In tempi di astinenza, la cosa più ovvia da fare è rivolgersi al pusher di fiducia. Astinenza da tutto o quasi, per noi in particolar modo dalla musica live, che reclusi dentro casa stiamo provando a tamponare con dischi nuovi, registrazioni live incredibili e visioni non convenzionali. Sempre nel tentativo di riempire bene il copioso tempo (più o meno) libero casalingo, ma anche semplicemente per fare da colonna sonora all’ozio o alle pulizie di mezza (?) stagione, non potevamo che finire col rivolgerci a chi la musica (live, ma non solo) ce la spinge tutto l’anno: organizzatori di concerti e direttori artistici di club e circoli più o meno piccoli, musicisti, negozi di dischi, etichette e radio indipendenti, oggi perlopiù costretti a un silenzio forzato. Buoni consigli ma soprattutto proposte di dischi non scontati – del presente o del passato, inevitabilmente influenzati dallo scenario di isolamento e emergenza da virus di sfondo – che magari il nostro radar non avrebbe mai intercettato. Ogni settimana chiediamo ai nostri amici da tutto lo Stivale di darci un consiglio per l’ascolto, andando a ravanare nella loro collezione di dischi o nelle scoperte più recenti. Con l’obiettivo di aprire più porte possibili – OVVIAMENTE a eccezione di quella di casa.
ADRIANO CAVA
Da qualche anno fa parte di Misto Mame e della New Weird Italia, appartamento espanso e collettivo artistico non lineare dell’underground capitolino che sta riscrivendo i rapporti fra rap, elettronica e sperimentazione (se siete andati in fissa per Pufuleti, è anche lui che dovete ringraziare). Romano, studia filosofia, suona nel progetto Altrimenti e performa come Soundof???Repubblica. Nel 2016 ha contribuito alla fondazione del mensile indipendente Scomodo e dal 2018 è attivo a Spin Time Labs, occupazione abitativa e cantiere di rigenerazione urbana, del quale ha gestito la comunicazione e l’organizzazione di alcuni concerti.
Sugai Ken – “UkabazUmorezU” (Rvng Intl, 2017)
Consigliare dei dischi in questi mesi è un compito particolarmente delicato. L’eccesso di informazioni, stimoli, immagini e dati che già prima era pressante, ora è diventato ancora più aggressivo. Nel panico generale ci siamo trovati senza concerti, senza incontri e “assembramenti” vari; in qualche settimana sono emerse a farci compagnia migliaia di radio, streaming, album, spot e perfomance. Tentativi di condivisione, fuori (o meglio, senza) luogo, che riempiono le nostre bolle e che intenzionalmente o meno rischiano di ridursi a intrattenimento e distrazione. In attesa di capire come e quando riconquistare lo spazio e il tempo di cui abbiamo bisogno propongo di riascoltare in questa primavera un disco necessario, approcciandosi soprattutto ai silenzi e alle pause, agli spazi vuoti che lascia a chi ascolta e alle zone che prende. Consiglierei “UkabazUmorezU” di Sugai Ken, uno dei dischi che più mi sembra rendere possibili questi spazi nell’ascolto. Ma sono tanti i lavori che suonano in questo senso e può essere un buon esercizio cercare il proprio.
CORRADO GIOIA
Radici nel punk, una vita passata “tra Loreto e Turro” e un percorso professionale ancora oggi segnato dall’etica DIY. Da quasi 15 anni, Corrado Gioia è l’uomo dietro Hard Staff – l’agenzia di booking che porta in Italia artisti di peso come Sunn O))) e Chelsea Wolfe ma anche nomi meno noti e più oscuri della scena internazionale – e una delle menti del festival/terapia d’urto milanese SoloMacello. Alle spalle, la militanza negli spazi del primo Leoncavallo e tredici anni di attività con Riot Records, distro diy che poi è diventata anche negozio di dischi, diretto predecessore dell’attività di Hard Staff.
