio e Roberto lavoravano in altri locali, quindi quando chiudevano si portavano appresso un po’ di bottiglie, aprivano il Jerry, venivano altri bartender del giro e si sperimentava con i cocktail fino all’alba. Lavorando sul libro di Jerry Thomas abbiamo riscoperto tutti i grandi classici: Old Fashioned, Sazerac, Mint Julep, tutti drink che, filtrati da anni di liste e ricettari approssimativi, praticamente non si bevevano più perché venivano fatti veramente male. Dopo il mio arrivo ci siamo dedicati tutti e quattro completamente al Jerry, dandogli quella linea che ha tutt’ora. Detto questo, con sincerità dico che non ci saremmo mai aspettati, tanto meno all’inizio quando il Jerry era un club per amici, di arrivare dove siamo ora con la scuola, i prodotti, il laboratorio, l’emporio etc.
Il mondo del Jerry gira tutto attorno al mitico ricettario scritto dal Professore anni or sono. Come siete entrati in contatto con questa pubblicazione?
Il libro è sempre stato a disposizione di tutti, ma poi chi arrivava a leggerlo sul serio era sempre solo un ristretto gruppo di appassionati. Un ruolo fondamentale per la sua riscoperta lo ha avuto il movimento della cocktail renaissance statunitense nella metà degli anni 80. Più precisamente, è al Rainbow Room di New York che un gruppo di persone ha ricominciato per la prima volta a lavorare sui testi storici di Jerry Thomas. Poi da lì la renaissance si è spostata in Europa. Non è facile interpretare quello che ha scritto Jerry Thomas riguardo proporzioni, dosaggi, ingredienti home made per gli sciroppi, zucchero, liquori, shrub etc. Piano piano abbiamo iniziato a studiare il libro e a testarlo, finché non siamo arrivati a un nostro punto.
Cosa c'era negli spazi di vicolo Cellini prima del Jerry?
C’era un altro locale che si chiamava Backstage, un piccolo club con un bar la cui (ex) proprietaria è una nostra amica, Eleonora. Era un locale aperto fino a tardi e una volta Leonardo, Antonio e Roberto fecero qui una riunione sui primissimi passi del progetto Jerry Thomas – ancora, per l’appunto, non si parlava neanche di un locale. Chiacchierando con lei è venuto fuori che voleva venderlo e di colpo si accesa la lampadina, perché praticamente quel locale era uno speakeasy.
Per molti bartender siete voi i maestri. I maestri del Jerry invece chi sono stati?
A Roma c’erano dei nomi e dei personaggi, ma il periodo in cui ci siamo attivati era un periodo di transizione, con molti dormienti: gente che, come noi, aveva studiato e viaggiato. La maggior parte dei nostri riferimenti però sono stati esteri: professionisti di Londra, New York, o qualche italiano che si era trasferito, come Ago Perrone, che già all’epoca faceva furore. Quello che sicuramente ci ha accomunato è che tutti e quattro abbiamo viaggiato molto e la scintilla del Jerry Thomas Project è scaturita proprio dall’aver capito cosa mancava in Italia e a Roma, e questo è possibile solo se viaggi e ti confronti. Mancava un movimento, una comunità, che invece ora è molto grande e forte, tant’è che si è arrivati al primo Bar Show a Roma.
Sempre in tema di libri, in questo 2019 ne è uscito uno che vi vede protagonisti.
L’idea di un libro dove racchiudere i primi anni della nostra esperienza era nell’aria da diverso tempo. Poi siamo stati contattati da Marco Bolasco di Giunti e siamo venuti a sapere che la casa editrice era interessata a realizzare con noi un libro sui cocktail. Da lì abbiamo iniziato a ragionare su come metterlo giù e abbiamo pensato che sarebbe stato più giusto realizzare una pubblicazione che raccontasse il nostro percorso, come e perché siamo arrivati al punto dove siamo ora: racconti, incontri, aneddoti. Ovviamente passando per i cocktail, perché sono stati il mezzo attraverso cui siamo riusciti a dar vita a tutto il nostro mondo. C’è una prefazione di David Wudrich, un mixographer molto apprezzato, autore di “Punch” e “Imbibe!”; c’è una piccola appendice di Jude Law, un nostro cliente e un nostro amico. Spieghiamo che cos’è il “twist on classic”, che è stato praticamente il nostro percorso, e abbiamo scelto 23 cocktail per noi rappresentativi, raccontandoli prima nella versione originale, poi nella nostra versione del classico e infine nella nostra visione di twist. Ci sono delle guest con dei contributi: Dre Masso ha scritto di tequila, Marian Beke di rum, Luca Picchi e Tony Conigliaro di Negroni, Charles Vexenat ha messo un suo drink storico con l’assenzio, Jeff Berry ha fatto una sua versione del Daiquiri. Poi ci sono tanti altri contributi di tutto il nostro staff: è un libro collettivo. Le foto sono di Alberto Bloise, la grafica è di Puxeddu-Vitale, uno studio che collabora con Giunti, mentre le illustrazioni sono di Francesco Ripoli. Insomma, dentro c’è tutta la nostra storia.
C'è un cocktail che ritenete sia il più rappresentativo del vostro percorso?
L’Improved Aviation (ricetta di Antonio), c’è poco da girarci intorno. È un drink che sta dieci anni in carta e funziona come il primo giorno.
Tornando a Latta, con questo locale state per buttare per l'ennesima volta la palla in avanti.
Beh sì, a noi piacciono le sfide. Questa è bella tosta, ma è più difficile a raccontarsi che a farsi.
A proposito di futuro, come vedete quello della miscelazione?
Ti diciamo quello che faremo noi, prendendo un po’ il La da cose che stanno succedendo oltreoceano come a Londra. Noi stiamo tornando al classico, all’essenza pura del lavoro di Jerry Thomas: i nuovi menu sono (quasi) tutti basati su cocktail di Jerry Thomas, quindi i suoi classici originali, nelle nostre versioni e visioni. Per il resto, ci sono dei cerchi, dei ritorni continui: c’è stato il gin, il rum, i distillati di agave – dove siamo stati precursori con La Punta. Ora magari ritornerà prepotente la vodka…
In questo andirivieni di cicli e tendenze, qual è il segreto per rimanere in piedi e, in soldoni, non chiudere il proprio locale?
Avere un’identità, perché la moda passa – anche gli speakeasy sono stati una moda, figuriamoci. Bisogna avere un’identità, mantenere standard qualitativi sempre alti, altrimenti quando il trend passa si rischia di cadere velocemente. La professionalità è tutto: se cominci a mollare un po’, le aperture sono tante, le mode passano e va a finire che chiudi, c’è poco da fare.
Contenuto pubblicato su ZeroRoma - 2019-10-01