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Marco Ferreri

Spazio Oberdan, V.le V. Veneto 2.

di Filoteo Alberini

"Il cinema è merda". Un paradigma, una dichiarazione di poetica, forse un'ovvietà. "La mia sola morale è quella di fare film negativi". Parole franche, parole vere, davvero. Non si può non credere a Marco Ferreri: sarebbe assurdo, come dubitare dell'ululato del lupo. Il suo cinema è oltre il compromesso (con il pubblico, con la critica), supera senza difficoltà gli squallidi patti che l'arte spesso deve stipulare con il suo tempo. Ci parla di "verità parziali, per lo più sgradevoli, spesso inaccettabili", effettua profonde ricognizioni sui "megatrends sociali, antropologici e biologici". Punisce tutti, nell'epoca di gestazione del cancro del politically correct: l'istituzione familiare ("L'ape regina"), la coppia ("Marcia nuziale"), la cultura religiosa ("L'udienza"). Dal cappello a tubo di Marco escono generi nuovi, in parte ancora inesplorati: horror esistenziali satirici ("Ciao Maschio"), fantascienza simil-brechtiana ("Il seme dell'uomo"), film in costume schizofrenici ("Non toccare la donna bianca"). Difficile trovare nella storia incubi così ironicamente lucidi. Ed è più duro ancora vedere un artista parlare con tale trasparenza del ruolo del maschio (debole, sperduto, assassino) nel mondo libero. "Dillinger è morto", "La donna scimmia", "La grande abbuffata" sono mostruosi capolavori, da rivedere sino allo sfinimento oculare.

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