Dr. Know – “Plug-In Jesus” (Ghetto-way Records, 1984)
Non so se questo disco sia adeguato o meno per il periodo, è che stando tanto tempo in casa ho cucinato molto, sono ingrassato, mi ostino a ripensarmi magro e ho messo a posto degli scaffali dai quali sono rispuntati dei dischetti che non ascoltavo da un po’. Quando iniziavo a conoscere i Dr. Know – californiani di Oxnard – avevo 17/18 anni, allora c’era Craxi, in quel periodo giravo in skate con alterne fortune e andavo matto per ste cose veloci, caotiche, sporche di metal che si allontanavano e tanto dal primo punk: il “Nardcore” era proprio quello che faceva per me. Loro, insieme a Stalag 13, Ill Repute, Aggression e RKL erano sulle cassette che mi facevo per comodità, insieme a JFA, Suicidal Tendencies, COC e la compilation “Welcome to Venice”. Non erano diversi da me, non dovevi perdere ore ad alzarti una cresta o a seguire un’uniforme che ti identificasse e di cui non mi fregava un cazzo; un’uniforme piena di orpelli che intralciava in skate, per scavalcare cancelli, per andare al parco o saltare i tornelli della metro – era ovvio che anche loro provenivano da quartieri periferici con pochi soldi in tasca. E poi c’era un altro fattore che me li ha subito resi cari: sono sempre stato un avido lettore di fumetti e uno dei fratelli Hernandez (Ismael) suonava in questo disco, amo “Love and Rockets” e le loro grafiche sono sempre state eccezionali, come appunto tutte quelle locandine disegnate da Jaime per concerti di gruppi di quella scena, quei concerti con le informazioni in spanglish a cui avrei voluto assistere. Insomma, in quarantena, distanziato socialmente, mi è piaciuto tornare a un tempo in cui passavo tutta la mia giornata in giro, per strada, all’aria aperta, in quelle interminabili giornate estive senza nulla da fare, quando non mi sarebbe mai passato per la testa che avrei vissuto un’epidemia nella mia vita. Attenzione, questo disco non vi piacerà, è lo stesso effetto che faceva su mia madre, quindi per l’epoca il risultato era esattamente quello voluto: what we do is secret. Qui manca una canzone, “Fist Fuck”: un brano che è uno scherzo, un solo riff continuamente ripetuto e interrotto, ma quei bigottoni di Youtube non lo fanno caricare, peace.
FILIPPO ALDOVINI
Dal 2008 è fondatore e direttore artistico di NODE, festival modenese incentrato sull’incontro tra musica e arti digitali che nel corso degli anni è diventato una delle realtà più importanti all’interno del panorama nazionale e che continua a dirigere tutt’ora. Ha iniziato molto presto, nel 2008, quando aveva 23 anni e per qualche tempo c’è stata anche un’etichetta discografica, Zymogen, una delle prime net label italiane, su cui pubblicava robe di elettroacustica e da cui sono passati artisti come Nicolas Bernier, Marihiko Hara, Nicola Ratti, Simon Trottier (chitarrista dei Timber Timbre) e molti altri. Oggi fa parte anche dello studio d’arte fuse* e con NODE si appresta a tagliare il traguardo della decima edizione nel prossimo autunno.
Tape – “Luminarium” (Häpna, 2008)
I Tape sono un trio svedese che nel primo decennio dei Duemila ha pubblicato una serie di album di rara bellezza ed eleganza, di cui “Luminarium” è sicuramente il mio preferito. Parlare di musica elettronica è riduttivo, perché la componente digitale, nonostante svolga un ruolo importante nelle architetture sonore, viene considerata più come un tramite per aumentare le trame degli strumenti acustici in maniera subliminale e mai invasiva. Non si tratta di un disco epocale o rivoluzionario, ma di una raccolta di piccole meraviglie elettroacustiche estremamente evocative, accessibili e profonde. A dodici anni di distanza dalla sua pubblicazione, “Luminarium” continua a essere un disco che per me significa casa e dove, mai come ora, accolgo luci e ombre.
FRANCESCO CERRONI
Dove c’è un palco c’è lui. Gli over trenta (soprattutto romani) lo ricorderanno al basso dei Poppy’s Portrait, poi dopo aver suonato per anni è passato dietro le quinte dei palchi di mezza Italia. Stage manager di vari festival importanti (Ypsigrock, Siren, VIVA tra gli altri) e tour manager per numerosi artisti italiani (Coez, Riccardo Sinigallia, Cosmo, Franco126…) e internazionali (Tame Impala, Mumford & Sons, Mogwai, The xx,), è una delle figure più professionali e rodate nel suo settore, ma lo troverete comunque sempre disponibile per un consiglio da amico, una battuta o un passaggio nelle vostre trasferte pazze. Da qualche anno, il suo amore più grande è il palco del MONK, fondato insieme ai compagni di avventura di Ausgang.
Motorpsycho – “Timothy’s Monster” – (Stickman Records, 1994)
“Timothy’s Monster” fa parte della serie positiva delle 5 meraviglie dei Motorpsycho dal ’93 al ’98 insieme a “Demon Box”, “Blissard”, “Angels and Daemons at Play” e “Trust Us”. Un disco che mi ha aperto la visione della musica a 360° e mi ha fatto recuperare tanti artisti del passato che prima ignoravo e che poi sono diventati le fondamenta di tutti i miei ascolti. Quelle loro fonti d’ispirazione messe in bella vista come fosse un continuo ringraziamento alla loro formazione musicale (i suoni “raugh” dei Velvet Underground, la psichedelia infinita dei Grateful Dead, la grazia straziante di Neil Young, il muro di corde esasperato dei Dinosaur Jr., il tiro rock’n’roll dei Grandfunk), ma sempre con la propria personalità e cercando di fotografare le emozioni del momento che solo nel preciso istante di necessità possono essere davvero descritte. Il video di “Wearing Your Smell” descrive anche il loro habitat: un giro in bicicletta (con citazione di Bob Dylan) nella loro Throndeim, cittadina norvegese dove credo sia facile suonare senza essere distratti da quel che accade fuori. Ancora oggi ho i brividi su quasi tutti i brani. La potenza e la delicatezza del primo disco si concludono con “Watersound”, durante la quale dopo più di 3 minuti arriva una doccia fredda che risveglia e prepara al secondo disco. L’aria diventa più pesante e rarefatta, un po’ come vedere la luce alla fine di un tunnel ma senza capire se l’uscita si stia avvicinando o allontanando. La sensazione che noi tutti stiamo provando durante questa quarantena.
GIACOMO STEFANINI
Divulgatore del frastuono più atroce dall’underground, con il collettivo Occult Punk Gang porta concerti di punk contemporaneo negli spazi di Macao, suona nei Kobra, contribuisce ad abbassare la mediocrità di Istagram con le sue recensioni di dischi non scontati su GRRAWR, ha suonato nei Mirrorism, scritto su pubblicazioni di culto come Maximum Rocknroll e Sottoterra e trasmette su Radio Raheem con la trasmissione D.I.R.G.. Ha contribuito a dare un po’ di street credibility a Noisey, di cui è stato editor, scrivendo gran pezzi su scene sotterranee di mezzo mondo.
Chronophage – “Prolog For Tomorrow” (Cleta Patra Records, 2018)
Non riesco a immaginare una situazione più ideale per questo lockdown che avere a disposizione una grande casa con un garage dove poter suonare a tutto volume e amici e amiche con cui farlo. Il primo disco dei Chronophage sembra ricreare proprio questa atmosfera. Registrato senza troppi fronzoli su qualche vecchio 4 piste, suona libero e spontaneo come una di quelle domeniche che a un certo punto alzi gli occhi dalla chitarra e sono le dieci di sera. E non è da sottovalutare il fatto che è composto da canzoni irresistibili che strisciano negli stessi tunnel sotterranei di TV Personalities, Embarrassment, Desperate Bicycles, primi Pavement o secondi Meat Puppets, ma con un entusiasmo e uno spirito totalmente unici. Disco da quarantena per chi ha nostalgia della sala prove.
STEFANO ISAIA
Meriterebbe una medaglia al valore solo per la costanza con cui continua a sporcarsi le mani col garage punk e a darci fiducia nel futuro della musica con le chitarre. La lista di band e progetti con cui Stefano Isaia ha dato seguito alla tradizione punk (e occulta) torinese è lunga e di spessore: ovviamente gli storici Movie Star Junkies (con un disco di chitarre ruvide appena pubblicato, “Shadow of a Rose”), ma anche La Piramide di Sangue, la versione da solista come Gianni Giublena Rosacroce, e poi i progetti più recenti, Lame, Love Trap e la creatura più giovane e glam, Talky Nerds. (foto di by Bruben)
A.V. – “Escape From Synth City” (Numero Group, 2019)
Il disco che ho ascoltato di più in questi ultimi due mesi è la compilation “Escape from Synth City”, su Numero Group. Questa etichetta ha sfornato negli anni moltissime chicche, tra ristampe (i miei amati Scientists, Charlie Megira) e raccolte di band dimenticate (tra le mie preferite quella sulle band sabbathiane, come Warfaring Strangers), quindi consiglio a tutti di fare un giro sul loro strepitoso catalogo. “Escape from Synth City” è una compilation con brani di elettronica e synth wave ispirati ai videogiochi degli Ottanta, in questi due mesi ho giocato moltissimo ai videogiochi, e questo album è stato anche la colonna sonora dei miei sporadici e fallimentari tentativi per tenermi in forma guardando i tutorial di ginnastica online su Youtube. Alcuni brani hanno anche un senso di lo-fi da cameretta, di registrazioni casalinghe che hanno caratterizzato la mia reclusione e credo anche quella di molti altri musicisti. Inoltre una fuga dalla citta è la cosa che sto sognando di più ora, vorrei solo andare al mare o in montagna a camminare.